Vivo un Papa se ne fa un altro e «Satana se la ride...»
Ratzinger ha sempre pensato alle dimissioni. Da cardinale e poi da Papa
Alla fine lo scherzo c’è stato. Alla vigilia di carnevale e con un autore insospettabile: il Papa. Il cardinale Michele Giordano, nel 2005 fra i cardinali elettori del conclave, amico di Joseph Ratzinger da antica data, lo aveva profeticamente temuto. «Eminenza, ma lei mica ci farà qualche scherzo?», aveva domandato il confratello lucano al porporato bavarese il giorno del suo settantottesimo compleanno, il 16 aprile 2005, tre giorni prima che il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sarebbe stato eletto Papa.
Ratzinger si fece scuro in volto e sembrò molto turbato. Poi disse: «Eminenza, non pensate a me. Vi prego, non pensate a me». Temeva lo scherzo, ovvero il gran rifiuto il cardinale Giordano. Non per viltà, ma perché Ratzinger aveva già superato la soglia dei settantacinque anni, età in cui i vescovi, secondo quando previsto dal paragrafo 1 del canone 401 del Codice di Diritto Canonico, rassegnano le dimissioni.
Giordano avrebbe compiuto pochi mesi dopo, a settembre, quella fatidica età e si sentiva anche per questo spiritualmente molto vicino all’amico cardinale bavarese. All’interno del Sacro Collegio era abbastanza nota la posizione di Ratzinger sulle dimissioni di Giovanni Paolo II. Per il più fidato tra i collaboratori di Wojtyla il Papa polacco avrebbe dovuto lasciare il timone della barca di Pietro per le sue gravi condizioni di salute. Il Parkinson era inesorabile e non gli dava tregua. Giovanni Paolo II, però, come ha sottolineato nuovamente in questi giorni colui che per quaranta anni è stato il suo segretario particolare, l’attuale cardinale Arcivescovo di Cracovia Stanislaw Dziwisz, non scese dalla croce, la croce della sofferenza.
Non che oggi Benedetto XVI si sia sfilato dalle mani i chiodi della crocifissione e sia sceso, incarnando il film di Martin Scorsese "L’ultima tentazione di Cristo", dal trono della sofferenza. Wojtyla era un mistico e da quella cattedra ha insegnato, ha scritto l’enciclica più bella e più facile da comprendere. Il suo era stato un pontificato segnato dal sangue, il suo sangue, quello versato in piazza San Pietro, il 13 maggio 1981, con l’attentato di Alì Agca e quello versato lungo il calvario del mondo. Benedetto XVI non è stato chiamato alla stessa testimonianza ma a un martirio fisico, dove il sangue e la sofferenza sono presenti lo stesso seppur non in modo visibile.
Si chiamerà scandalo dei preti pedofili nell’anno sacerdotale oppure tradimento dei suoi collaboratori, infedeltà del maggiordomo o, per essere giornalisticamente più avvincenti, Vatileaks. Il dato di fatto è che il martirio in questi otto anni di pontificato c’è stato. Senza sangue ma non per questo con minore sofferenza di Wojtyla. Il Papa era solo. E da solo ha deciso di lasciare, di tornare a ciò che aveva sempre desiderato: pregare e mettersi in ascolto del suo Signore. Lo aveva sempre serbato nel cuore, nonostante il conclave, nonostante il voto dei cardinali che lo aveva imprigionato per sempre a Roma esponendolo agli occhi indiscreti del mondo intero.
Lui, che si era definito umile e semplice lavoratore nella vigna del Signore, che aveva sempre cercato timidamente l’ultimo posto. Anche durante la Sede Vacante, nella quale era coinvolto in prima persona come decano del Sacro Collegio. Anche da Pontefice massimo felicemente regnante. Lui, il Papa del dialogo, della parola scritta, della timidezza vinta, della mano tesa anche ai bambini ma non per freddezza di cuore. Lui, il Papa che, scendendo dal trono di Pietro, e scrivendo un libro sul fondatore del cristianesimo, Gesù di Nazaret, fuori dal magistero pontificio e quindi estraneo al crisma dell’infallibilità (cosa inaudita e moderna allo stesso tempo), sosteneva che «ognuno è libero di contraddirmi. Chiedo solo alle lettrici e ai lettori quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione». Quale autore, quale teologo arriva a tale gesto sincero di umiltà?
Quella simpatia, però, non c’è stata. I lupi affamati che oggi si chiamano tweet (quante offese sul social newtork del momento per questo povero Cristo vicario di Cristo) e si celano in queste ore dietro sorrisi compiaciuti e soddisfatti dei commentatori d’occasione che ora che ha accantonato la tiara, che è sceso dal trono, che ha lasciato la sede vacante, che ha deciso dalle ore 20 del 28 febbraio 2013 di non essere più Benedetto XVI, lo osannano quale campione umile e coraggioso della verità. Vivo un Papa se ne fa un altro. Ai loro occhi accesi di carrierismo l’obiettivo è raggiunto. Anche se il cuore di Joseph Ratzinger continua a battere. Poco importa. L’appartamento sarà liberato. Ci sarà il conclave. Ci sarà il nuovo Papa.
E sarà presto perché non ci saranno i funerali e i novendiali, i nove giorni di lutto per la morte del Pontefice. Non dovrebbero gioire oggi i lupi intrappolati nell’arena delle contraddizioni. Un conclave con un Papa dimissionario non è una vittoria. È il sigillo supremo, l’ultimo ma il più misterioso e solenne al tempo stesso, della sporcizia nella Chiesa. Una barca che spesso, sono parole del cardinale Ratzinger, «sembra che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti».
«La veste e il volto così sporchi della Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, Signore, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo. Con la nostra caduta ti trasciniamo a terra, e Satana se la ride, perché spera che non riuscirai più a rialzarti da quella caduta; spera che tu, essendo stato trascinato nella caduta della tua Chiesa, rimarrai per terra sconfitto. Tu, però, ti rialzerai. Ti sei rialzato, sei risorto e puoi rialzare anche noi. Salva e santifica la tua Chiesa. Salva e santifica tutti noi». Con il nuovo Papa.
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