Il Papa investe sulla parrocchia come nucleo identitario, per tornare alle origini del cristianesimo. I movimenti? Alla frontiera, in missione. E lontano dalla curia
"Che pena vedere tante parrocchie chiuse”, diceva Papa Francesco il 27 marzo scorso, durante la sua prima udienza generale in piazza San Pietro, lasciando per un attimo da parte i fogli su cui era stampato il discorso. Parlava a braccio, con lo sguardo rivolto alle decine di sacerdoti sorridenti seduti nelle prime file, lì sul sagrato. E spesso, in quelle parrocchie che rimangono aperte, aggiungeva il giorno dopo il vescovo di Roma nell’omelia della solenne messa crismale, “i preti sono tristi, si perdono il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiteriale”. Preti “insoddisfatti”, li definì Jorge Mario Bergoglio, che finiscono per essere “trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità”.
Tre settimane dopo la sua elezione, le chiese stanno tornando lentamente a riempirsi, i confessionali a essere frequentati, le omelie dei parroci a essere seguite non più distrattamente, quasi fosse un dovere, un’incombenza da portare a termine e nulla di più. E’ l’effetto-Francesco, dicono gli esperti, i sacerdoti e i catechisti: il Papa venuto “dalla fine del mondo” parla in modo comprensibile anche ai più piccoli, vuole stare tra la gente, sceglie di salire sulla Loggia della basilica di San Giovanni in Laterano per salutare le migliaia di fedeli, curiosi e passanti che affollavano nel tardo pomeriggio romano quella piazza. Le parrocchie stanno riaprendo le porte, dicono sacerdoti da nord a sud dell’Italia. Tornano a essere frequentate e non solo per la messa domenicale. E’ quella “grande boccata d’ossigeno” di cui ha parlato lunedì il cardinale Camillo Ruini. “Papa Francesco ha portato una ventata di giovinezza e di futuro nella vita di questa antica e così radicata chiesa di Roma”, ha detto a Radio Vaticana l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana.
E’ la parrocchia, spiegava l’allora arcivescovo di Buenos Aires nel dialogo con il rabbino della comunità argentina Benei Tikva, Abraham Skorka, a rappresentare la possibile soluzione per resistere alla secolarizzazione, per far sì che “la religione si possa adeguare alla cultura dei tempi”, come ha sempre fatto nel corso della storia, una “continua trasformazione che assume forme differenti senza alterare il dogma”. L’idea è di un ritorno al parrocchialismo, alla comunità come luogo di appartenenza religiosa e non ai battesimi di massa che venivano amministrati durante le prime prediche di Pietro, nel Primo secolo dopo Cristo. Una soluzione che per Bergoglio risponde “a un bisogno di identità, non solo religiosa, ma anche culturale: appartengo a questo quartiere, a questo circolo, a questa famiglia. Ho un luogo di appartenenza, mi riconosco in un’identità”. Dopotutto, diceva il gesuita argentino diventato Pontefice nel Conclave seguìto alla rinuncia di Benedetto XVI, “il cristianesimo delle origini era parrocchiale”. Il problema, spiegava l’arcivescovo di Buenos Aires, nasce “quando la parrocchia non ha vita propria, quando viene annullata, assorbita dalla struttura più in alto nella gerarchia”.
Mettere al centro l’esperienza parrocchiale significa certificare “senz’altro un’inversione di tendenza”, dice al Foglio lo storico del Cristianesimo Alberto Melloni. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI poi, prosegue Melloni, “era stato dato un peso rilevante ai movimenti, che altro non sono che minoranze creative dove il collante non è più rappresentato dal territorio, ma dalla scelta: un individuo si sceglie la comunità, compie una scelta di spiritualità”. Per Giovanni Paolo II i movimenti erano indispensabili per la missione della chiesa del Terzo Millennio, la nuova evangelizzazione.
Mettere al centro l’esperienza parrocchiale significa certificare “senz’altro un’inversione di tendenza”, dice al Foglio lo storico del Cristianesimo Alberto Melloni. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI poi, prosegue Melloni, “era stato dato un peso rilevante ai movimenti, che altro non sono che minoranze creative dove il collante non è più rappresentato dal territorio, ma dalla scelta: un individuo si sceglie la comunità, compie una scelta di spiritualità”. Per Giovanni Paolo II i movimenti erano indispensabili per la missione della chiesa del Terzo Millennio, la nuova evangelizzazione.
