Antonio
Livi
(Prato, 1938) è professore emerito di Filosofia nell'Università
Lateranense, socio ordinario dell'Accademia di San Tommaso e presidente
dell'ISCA (International Science and Commonsense Association). Formatosi
alla scuola di Étienne Gilson, ne ha portato avanti le ricerche
gnoseologiche, in rapporto prima alle condizioni di possibilità di una
“filosofia cristiana”, poi alla giustificazione del realismo metafisico.
Prof.
Livi, iniziamo subito da una domanda tanto impegnativa quanto urgente: che cosa
è stato realmente il Concilio Vaticano II e cosa rappresenta oggi per la
Chiesa?
Per i cattolici (gli unici che abbiano vero e
sincero interesse per un evento ecclesiale come un concilio ecumenico) il
Vaticano II è stato un atto solenne del magistero ecclesiastico. I vescovi di
tutto il mondo, riuniti a Roma nel 1962 su invito del papa Giovanni XXIII,
hanno voluto fornire alla Chiesa dei documenti dottrinali e delle norme
liturgiche e disciplinari che servissero
al rinnovamento della catechesi e al potenziamento dell’evangelizzazione in
tutto il mondo. Come volle subito chiarire Giovanni XXIII, lo scopo di questo
concilio, a differenza di quelli che lo avevano preceduto (nel Cinquecento, il Concilio
di Trento, e nell'Ottocento il Vaticano I), non era di formulare nuove dottrine
(nuovi dogmi) e tanto meno di abolire i dogmi precedentemente formulati dalla
Chiesa, ma di “aggiornare” la pastorale. Ciò ha determinato il carattere dei documenti elaborati dal Vaticano II, sia
quando era ancora in vita Giovanni XXIII sia quando gli succedette Paolo VI. Il
carattere dei documenti elaborati dal
Vaticano II è denominato “pastorale”, nel senso che in essi non c’è alcuna variazione nella dottrina tradizionale
della Chiesa ma solo lo sviluppo omogeneo
di tale dottrina dal punto di vista delle espressioni linguistiche e delle
applicazioni storiche, sia sul piano della liturgia e della catechesi che sul
piano della disciplina ecclesiastica. Siffatto carattere “pastorale”, nel senso
che ho precisato, è stato poi coerentemente e costantemente riaffermato dai
papi che hanno governato la Chiesa dopo che il Concilio ebbe termine (1965) e
Paolo VI morì (1978), ossia Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Quest’ultimo ha
poi precisato, in termini teologici, come debbano essere interpretati documenti
elaborati dal Vaticano II: essi vanno intesi come espressione di una «riforma
nella continuità», mai come una rottura con la Tradizione. Purtroppo, mentre il
Concilio stesso e i papi che si sono poi succeduti sulla Cattedra di Pietro
hanno chiarito sufficientemente che cosa debbano recepire i fedeli cattolici
dai documenti del Vaticano II, alcuni teologi e molti osservatori esterni alla
Chiesa (i cosiddetti “laici”, che in realtà sono semplicemente degli atei)
hanno immesso nell'opinione pubblica, anche cattolica, la falsa idea che il
concilio Vaticano II fosse una rivoluzione dottrinale operata, appunto,
dall'ala progressista degli intellettuali, espressione di una fantomatica
“Chiesa dal basso” che avrebbe abbattuto il potere oppressivo della gerarchia
ecclesiastica, descritta come conservatrice e anti-democratica. Insomma, un
evento pastorale della Chiesa – che, come tale, interessa solo i fedeli e solo
da essi deve essere recepito come normativo – viene a essere presentato come la vittoria di una
fazione ideologico-politica all'interno
di un’assemblea di teologi cui spetterebbe il compito di decidere quale sia la
fede della Chiesa.
Nel suo
ultimo libro, Vera e falsa teologia (Casa Editrice Leonardo da Vinci,
2012), Lei ci aiuta a distinguere l'autentica “scienza della fede” da
un'equivoca “filosofia religiosa”. Quali sono le principali manipolazioni che
si riscontrano in ambito dogmatico e morale?
