A proposito di una frase del cardinale Kasper
(di Paolo Pasqualucci) 1. “Il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma”? Dopo l’elezione di Sua Santità Francesco, felicemente regnante, si è speculato sul fatto che, nelle sue prime dichiarazioni pubbliche, egli abbia posto in rilievo l’attributo di “vescovo di Roma” del Romano Pontefice. Ciò ha fornito lo spunto per ascrivergli l’intenzione di considerare il munus petrino in modo più “collegiale” rispetto al passato, appunto nello spirito del Vaticano II. Nella sua prima dichiarazione Papa Francesco, ha anche detto che la Chiesa di Roma è “madre di tutte le chiese”, titolo con il quale si indicava in passato la primazìa della Chiesa cattolica, apostolica e romana su tutte le altre. Ma questo richiamo alla Tradizione è passato inosservato. Successivamente, dopo la nomina di otto cardinali non di Curia quali consiglieri nei suoi compiti di governo, si è ulteriormente speculato sull’indirizzo “collegiale” che il Pontefice sembrerebbe voler imprimere al governo della Chiesa. In quest’occasione, la stampa ha riportato alcune dichiarazioni di Sua Eminenza il cardinale Walter Kasper, tra le quali ha colpito la frase seguente: “È importante e significativo che Francesco abbia continuato a definirsi vescovo di Roma: del resto non è una diminuzione né un attributo accidentale, il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma” (Corriere della Sera, 14.4.2013, p. 17. Corsivo mio).
2. La dottrina tradizionale: CIC 1917 c. 218 e 219. Mi sono chiesto: quando Nostro Signore risorto, di fronte ad altri sei Apostoli, dopo avergli chiesto se lo amava, conferì al Beato Pietro il potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, ordinandogli: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv 21, 15-17), Pietro era forse già “vescovo”? Sappiamo bene di no. Tant’è vero che nei tempi più antichi non era necessario esser vescovi per esser eletti al Sacro Soglio. E nemmeno sacerdoti, se semplici diaconi potevano diventare Papi. E che non ci fosse nessuna preclusione in questo senso, risulta ancora dal Codice di Diritto Canonico (CIC) del 1917, il quale stabilisce che la “potestas” acquisita dal Papa accettando l’elezione “è veramente episcopale [vere episcopalis], ordinaria e immediata sia nei confronti di tutte e singole le chiese che di tutti e singoli pastori e fedeli, indipendente da qualsivoglia autorità umana” (c. 218.2). Come a dire: il neoeletto acquista sì la potestà di giurisdizione del vescovo ma su tutta la Chiesa. L’acquista immediatamente, accettando l’elezione, per il solo fatto dell’accettazione. Ma qualcuno avrebbe potuto chiedersi: trattandosi di una potestà “veramente episcopale” ossia della “potestà di giurisdizione del vescovo”, deve allora il neoeletto esser già vescovo prima di esser scelto come Papa o deve diventarlo subito, non appena eletto, per poterla esercitare? Il CIC del 1917 tace del tutto sul punto. E si capisce perché, andando al successivo c. 219. Che così recita: “Il Romano Pontefice, eletto in modo legittimo, non appena accettata l’elezione, ottiene, di diritto divino, la piena e suprema potestà di giurisdizione [statim ab acceptata electione, obtinet, iure divino, plenam supremae iurisdictionis potestatem]”. Il concetto chiave sembra rappresentato dall’inciso “di diritto divino”. Che significa? La domanda è più che legittima, oggi, visto che quest’inciso è scomparso sia dai testi del Concilio che trattano della collegialità e del Primato, sia dal nuovo CIC, del 1983. Il senso più ovvio sembra essere il seguente: la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, il neoeletto non l’ottiene per delega di poteri da chi l’ha eletto, come se i vescovi del collegio cardinalizio che lo hanno votato gli delegassero il loro potere di giurisdizione autorizzandolo ad esercitarlo su tutta la Chiesa. Non la ottiene in questo modo perché è Nostro Signore stesso a conferirgliela, così come l’ha inizialmente