Come tante ville mono-familiari. La sfida ecumenica raccontata dal cardinal Kurt Koch
Si farà, con tutte le probabilità, il grande incontro tra cattolici e protestanti nel Settecentenario della Riforma di Martin Lutero. Ma le sfide sul tavolo restano ancora le stesse di quando Benedetto XVI, a settembre dello scorso anno, andò in viaggio in Germania. A quanti si aspettavano un “dono ecumenico” come la revoca della scomunica al monaco agostiniano che causò lo scisma, rispose che il dono non poteva che essere la fede comune in Gesù Cristo. Ed è una linea ribadita dal cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani.
Che non manca di denunciare come “negli ultimi decenni l’obiettivo del movimento ecumenico si è offuscato, e da parte di non poche chiese della Riforma è stato abbandonato l’obiettivo originario dell’unità visibile nella fede comune, dei sacramenti, a favore del postulato delle diverse comunità ecclesiali come chiese e come parti dell’unica chiesa di Gesù”. Così, aggiunge, “l’unità della Chiesa risulta essere una somma delle realtà ecclesiali e per rappresentarla mi viene in mente l’immagine di tante case mono-familiari, in cui famiglie fanno vita indipendente e si invitano a pranzo di tanto in tanto”.
Kurt Koch fa una appassionata relazione su “Unità: illusione o promessa?”, in un incontro organizzato dalla Pontificia Università Lateranense dalla Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio. E, introducendo all’incontro, mons. Enrico dal Covolo, il rettore dell’università del Papa, mostra una statuina “trovata nella catacombe di San Callisto. C’è la pecorella portata in spalla dal buon pastore che fa un gesto innaturale per girarsi con il suo musetto verso il viso del buon pastore. È questo movimento che ci deve ricordare che ci deve essere maggior slancio al dialogo ecumenico”.
Kurt Koch pone come modello dell’ecumenismo la preghiera sacerdotale di Gesù. Una preghiera che già includeva le differenze nella Chiesa, e che già precludeva ad una rinnovata unità dei cristiani. Una unità che la Chiesa deve continuare a perseguire, nonostante le correnti post-moderne che dicono “di non andare oltre la pluralità delle realtà”. “La mentalità postmoderna – dice Koch -opera oggi all’interno del cristianesimo. Ci sono correnti favorevoli al pluralismo religioso che partono dal presupposto che non vi è solo pluralità di religioni, ma pluralità di relazioni divine. Cosicché lo stesso Gesù Cristo può essere considerato uno dei tanti redentori”. E così, “nel pluralismo ecclesiologico, diventato plausibile – denuncia il cardinale – ogni ricerca di unità deve essere guardata con sospetto. L’unità è vista al massimo come riconoscimento tollerante della molteplicità e della varietà in cui si ritiene che la diversità sia già stata realizzata”.
È questa la sfida dell’ecumenismo cristiano: tenere viva la sfida dell’unità nonostante questa deriva, perché “senza ricerca dell’unità la fede rinuncerebbe a se stessa”. Come può essere l’ecumenismo cristiano? Intanto può essere solo l’unirsi nella preghiera a Gesù e deve trovare fondamento in Cristo, non può essere solo un movimento “filantropico e interrelazionale”. In fondo “non tutto l’ecumenismo è frutto del nostro fare”, dice Koch. Il quale ricorda che dalla prima conferenza – ad Edimburgo, nel 1916 – sono scaturiti due tipi di movimenti ecumenici: il movimento di un cristianesimo pratico, che ha come obiettivo i promuovere una intensa collaborazione tra le Chiese facendo fronte alle sfide della società, e Da una parte il movimento di un Cristianesimo pratico, e dall’altro il movimento per la fede e la coesione ecclesiale. Ma – sottolinea Koch – “l’uno non può vivere senza l’altro”.