Nel libro accenno all'uso scriteriato in teologia di sistemi
filosofici incompatibili con la logica della fede. Si tratta dell’immanentismo,
sia nella sua forma razionalistica (Hegel) che in quella estetizzante
(Schelling), irrazionalistica (Kierkegaard, Gadamer) o fenomenologica (Husserl,
Heidegger). Dico “uso scriteriato” perché il criterio fondamentale per l’uso di
categorie filosofiche in teologia non può che essere quello indicato dalla
Chiesa nell'epoca moderna e contemporanea (dalla costituzione dogmatica Dei Filius del concilio Vaticano I all'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II),
ossia il rispetto della specifica natura epistemica del dogma, nel quale i
misteri soprannaturali sono espressi in termini razionali, essenzialmente
realistici. Ciò significa che solo le categorie filosofiche improntate alla
metafisica realistica sono idonee a servire
da strumento concettuale di una vera e propria “scienza della fede” quale deve
essere la teologia cattolica, che altrimenti si perde in discorsi che direi
senza capo né coda (dove il “capo” rappresenta il dogma, e la “coda” la
finalità pastorale che è propria della teologia cattolica). Infatti, la missione
ecclesiale della teologia – che consiste nella trasmissione della fede
cattolica attraverso l’approfondimento del dogma e le proposte di deduzioni
speculative e di applicazioni storico-pragmatiche - fallisce completamente
quando le categorie filosofiche utilizzate nel lavoro teologico stravolgono il
contenuto aletico e il valore salvifico del dogma stesso, così come vengono
percepiti da tutti i credenti sulla base delle certezze del senso comune. Casi
emblematici (nel mio trattato illustro analiticamente) sono, in teologia
dogmatica, la proliferazione di discorsi di stampo razionalistico (hegeliano e
schellighiano) che riducono il mistero soprannaturale della Trinità e
dell’Incarnazione del Verbo a teorie panlogistiche; in teologia morale, la
proliferazione di discorsi di stampo ideologico (marxistico) che riducono la
prassi cristiana all'impegno politico-sociale, in un orizzonte temporale dove
il Regno di Dio è la realizzazione di una società perfetta ad opera dell’uomo e
del suo progresso civile.
Compito
della teologia non è solo di ripetere, con lo
scopo di adattarlo, tutto quello che è stato detto nel passato, ma innanzitutto riflettere (specialmente in tempi di crisi), risalire
ai principi a partire dai fatti, e illuminare questi con quelli. Quali sono, a
suo avviso, le maggiori sfide per un teologo contemporaneo?
Prima di rispondere, e per meglio rispondere, permettetemi
di tornare a ribadire che il compito della teologia non è quello che avete
descritto. Se per teologia bisogna intendere la “scienza della fede”, essa si
distingue da tutte le altre forme di riflessione sulla verità rivelata, come
l’ascetica e la mistica, la pastorale e il diritto canonico, la psicologia e la
sociologia religiosa: varie forme di riflessione sulla verità rivelata con le
quali si intende, come voi giustamente dite, «risalire ai principi a partire
dai fatti, e illuminare questi con quelli», ossia si intende sostanzialmente
“vivere”, cioè mettere in pratica, il Vangelo. Ma questo è un compito che
spetta primariamente al Magistero (e infatti ho detto che proprio questo fu lo
scopo del Vaticano II), al quale spetta poi di convalidare il lavoro svolto in
questa direzione da altre “agenzie”
ecclesiali, ossia dai “privati”, come quando la Chiesa conferma con la sua
approvazione la validità dei diversi “carismi” che contraddistinguono del
diverse spiritualità o cammini di santità e di apostolato. Ma, così come la
spiritualità francescana o domenicana, approvata dalla Chiesa nel Medioevo, non
invalida la spiritualità benedettina o quella agostiniana, che già dal quinto secolo