conferita al Beato Pietro, con il quale il validamente eletto si trova in successione continua e legittima, garantita dalla continuità dottrinale. Al solo Pietro Gesù Cristo risorto volle dare il potere di governo sull’intero gregge, Apostoli compresi. Altrimenti avrebbe detto: “pascete i miei agnelli”. Dalla Scrittura e dalla Tradizione risulta che Egli fece Pietro capo di tutta la Chiesa simpliciter, non del solo “Collegio degli Apostoli” o di tutta la Chiesa in quanto Capo del “Collegio degli Apostoli”. E proprio per questo il Papa è il “Vicario di Cristo” in terra: gode di un potere “vicario” ossia del potere di Cristo di governare il gregge, delegatogli da Cristo stesso. Un potere “vicario” è un potere che si esercita su mandato di un altro, che ne è il vero detentore, e in sua rappresentanza. Il “vicario” è un sostituto. E difatti, Cristo Nostro Signore è il Capo effettivo della Chiesa visibile ed invisibile, cioè del corpo mistico di Cristo, realtà nello stesso tempo terrena e celeste. Colui che ne è il “vicario”, esercitandoin sua vece il potere di governo della Chiesa in questo mondo, dovrà aver ricevuto questo potere dal titolare effettivo, non da altri. Per fare un esempio: nella diocesi di Roma il “cardinal vicario” esercitale funzioni di governo del vescovo in rappresentanza del Papa, che è l’effettivo vescovo di Roma: gode quindi di un potere “vicario” conferitogli dal Papa uti singulus non dal collegio dei cardinali o dal “collegio episcopale” tramite la conferenza episcopale.
Il Vicario di Cristo possiede quindi la suprema potestà di giurisdizione esclusivamente per mandato di Cristo, ossia “per diritto divino”. Il fatto che in passato, se il neoeletto non era vescovo, si procedesse a consacrarlo non deve trarre in inganno. Il neoeletto non doveva aspettare quella consacrazione per esercitare la suprema giurisdizione su tutta la Chiesa. Egli era perfettamente legittimato a quell’esercizio, immediatamente dal momento dell’accettazione, con la quale otteneva la piena titolarità del potere di giurisdizione. E difatti, storicamente, non sono mancati esempi di Papi non vescovi al momento dell’elezione che hanno subito esercitato la giurisdizione su tutta la Chiesa, prima della successiva consacrazione all’episcopato.
3. Il vescovo di Roma è tale in quanto è il Papa. Come si spiega allora la dichiarazione del cardinale Kasper? Essa sembra far dipendere l’esser-Papa, se così posso dire, dall’esser-vescovo, come se lo stato episcopale fosse una conditio sine qua non per l’elezione al Pontificato. La frase del cardinale Kasper riflette il CIC del 1983, che a sua volta rispecchia le novità dottrinali emerse nel pastorale Vaticano II. Si tratta della nuova concezione della “collegialità”, che tante critiche ha suscitato e ancora suscita. Essa è stata accusata di aver reso ambiguo e poco chiaro il rapporto tra il Pontificato e l’episcopato. Se l’affermazione del cardinale Kasper è coerente con quanto insegnato dal Vaticano II sul punto, allora non hanno ragione quelli che criticano la nuova collegialità? Come si fa, infatti, a dire che “il Papa è tale proprio in quanto vescovo di Roma”? Sarà caso mai vero il contrario: che il vescovo di Roma è tale proprio in quanto è il Papa. Per restare agli ultimi Pontefici, essi, quando furono eletti, non erano certo già “vescovi di Roma”. Non potevano esserlo, essendo quell’ufficio riservato appunto al Papa regnante. E dopo l’elezione, sono forse rimasti vescovi delle loro sedi originarie o sono diventati “vescovi di Roma”? Sono diventati vescovi di Roma, l’ufficio spettava loro di dirittoin quanto Papi. Mi sembra più esatto dire, allora, che il vescovo di Roma è tale proprio in quanto è il Papa, cioè in quanto “Episcopus totius Ecclesiae”, come si diceva una volta. Espressione che non rappresentava un semplice titolo onorifico ma indicava il carattere veramente episcopale della suprema potestà di giurisdizione del Romano Pontefice su tutta la Chiesa.
