Spazio alle chiese locali, governance orizzontale. La riforma della chiesa che il Papa ha in mente
Il vescovo di Roma Francesco, il capo della chiesa che presiede nella carità tutte le altre chiese, apre alle conferenze episcopali locali. Dovranno essere più autonome, dovrà essere loro concesso un più ampio spazio di manovra, non solo consultivo. Una direzione auspicata in modo particolare dai cardinali tedeschi (Walter Kasper e Karl Lehmann su tutti) e già emersa con forza nelle settimane precedenti il Conclave.
Un progetto che riguarda anche la Cei: Bergoglio sta infatti pensando di riprendere in mano la votazione simbolica del 1983 con cui l’episcopato italiano si diceva favorevole all’elezione del proprio presidente e del proprio segretario. Karol Wojtyla preferì invece mantenere quei due incarichi dipendenti dall’autorità papale, continuando così ad attribuire un ruolo diverso alla chiesa italiana, rispetto alle altre. Ma Francesco, primo Pontefice latinoamericano, è sensibile alle richieste di rendere più orizzontale la governance della chiesa, rafforzando le particolarità locali a scapito del primato romano.
Un disegno che è ben visibile nella composizione del gruppo di cardinali scelto dal Papa per studiare la riforma della curia. Innanzitutto, non ci sono canonisti, fatta eccezione per il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del governatorato della Città del Vaticano. Francesco ha preferito scegliere figure esterne alla curia, andando a pescare in giro per il mondo, nelle periferie, tra i vescovi quotidianamente impegnati nell’opera di evangelizzazione. L’elenco degli otto cardinali che compongono il gruppo chiamati a studiare come aggiornare ai tempi correnti la Pastor Bonus, la costituzione apostolica promulgata da Giovanni Paolo II nel giugno del 1988, è composito: dentro ci sono dottori in filosofia, qualche teologo, un biblista, un matematico e un chimico. Gli unici due con alle spalle studi di diritto sono l’indiano Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai, e Bertello, che poi però ha preferito seguire la strada diplomatica.
Non è una scelta casuale, dice chi lo conosce bene. Bergoglio ha le idee chiare ed è convinto che il necessario aggiornamento della governance curiale non possa che partire dall’ascolto degli episcopati locali, gli unici in grado di rappresentare a Roma le esigenze della chiesa di oggi, alle prese con il calo delle vocazioni e con la secolarizzazione che sembra sempre più inarrestabile. Ecco perché Francesco pensa che la bozza di riforma studiata a suo tempo dai cardinali Attilio Nicora e Francesco Coccopalmerio (che è l’attuale presidente del pontificio consiglio per i Testi legislativi ed è molto ascoltato da Bergoglio) e già portata all’attenzione di Benedetto XVI, meriti approfondimento, ma ritiene altresì che sia solamente un punto di partenza. Non può essere quella la soluzione definitiva.
Non è una scelta casuale, dice chi lo conosce bene. Bergoglio ha le idee chiare ed è convinto che il necessario aggiornamento della governance curiale non possa che partire dall’ascolto degli episcopati locali, gli unici in grado di rappresentare a Roma le esigenze della chiesa di oggi, alle prese con il calo delle vocazioni e con la secolarizzazione che sembra sempre più inarrestabile. Ecco perché Francesco pensa che la bozza di riforma studiata a suo tempo dai cardinali Attilio Nicora e Francesco Coccopalmerio (che è l’attuale presidente del pontificio consiglio per i Testi legislativi ed è molto ascoltato da Bergoglio) e già portata all’attenzione di Benedetto XVI, meriti approfondimento, ma ritiene altresì che sia solamente un punto di partenza. Non può essere quella la soluzione definitiva.
La prima riunione del gruppo si terrà nei primi giorni di ottobre, ma già da ora i porporati coordinati dall’arcivescovo di Tegucigalpa, il salesiano Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga (molto vicino al Pontefice gesuita), stanno procedendo a consultazioni informali per capire da dove partire. L’intenzione del Papa, come per altro emerso a più riprese nelle congregazioni generali che hanno preceduto il Conclave dello scorso marzo, è di ridimensionare il ruolo della segreteria di stato, rendendola una mera struttura di servizio e di raccordo tra tutti i dicasteri della curia, per i quali comunque è prevista una riduzione, tra accorpamenti e ridefinizione delle competenze.