avevano dato tanti frutti di santità e di apostolato, così ogni altra
interpretazione del Vangelo ha carattere ipotetico, è relativa ai tempi e ai
luoghi, può essere giudicata conveniente o necessaria da qualcuno e invece
sconveniente o controproducente da altri, pur nell'unità della fede e della spirito
apostolico. Ora, la teologia è parimenti
un’ipotesi di interpretazione del Vangelo (nel suo nucleo di “fede divina e
cattolica”, che è il dogma), ma a differenza delle altre forme di
interpretazione, non riguarda direttamente la vita di fede, la contingenza storica, la metodologia apostolica
(nella testimonianza della carità, nell’opera missionaria, nel governo
ecclesiastico, nei rapporti con le altre religioni eccetera), ma riguarda
propriamente ed essenzialmente la verità della fede: non tanto l’ortoprassi
quanto l’ortodossia. Le forme di teologia che, in questo senso, non rispettano
lo statuto epistemologico proprio della “scienza della fede” degenerano in
espressioni di vero e proprio assolutismo ideologico: sto pensando alla
cosiddetta “teologia della liberazione” e in generale alla “teologia politica”,
alla “teologia al femminile” e alle alte forme di teologia dialettica
secolarizzata alle quali mi sono riferito prima.
In una
lettera a Romano Amerio, Augusto Del Noce scrive: “A me pare che quella
restaurazione cattolica di cui il mondo ha bisogno abbia come problema
filosofico ultimo quello dell'ordine delle essenze”. Cosa può dirci in
merito, anche alla luce dei suoi studi sul senso comune e la logica aletica?
L’ordine delle essenze è l’ordine metafisico che, per quanto riguarda la natura delle cose, richiede l’intuizione
della Trascendenza. L’esistenza evidente delle cose (la cui essenza è il limite
e la contingenza) rimanda all'esistenza (necessaria, non ipotetica) del loro Fondamento,
che è il Creatore. L’intelletto umano, già al livello delle certezze del senso
comune, percepisce la differenza ontologica fondamentale, quella che distingue
la natura da Dio, l’immanenza dalla Trascendenza. Di qui, in teologia, la
necessaria distinzione tra l’ordine naturale dall'ordine soprannaturale. Se la
reale consistenza ontologica di tutte le realtà dell’esperienza – le quali sono
intrinsecamene ordinate a Dio come
loro primo Principio e ultimo Fine – non viene tenuta nella debita
considerazione, ecco che si smarrisce quella recta ratio che serve alla teologia per conservare e trasmettere
integralmente il significato salvifico della verità rivelata. Lo
faceva notare accoratamente il papa Giovanni Paolo II nella Fides et ratio (1998) quando chiedeva ai
teologi di utilizzare la metafisica realistica sull’esempio di Tommaso
d’Aquino; più recentemente, lo hanno fatto notare i padri sinodali al termine
del Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, quando hanno consegnato al
papa le proposte per il documento post-sinodale, e tra queste proposte, al
numero 17, hanno scritto che i teologi debbono oggi tornare a mettere in
risalto l’importanza dei praeambula fidei
e della legge morale naturale: due nozioni filosofiche che riguardano appunto
l’ordine delle essenze.
Simone
Weil, nella Lettera a un religioso, osserva: “La concezione tomistica
della fede implica un “totalitarismo” altrettanto soffocante e forse più di
quello di Hitler. Giacché se la mente aderisce completamente, non soltanto a
tutto ciò che la Chiesa ha riconosciuto appartenente alla fede più rigorosa ma
anche a tutto ciò che non riconoscerà mai come tale, l'intelligenza deve essere
imbavagliata e ridotta a compiere mansioni servili”. Come rispondere ad
un'obiezione di questo tipo?
E un’obiezione priva di
senso, soprattutto nell'epoca in cui la filosofia ebrea scriveva queste prole.