4. La nuova dottrina: CIC 1983, cc. 330-332. Forse l’affermazione del cardinale Kasper rispecchia solamente una sua personale opinione? Per cercare di capire come stanno le cose, vediamo sinteticamente cosa dice il CIC del 1983, che, come si è ricordato, recepisce la nuova dottrina proposta dalla costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa (artt. 18-22), riportandone brani interi. Nella LG si ribadisce il Primato ma nello stesso tempo si presenta il Romano Pontefice soprattutto comeCapo del Collegio episcopale, cosa nuova. Nell’art. 22: Il collegio dei vescovi e il suo capo, si trova la famosa frase: “ l’ordine dei vescovi […] è anch’esso insieme col suo capo il romano Pontefice e mai senza questo capo il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa, sebbene tale potestà non possa esser esercitata se non col consenso del romano Pontefice” (LG 22.2). Ciò significa, come è stato più volte e con forte preoccupazione rilevato, che i titolari della suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa sono ora addirittura d u e : il Papa uti singulus e il Collegio con il Papa (non il Papa con il Collegio). E d u e sono pure gli esercizi di essa: quello indipendente del Papa uti singulus e quello del Collegio, con l’autorizzazione del Papa. Il Collegio è con il Papa quanto alla titolarità della suprema potestà, sotto il Papa quanto al suo esercizio. La ricerca insistita e quasi ossessiva del Vaticano II per l’unità e la comunione universali sembra per ironia della sorte aver partorito inestricabili dualismi: due organi titolari della suprema potestà e due modi di esercitarla, due liturgie della S. Messa.
Applicando, dunque, l’impostazione del Concilio, il CIC non tratta mai del Pontefice da solo, indipendentemente dal Collegio. Come acquista il Pontefice neoeletto la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa? L’argomento è trattato al c. 332.1 CIC 1983. “Il Sommo Pontefice ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima, da lui accettata, insieme con la consacrazione episcopale [legitima electione ab ipso acceptata una cum episcopali consecratione]. Di conseguenza l’eletto al sommo pontificato che sia già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal momento dell’accettazione. Che se l’eletto fosse privo del carattere episcopale, sia immediatamente ordinato vescovo”[Quare, eandem potestatem obtinet a momento acceptationis electus ad summum pontificatum, qui episcopali charactere insignitus est. Quod si charactere episcopali electus careat, statim ordinetur Episcopus”].
5. La “consacrazione episcopale” condizione dell’acquisizione della suprema potestà? L’impressione immediata che questo canone fa sul semplice credente, è la seguente: ottiene la suprema potestà al momento dell’accettazione solo chi è già vescovo; chi ancora non lo è non può ottenerla, se prima non sia stato consacrato vescovo. È ammissibile quest’interpretazione? Vediamo. L’elemento nuovo rispetto al passato sembra rappresentato dal fatto che il neoeletto, con l’accettazione, oltre alla piena e suprema potestà su tutta la Chiesa ottiene anche, contestualmente, “la consacrazione episcopale”. Non si ripete il concetto del CIC 1917, secondo il quale la suprema potestà del Papa èintrinsecamente, di diritto divino, “veramente episcopale”, anche se il neoeletto non è vescovo. Si fa capire, invece, che con l’accettazione il neoeletto ottiene per ciò stesso anche “la consacrazione episcopale”. Ma vien fatto di chiedersi: che bisogno ha il neoeletto di ottenere una contestualeconsacrazione episcopale quando diventa addirittura Sommo Pontefice, possedendo per ciò stesso il potere di giurisdizione del vescovo su tutta la Chiesa? E perché il testo non ripropone la dottrina chiara e semplice del CIC del 1917? Il rimanente del c. 332 riesce a far luce sul punto? Se ne ricava che: se il neoeletto era già vescovo, non deve ovviamente esser “ordinato” vescovo e “ottiene tale potestà [su tutta la Chiesa] dal momento dell’accettazione”. Se non era vescovo, cosa succede? L’ottiene ugualmente dal momento dell’accettazione? Il testo non lo dice. Afferma invece: “sia immediatamente ordinato vescovo”. E perché? Non lo si spiega. Perché questo “immediatamente”? Perché tanta fretta? Se non si vuol lasciare il discorso come tronco e sospeso per aria, la conclusione più logica non sembra esser proprio quella sopra avanzata? E cioè che il neoeletto che non sia vescovo deve esser subito consacrato vescovo proprio per ottenere la suprema potestà? Per ottenerla, non semplicemente per esercitarla. Deve esser subito inserito nel Collegio, del quale è il Capo, se deve esser Papa.