Nel 1998, parlando ai trecentomila membri di movimenti e comunità ecclesiali riuniti in piazza San Pietro per il loro primo Congresso mondiale, Karol Wojtyla disse di confidare “che essi, in comunione con i pastori e in collegamento con le iniziative diocesane, vorranno portare nel cuore della chiesa la loro ricchezza spirituale, educativa e missionaria, quale preziosa esperienza e proposta di vita cristiana”. “E’ il concetto della coessenzialità”, dice al Foglio mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e tra i più stretti collaboratori di don Luigi Giussani. “Non c’è alcuna alternativa né teorica né pratica tra parrocchia e movimento, a una condizione: che entrambe abbiano come dimensione fondamentale la missione. Ciò che unifica e consente la possibilità di un reciproco arricchimento è il comune desiderio di assumere la missione come dimensione collettiva della vita cristiana”, spiega Negri. “Esiste la possibilità di una larghissima e reciproca influenza. Si pensi a come i movimenti hanno portato la missione della chiesa in campi e luoghi dove la parrocchia è più limitata, considerata la sua struttura territoriale. I movimenti sono riusciti a portare la missione della chiesa in ambienti specifici e molto provocanti, come nelle università”.
Anche Melloni non vede un conflitto tra parrocchia e movimenti, quanto piuttosto “un riequilibrio” necessario dopo il grande ruolo avuto dai movimenti in seguito al Concilio Vaticano II. Un peso talmente forte che “nel pensiero generale c’è la convinzione che tutti i vescovi in giro nel mondo provengano dai movimenti, quando invece rappresentano solo poco più dello zero per cento”, aggiunge Melloni.
Anche Melloni non vede un conflitto tra parrocchia e movimenti, quanto piuttosto “un riequilibrio” necessario dopo il grande ruolo avuto dai movimenti in seguito al Concilio Vaticano II. Un peso talmente forte che “nel pensiero generale c’è la convinzione che tutti i vescovi in giro nel mondo provengano dai movimenti, quando invece rappresentano solo poco più dello zero per cento”, aggiunge Melloni.
Più cauto è lo studioso Massimo Introvigne, direttore del Centro studi sulle nuove religioni: “Non dialettizzerei troppo la questione, anche perché nonostante il richiamo di Francesco alla parrocchia, lui non prova in nessun modo un’avversione per i movimenti, come dimostra il fatto che trascorrerà la Veglia di Pentecoste (il prossimo 18 maggio, ndr) proprio con i movimenti ecclesiali. E sempre con loro celebrerà la messa il giorno seguente”. Un ulteriore elemento a conferma di ciò è il rapporto molto stretto e continuo che da arcivescovo di Buenos Aires aveva con il Rinnovamento carismatico e con Comunione e liberazione: il cardinale Bergoglio ha contribuito a diffondere in Argentina alcuni testi di don Giussani”. Nonostante lo spazio dato dai predecessori dell’attuale Pontefice ai movimenti, continua Introvigne, “sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI avevano sempre ribadito come l’elemento parrocchiale fosse fondamentale”. D’altronde, è sufficiente andare a rileggersi molti discorsi di Joseph Ratzinger nei quali si ribadiva come “la chiesa non potesse fare a meno delle parrocchie. Nella sua visione – spiega al Foglio il direttore del Cesnur – “la parrocchia rimane l’elemento centrale” dell’esperienza cattolica.
Piuttosto, dice Introvigne, il problema è un altro: “Con la diminuzione del clero in occidente, si è dovuto aguzzare l’ingegno, aprendo a soluzioni creative e spesso controverse come le unità pastorali. Bergoglio, ad esempio, dispose la creazione di sub-parrocchie nei grandi territori del suo paese”. Alberto Melloni riconosce che nella diocesi di Buenos Aires la realtà dei movimenti aveva un ruolo molto importante, ma è altrettanto chiaro che l’attuale Pontefice “non ha mai fatto di questa minoranza creativa il fondamento della chiesa cattolica”. E’ chiaro poi, spiega lo storico del Cristianesimo, “che la pastorale sacramentaria di Papa Francesco ha bisogno di una prospettiva universalistica e non limitata a piccole comunità in cui ciascuno sceglie se entrare o meno a farvi parte”.
Piuttosto, dice Introvigne, il problema è un altro: “Con la diminuzione del clero in occidente, si è dovuto aguzzare l’ingegno, aprendo a soluzioni creative e spesso controverse come le unità pastorali. Bergoglio, ad esempio, dispose la creazione di sub-parrocchie nei grandi territori del suo paese”. Alberto Melloni riconosce che nella diocesi di Buenos Aires la realtà dei movimenti aveva un ruolo molto importante, ma è altrettanto chiaro che l’attuale Pontefice “non ha mai fatto di questa minoranza creativa il fondamento della chiesa cattolica”. E’ chiaro poi, spiega lo storico del Cristianesimo, “che la pastorale sacramentaria di Papa Francesco ha bisogno di una prospettiva universalistica e non limitata a piccole comunità in cui ciascuno sceglie se entrare o meno a farvi parte”.