L’ideale, dice qualche monsignore, sarebbe di tornare al passato. Non ai tempi di Pio XII, che dopo la morte del cardinale Luigi Maglione scelse di non rimpiazzarlo con nessuno, bensì allo schema di governance precedente alla “Regimini ecclesiae universae” del 1967, la costituzione apostolica con cui Paolo VI pose in una posizione di supremazia rispetto alle altre congregazioni (l’ex Sant’Uffizio, guidato fino a due anni prima dal cardinale conservatore Alfredo Ottaviani, su tutte) la segreteria di stato, alla quale veniva anche affidato il compito di fare da filtro tra il Pontefice e i vari capi dicastero.
Lo stesso segretario del gruppo, il vescovo di Albano Marcello Semeraro (che conosce Bergoglio fin dal Sinodo del 2001), diceva lunedì al Corriere della Sera che “Montini tradusse nell’organizzazione le istanze del Concilio, ma veniva da un’esperienza in segreteria di stato, ne fu sostituto e può darsi avesse patito lentezze nel rapporto con le congregazioni. Fatto sta che mise la segreteria di stato sopra tutto e ne fece il trait d’union tra il Papa e i dicasteri”.
L’ideale, dice qualche monsignore, sarebbe di tornare al passato. Non ai tempi di Pio XII, che dopo la morte del cardinale Luigi Maglione scelse di non rimpiazzarlo con nessuno, bensì allo schema di governance precedente alla “Regimini ecclesiae universae” del 1967, la costituzione apostolica con cui Paolo VI pose in una posizione di supremazia rispetto alle altre congregazioni (l’ex Sant’Uffizio, guidato fino a due anni prima dal cardinale conservatore Alfredo Ottaviani, su tutte) la segreteria di stato, alla quale veniva anche affidato il compito di fare da filtro tra il Pontefice e i vari capi dicastero.
Lo stesso segretario del gruppo, il vescovo di Albano Marcello Semeraro (che conosce Bergoglio fin dal Sinodo del 2001), diceva lunedì al Corriere della Sera che “Montini tradusse nell’organizzazione le istanze del Concilio, ma veniva da un’esperienza in segreteria di stato, ne fu sostituto e può darsi avesse patito lentezze nel rapporto con le congregazioni. Fatto sta che mise la segreteria di stato sopra tutto e ne fece il trait d’union tra il Papa e i dicasteri”.
E’ anche per questo che Francesco non ha fretta di nominare il successore di Tarcisio Bertone, che compirà 79 anni il prossimo dicembre. Prima di tutto è indispensabile individuare il modo migliore per snellire la macchina curiale, che andrà anche riequilibrata in senso meno europeo. Non a caso, uno dei membri del gruppo scelto da Bergoglio, il cileno Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo emerito di Santiago del Cile, presidente del consiglio episcopale latinoamericano dal 2003 al 2007 e segretario della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica nei primi anni Novanta, ha già detto che “quaranta vescovi europei che lavorano per il Santo Padre e per il governo della chiesa sono troppi”. Soprattutto se riportati alla dozzina proveniente da tutti gli altri continenti.
Bergoglio sembra pensarla allo stesso modo, e nel creare lo speciale consiglio che lo affiancherà nel governo della chiesa universale ha deciso di riservare all’Europa un solo posto (due se si considera anche il governatore dello stato della Città del Vaticano, Bertello), scegliendo il cardinale di Monaco di Baviera Reinhard Marx.
Bergoglio sembra pensarla allo stesso modo, e nel creare lo speciale consiglio che lo affiancherà nel governo della chiesa universale ha deciso di riservare all’Europa un solo posto (due se si considera anche il governatore dello stato della Città del Vaticano, Bertello), scegliendo il cardinale di Monaco di Baviera Reinhard Marx.
Intanto, il Pontefice argentino – impegnato in questi giorni nelle udienze ai vescovi giunti a Roma in visita “ad limina apostolorum” – sta meditando un altro gesto di discontinuità rispetto al passato: niente gratifica ai dipendenti del Vaticano, come si era sempre fatto in occasione di ogni elezione papale. Nel 2005, Benedetto XVI approvò la concessione di una tantum pari a 500 euro (dopo che alla morte di Giovanni Paolo II il camerlengo, lo spagnolo Eduardo Martínez Somalo, aveva stabilito che ogni dipendente dovesse ricevere una gratifica pari a mille euro). Francesco avrebbe deciso infatti di destinare quella cifra a un’opera di beneficenza.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
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