6. Il Papa capo della Chiesa in quanto capo del Collegio? L’interpretazione qui avanzata sembra troppo audace? Consideriamo in che modo i due canoni precedenti rappresentano la figura del Papa. Il CIC sta qui definendo “la suprema autorità della Chiesa”, a cominciare da “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”. Come si è detto, il Pontefice viene sempre strettamente collegato al Collegio. Infatti, il CIC non ne definisce la figura in sé e per sé per poi illustrarne il rapporto gerarchico con i vescovi, a lui sottoposti sul piano della giurisdizione (come faceva il CIC del 1917, p.e. ai cc. 329-331). Al contrario, presenta sin dall’inizio il Papa in stretta connessione o comunione con il “collegio”: degli Apostoli prima, dei Vescovi poi. Recita infatti il c. 330, riportando integralmente l’inizio di LG 22.1:
“Come, per volontà del Signore, san Pietro e gli altri Apostoli costituiscono un unico Collegio, per la medesima ragione il Romano Pontefice, successore di Pietro, ed i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra di loro congiunti [Sicut, statuente Domino, sanctus Petrus et ceteri Apostoli unum Collegium constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur]”. Ricalcando il Vaticano II, mi sembra che si voglia qui stabilire un concetto preliminare e nello stesso tempo fondamentale della nuova dottrina: l’unità del collegio, nella quale sono ricompresi il Papa e i vescovi come in un tutto. Prima di ogni cosa viene il collegio come unità, che si vuol vedere attualmente presente nella Chiesa per analogia con l’unità che sarebbe stata inizialmente presente nel Collegio apostolico. Ma quest’impostazione, mi chiedo, è conforme all’insegnamento tradizionale della Chiesa? Non vi compare alcun rapporto gerarchico tra Pietro e gli Apostoli e quindi tra il Papa e i vescovi. La conclamata unità sembra mettere tutti sullo stesso piano. Il che non sarebbe conforme a quanto risulta dalla Scrittura. E un’unità di questo tipo, che già farebbe del “collegio” un soggetto autonomo con un Capo che sarebbe tale in quanto compreso nell’unità del collegio, viene fatta risalire a Nostro Signore: “Sicut, statuente Domino…”. Ma la volontà del Signore che appare nei Vangeli, confermata sin dall’inizio dalla Tradizione della Chiesa, ha “statuito” davvero in questo senso?
Il Signore voleva sì che gli Apostoli fossero sempre uniti tra di loro come fratelli e in spirito di umiltà e li rimprovera quando, spinti dall’ambizione dei parenti, tentano di stabilire preferenze e gerarchie tra di loro (Mt 20, 20-28). Ma si tratta sempre di un’unione morale, spirituale, fondata sull’insegnamento e l’esempio del divino Maestro e dipendente dalla sua guida, non dell’unione paritaria di un collegio, organo che prevale sull’individualità dei suoi componenti. Inoltre, durante la sua missione terrena Nostro Signore preannuncia il primato di Pietro (Mt 16, 13 ss.; Lc 22, 31-32), e glielo conferisce in modo ufficiale una volta risorto dai morti. E Pietro non la esercitò subito questa sua potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa nascente, come risulta da ben noti passi degliAtti degli Apostoli (At 1, 21; 2, 14 ss.; 5, 1-11; 15, 8 ss.)?