Don Mario Peretti, sacerdote della diocesi di Milano da quasi vent’anni a Buenos Aires, dove oggi è assistente della Fraternità di Comunione e liberazione, conosce bene Jorge Bergoglio, fin da quando questi era vescovo ausiliare del cardinale Quarracino. “Già allora, nei primi anni Novanta, lui era convinto che Giovanni Paolo II puntasse sui movimenti per far fronte alla crisi delle parrocchie, che si stavano sempre più chiudendo in loro stesse, senza alcuna vocazione missionaria”. Riguardo i movimenti, dice al Foglio don Peretti, “Bergoglio ha sempre sostenuto come fossero la punta avanzata della chiesa, da inviare alla frontiera. Per lui i movimenti sono dei battitori liberi che entrano in gioco laddove le strutture ecclesiastiche non riescono ad arrivare. Il loro ruolo è missionario, e Bergoglio ha sempre voluto affermare la complementarietà che sussiste tra movimenti e parrocchie”, spiega il sacerdote milanese, che aggiunge come l’allora arcivescovo della capitale argentina abbia sempre valorizzato i nuovi ordini religiosi (tra cui “Los hermanos del cordero”) ancora prima che ricevessero il pubblico avallo da Roma. Ha sempre mostrato simpatia verso queste nuove forme di espressione ecclesiale, dando poca importanza al fatto che non fossero già stati istituzionalizzati e riconosciuti dalle autorità vaticane”. Parrocchie e movimenti complementari ma con funzioni ben diverse, anche a Buenos Aires: “Non ci ha mai chiamato a partecipare a riunioni di curia”, dice Peretti: “Per lui i movimenti non dovevano partecipare alla gestione degli affari della chiesa. Il loro compito era stare lungo la frontiera, non negli uffici. Mi diceva sempre ‘meno frequenti la curia, meglio è per te’”.
Che Bergoglio non sia ostile ai movimenti la pensano anche gli iniziatori del cammino Neocatecumenale: il nuovo Pontefice, dicono, “è provvidenziale per questi tempi e in varie occasioni ha partecipato a celebrazioni della nostra comunità a Buenos Aires, come l’eucarestia per il quarantesimo anniversario, nel 2008”. Giuseppe Gennarini, che del cammino Neocatecumenale è il responsabile negli Stati Uniti, spiega al Foglio che “non c’è affatto conflitto tra parrocchie e movimenti”. Il tema su cui Jorge Bergoglio ha sempre insistito, continua il nostro interlocutore, è che “per la nuova evangelizzazione la parrocchia non basta più. A Buenos Aires, ad esempio, ogni parrocchia ha un raggio di influenza di circa un chilometro e ogni parrocchia ne dista dall’altra più o meno quattro. Il risultato è che moltissima gente rimane esclusa da quest’opera evangelizzatrice. Ecco perché bisogna uscire e cercare nuovi metodi per annunciare il Vangelo. E questo è in piena sintonia anche con i primi discorsi del nuovo Papa”. Basterebbe un dato a chiarire quanto corretta sia l’impostazione data al tema dal Pontefice gesuita, dice Gennarini: “Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, hanno chiuso settemila parrocchie, un terzo di quelle esistenti. E questo nonostante l’influenza crescente degli ispanici. E’ chiaro che c’è bisogno di qualcosa di nuovo”.
Nessun conflitto tra comunità parrocchiale e grande movimento neppure per Maria Voce, eletta presidente dei Focolari nel 2008 dopo la morte della fondatrice, Chiara Lubich. Pochi giorni dopo l’elezione al Soglio del gesuita argentino, notava come “in questo momento si manifesta tutta la vitalità della chiesa e la freschezza dello Spirito Santo”.
Nessun conflitto tra comunità parrocchiale e grande movimento neppure per Maria Voce, eletta presidente dei Focolari nel 2008 dopo la morte della fondatrice, Chiara Lubich. Pochi giorni dopo l’elezione al Soglio del gesuita argentino, notava come “in questo momento si manifesta tutta la vitalità della chiesa e la freschezza dello Spirito Santo”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Che Bergoglio non sia ostile ai movimenti la pensano anche gli iniziatori del cammino Neocatecumenale: il nuovo Pontefice, dicono, “è provvidenziale per questi tempi e in varie occasioni ha partecipato a celebrazioni della nostra comunità a Buenos Aires,
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Quanto sopra detto,non è documentato.
Ruben