Tornare all’ecumenismo spirituale, dunque. Che – sottolinea Koch – “sarebbe frainteso se portasse alla conclusione che l’unità è una realtà spirituale e invisibile”. E questo, sostiene, è evidente nel secondo orientamento della preghiera sacerdotale di Gesù: “Perché siano una cosa sola, io in loro e loro in me”. Il Dio trino, che è in sé comunione vivente nell’originale unità dell’amore, è il modello.
L’unità non è un fenomeno mondano. Ma non deve per questo essere invisibile. Cita il Papa Kurt Koch, e ricorda che ad ogni modo “ciò che non proviene dal mondo può e deve essere qualcosa che sia efficace nel e per il mondo. La preghiera di Gesù per l’unità mira proprio a questo. E Papa Benedetto si spinge fino ad affermare che attraverso l’unità dei discepoli che non proviene dal mondo viene legittimato Gesù stesso, diviene evidente che Egli è il figlio di Dio”.
Sono i temi al centro dello scontro ecumenico attuale, che si colloca “tra la comunione fondamentale nel battesimo e il mutuo riconoscimento del battesimo e la non ancora possibile piena comunione dell’eucarestia”. Per questo, sottolinea Koch, “tutti i cristiani e tutte le Chiese sono chiamati a prendere sul serio il battesimo e a maturare nell’avvicinamento ecumenico, affinché giunga il momento in cui potremo sederci all’unica mensa del Signore”.
Sgombra il campo, Koch, dal fatto che il cristianesimo non dia posto alla diversità. Perché il modello è la trinità, che è “spazio vitale per l’altro, e dunque per la diversità” , e allo stesso modo fatta di amore. E – dice il cardinale – “l’amore vero non annulla differenze, ma le armonizza in una superiore unità. L’unità ecumenica della chiesa può consistere solo nell’unità di Chiese che rimangono Chiese e diventano un’unica Chiesa”.
È una spinta ecumenica che in qualche modo è indebolita dalla concorrenza che si fanno le stesse chiese cristiane. Ma è anche indebolita dal fatto che il problema di Dio è sempre più messo da parte, e della costante alienazione della teologia dall’ambito pubblico, che portano – e qui Koch cita il teologo Johannes Metz “una privatizzazione fatta in casa dal cristianesimo”. Ma l’ecumenismo deve essere missionario, deve essere testimonianza. “Tutte le chiese che vivono in territori cristiani – afferma Koch - hanno bisogno di uno slancio missionario come di una nuova apertura alla grazia. Non vi è un progetto umano di espansione, ma il desiderio di condividere il dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita. Al centro di ogni nuova evangelizzazione deve esserci la questione di Dio”.
Koch infine pone come esempio del movimento ecumenico i martiri. “Tutte le Chiese hanno i loro martiri, e dunque è giusto parlare di un ecumenismo del martirio”. E lo stesso cristianesimo è “diventato una fede di martiri” perché “l’80 per cento dei credenti perseguitati nel mondo sono cristiani”. “L’ecumenismo dei martiri – afferma Koch - ha confermato la convinzione di Tertulliano che ‘il sangue dei martiri è il seme della Chiesa’. Dobbiamo vivere nella speranza che il sangue dei martiri diventi un giorno seme dell’unità del corpo di Cristo. Questo è dunque il nucleo più profondo della responsabilità ecumenica. Se l’ecumenismo intraprende questo cammino prenderà maggiore consapevolezza del proprio ruolo. Non può limitarsi alla parola. Deve trovare uno spazio per un nuovo stile di vita.”
E allora il prerequisito è “l’evangelizzazione della Chiesa e dell’ecumenismo. Sì, c’è bisogno di una nuova evangelizzazione. E c’è bisogno di unità. Così ecumenismo e nuova evangelizzazione non possono essere disgiunte. “La missione della Chiesa – conclude il presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani - è segno di unità. Il peccato allontana gli uomini, mentre un’unica fede gli unisce in uomo nuovo”.
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