Ma il CIC del 1983, stabilita preliminarmente l’unità del “collegio” nel modo visto, nel c. 331 sembra voler riferire l’ufficio del Papa costantemente al “collegio”: “Il Vescovo della Chiesa di Roma [Ecclesiae Romanae Episcopus], in cui permane l’ufficio [munus] concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli [primo Apostolorum], e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò [qui ideo], in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente”. Il canone mette insieme due passaggi di LG tratti dai par. 20.3 e 22.2. Unica aggiunta, se non vado errato: l’apposizione del titolo di “vescovo di Roma” all’inizio. Gli elementi essenziali di questa definizione del papato sembrano essere i seguenti: 1. Nel “vescovo di Roma” permane “l’ufficio concesso dal Signore a Pietro, primo degli Apostoli”. Non si usa l’espressione tradizionale “Principe degli Apostoli”, ben più forte. Il testo non dice che il munus petrino permane nel Papa: permane nel “vescovo di Roma”, come se appunto l’esser vescovo di Roma fosse elemento costitutivo del papato. 2. Non si chiarisce quale sia “l’ufficio” che il Signore ha concesso singolarmente a Pietro, “primo degli Apostoli”. Si tratta forse della potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa? Così dovrebbe essere, visto che tale potestà è richiamata espressamente alla fine del canone. Tuttavia, 3. il testo si premura di affermare che Pietro è “capo del Collegio dei Vescovi”, prima ancora che “Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale”. È in forza del suo “ufficio”, che vede però al primo posto l’esser “capo del Collegio dei Vescovi”, che il Papa possiede la suprema potestà di giurisdizione. 4. E nell’espressione: “ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro” dovremmo forse vedere una ripresa del concetto dell’origine “iure divino” della sua potestà di giurisdizione? Ma se così è perché non dire allora, in modo molto più semplice ed accessibile, che “nel vescovo di Roma permane di diritto divino la suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa concessa dal Signore singolarmente a Pietro”? O, meglio ancora, che “nel Romano Pontefice permane di diritto divino etc.”? Ma qui i concetti tradizionali del Primato e la nuova dottrina della collegialità non sembrano annodarsi in un vero e proprio groviglio? La suprema potestà del Papa, pur risultando, come da Tradizione, “concessa dal Signore singolarmente a Pietro”, appare nello stesso tempo legittimata dal fatto che l’ufficio di Pietro è visto soprattutto come ufficio del Capo del Collegio dei Vescovi, Collegio che ne sarebbe parimenti titolare cum Petro (come recita il c. 336, riprendendo LG 22.2)! E da tutto ciò si dovrebbe concludere che Nostro Signore ha voluto istituire d u e soggetti quali titolari della suprema potestà, distinti anche se collegati nella figura del Papa?!
7. Si possono ignorare le mutazioni apportate dalla nuova dottrina? Il c. 331 sembra attribuire all’esser “vescovo di Roma” un’importanza essenziale per la definizione della natura del papato: all’esser “Vescovo di Roma” e “Capo del Collegio dei Vescovi”. Elementi del tutto nuovi rispetto alla dottrina insegnata dal CIC del 1917. Nel CIC del 1917 il munus petrino è completamente separato da quello episcopale, che non viene mai nominato in relazione ad esso, se non per ribadire che la potestà acquisita immediatamente dal neoeletto Pontefice è “vere episcopalis”, indipendentemente da ogni sua consacrazione a vescovo, che avveniva in un secondo tempo, per costume e prassi. Nel CIC del 1983, invece, la “consacrazione episcopale” viene collegata alla suprema potestà di giurisdizione conferendo all’accettazione una duplice, simultanea conseguenza: far ottenere la potestà suprema su tutta la Chiesa e la consacrazione episcopale ossia il diritto ad esser consacrato subito vescovo per chi non lo fosse. Consacrato, al fine di poter diventare “vescovo di Roma”, membro e capo del collegio episcopale: ufficio che si vuol ora verosimilmente intendere quale requisito necessario del pontificato e non sua conseguenza dovuta, come in passato.
Se l’ “ermeneutica” qui proposta è corretta, allora possiamo dire che la peculiare affermazione del cardinale Kasper si situa senza contraddizione nel contesto del nuovo Codice di Diritto Canonico oltre che in quello della Lumen Gentium (di Paolo Pasqualucci).
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