Forse non conosceva un’altra filosofia ebrea, poi divenuta cattolica, quale fu
Edith Stein. Non conosceva, in Gran Bretagna, intellettuali cattolici come
Chesterton ed Eliot. Certamente la povera Simone Weil conosceva troppo pochi
tomisti per comprendere che cosa fosse davvero il tomismo dei suoi tempi. Ai suoi
tempi c’erano tomisti di grande spessore intellettuale e anche spirituale, come
il domenicano Réginald Garrigou-Lagrange, il quale polemizzò con i teologi
modernisti e con i seguaci di Bergson ma senza atteggiarsi a espressione
dell’unica dottrina possibile in seno alla Chiesa cattolica. Altri tomisti
laici, come Jacques Maritain ed Etienne Gilson erano su posizioni molto affini
a quelle della Weil. La Scuola di Lovanio era convinta di poter adottare, in un
quadro dottrinale tomistico, il trascedentalismo kantiano. I religiosi non
tomisti, come tanti di scuola scotista (francescani) o suareziana (gesuiti), e
i laici come Maurice Blondel o Gustavo Bontadini non si sentivano oppressi da
imposizioni dottrinali che limitassero la loro indipendenza di pensiero su temi
di libera discussione, cioè su temi che non mettevano in discussione il dogma.
Nel
ringraziarLa per il tempo concessoci, Le chiediamo un consiglio per quei
giovani desiderosi d'intraprendere gli studi filosofici: come districarsi tra
le false “filosofie” spesso così rovinose nelle loro conseguenze pratiche e
morali?
Il consiglio che posso dare è di fare come ho
fatto io, che ho cominciato a studiare la filosofia alla Sapienza di Roma,
avendo lì solo professori di ispirazione liberal-massonica o marxisti, ma
avendo allo stesso tempo tale amore appassionato per la sapienza (che non
esclude, anzi implica la verità della religione e della prassi politica) da fare
più l’autodidatta che il semplice alunno. L’autodidatta legge quello che gli
sembra diverso o migliore rispetto a quello che gli insegnano dalle cattedre
universitarie; l’autodidatta cerca la dialettica delle idee, il confronto
critico; l’autodidatta pratica quella che Romano Guardini chiama
l'autoformazione, e l'autoformazione
consiste nel domandarsi sempre quale sia la “giustificazione epistemica” di
ogni asserto, su quali principi si basa (se si basa su qualche principio)
un’affermazione o una negazione in rapporto all'esistenza di Dio, alla natura
dell’uomo, all'etica nella vita personale e nei rapporti sociali. Molto prima
di teorizzare, nella mia logica aletica, la “giustificazione epistemica”, io
avevo intuito che l’unico modo di districarmi tra tante voci discordanti che
reclamavano il mio assenso era restare ancorato alle certezze inequivocabili
del senso comune, e giudicare da lì quanto potessero essere accettabili le
varie proposte di interpretazione della realtà. Mi accorsi molto presto che
l’Università mi propinava tante teorie infondate, con una sola giustificazione,
quella sociologico-storicistica, nel senso che ciascuna di esse aveva
un’autorità pubblicamente riconosciuta (nel mondo accademico, s’intende) e
quindi bisognava “crederci”. Bisognava partire da Kant, bisognava tener conto
di Hegel, bisognava accettare la scuola dei “maestri del sospetto” (Marx,
Nietzsche e Freud)… Io invece avevo letto Tommaso d’Aquino il quale scrive che
«argumentum ex auctoritate infirmissum
est». Poi, tanti anni dopo, ho rinfacciato a Gianni Vattimo, in un’altra
università, che quel modo di fare filosofia è puro e semplice fideismo;
Vattimo, invece di offendersi, accettò di buon grado la mia definizione, visto
che sostiene le sue teorie ermeneutiche (il “pensiero debole”) esclusivamente
sulla base dell’autorità di Nietzsche di Heidegger.
a cura di Giovanni Covino e Marco Massignan
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.