Riportiamo l’introduzione del volume Vicario di Cristo. Il papato tra normalità ed eccezione pubblicato di Roberto de Mattei, appena pubblicato dalle edizioni Fede e Cultura nella collana diretta da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.
L’atto di rinuncia di Benedetto XVI dell’11 febbraio 2013 e tutto ciò che ne è seguito, fino all’elezione del nuovo Pontefice, ha rimesso sul tappeto il problema, della “riforma del Papato, oggi riproposto da teologi, storici e giornalisti per condizionare le scelte future di Papa Francesco. Si tratta in realtà di idee stantie, molte volte confutate. Senza risalire al Medioevo, il problema fu dibattuto all’epoca del Sinodo giansenista di Pistoia, durante le discussioni del Concilio Vaticano I, nella temperie ideologica del modernismo, e finalmente nel dibattito conciliare e postconciliare del Novecento.
Anche oggi, come allora, c’è chi vorrebbe assegnare al Papato una missione soprattutto “profetica” e chi vorrebbe che esso facesse della promozione della pace nel mondo il suo scopo principale. C’è chi pensa a un Papato costituito da più persone[1] e chi evoca l’ipotesi di un pontificato “a termine”[2], e non più a vita, come forma di governo richiesta dalla velocità di cambiamento del mondo moderno e dalla continua novità dei suoi problemi. Per altri si tratterebbe di ridurre il Papa a “un portavoce di tutti i cristiani” le cui dichiarazioni “saranno certamente tanto più efficaci quanto meno egli pretenderà obbedienza”[3]; oppure ad una figura meramente arbitrale, con a fianco una struttura ecclesiastica “aperta”, quale un sinodo permanente, con poteri deliberativi. Altri ancora rivendicano “un nuovo stile papale” opposto a quello autoritario precedente[4]. C’è infine chi, richiamandosi alle teorie di Carl Schmitt, secondo cui “il sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”, vorrebbe ridurre la funzione del Papato ad un potere di intervento per i casi rari di cui il Papa è il solo giudice supremo[5]. Si dice che le strutture organizzative della Chiesa di Roma si sono sempre modificate lungo il corso della storia e devono continuare a farlo, per rimanere al passo coi tempi. La riforma del Papato, sullo sfondo dei problemi posti dalla globalizzazione e dal pluralismo culturale, appare insomma come l’unica possibilità rimasta alla Chiesa per non estinguersi.
Un ostacolo insormontabile si leva contro questi programmi: la costituzione dogmatica Pastor aeternus[6]del Concilio Vaticano I, che ha elevato i bastioni dell’infallibilità per garantire la costituzione divina e permanente della Chiesa militante. I riformatori devono ricorrere ad ogni genere di sottigliezza per aggirare l’ostacolo, ma non rinunciano al progetto di fondo, che punta a storicizzare e a relativizzare le verità di fede, articolandosi secondo due direttrici.
La prima consiste nell’affermare la relatività del “modello pontificio”. Bisognerà distinguere quindi tra l’essenza immutabile del Papato e la varietà delle sue forme storiche[7], poiché “l’essenza reale della Chiesa si attua in forma storica”[8]. Il compito di individuare la mutevolezza delle forme spetta agli storici della Chiesa che, “reinterpretando” il passato, contribuiscono a “ricreare” la Tradizione.
Si vorrebbe dimostrare, ad esempio, che il Papa non esercitava nei primi secoli della Chiesa una sovranità giuridica sulle chiese locali: la realtà della Chiesa antica, si dice, sarebbe stata “policentrica”, senza un “centro” ordinatore rappresentato dalla Chiesa romana[9].
Si afferma, ancora, che la Sede di Roma originariamente era soltanto un “patriarcato”; col tempo, da un primato di onore, si sarebbe passati ad un primato di giurisdizione con l’affermazione dell’idea, estranea alla concezione patristica, del “Primato universale”[10]. Il governo diretto e universale della Chiesa, nel primo millennio, sarebbe stato in realtà affidato ai patriarchi, a livello regionale; solo in seguito allo scisma del 1054, il Vescovo di Roma sarebbe stato indotto a cumulare nelle sue mani entrambe le funzioni precedentemente distinte: quella del servizio all’unità della Chiesa universale e quella del governo diretto della Chiesa latina. Da qui la proposta di tornare alla “Pentarchia” come modello per il governo della Chiesa[11]
Il nemico di fondo è l’idea della “sovranità pontificia”, la “ideologia” della “plenitudo potestatis”, nata nel Medioevo, che sarebbe all’origine della deviazione del Papato dal suo spirito originario. Dopo la svolta “gerarchico-feudale”, il Dictatus papæ di Gregorio VII (1075) “sarebbe stato la grammatica dell’ecclesiologia “romana” del secondo millennio”[12]. Dal secolo XI il papato avrebbe assunto una fisionomia monarchica: quella che sembrava una mera analogia sarebbe diventata una ideologia del potere[13]
In questa prospettiva viene riproposto il tema del “conciliarismo” del XIV secolo, utilizzando innanzitutto gli strumenti della filologia e della storia[14]. La “fecondità storica” del movimento conciliare avrebbe toccato il suo apice con il decreto Haec Sancta del Concilio di Costanza (1417) secondo cui il Concilio ha direttamente da Cristo la sua potestà ed è dunque superiore, o almeno uguale, al Papa. Qualificato come decreto obbligante di valore generale, anche al di là della congiuntura storica in vista della quale era stato approvato, l’Haec Sancta è considerato come un modello ingiustamente abbandonato ma ancora valido per l’avvenire[15]. “Ai decreti di Costanza – si afferma – si deve riconoscere fondamentalmente la stessa autorità che ai decreti degli altri concili ecumenici; essi dal punto di vista della storia della Chiesa formano il polo contrario del Vaticano I”[16].
Dalla metà del Quattrocento, si dice ancora, si è avviata una metamorfosi del Papato che ha toccato l’istituzione nel suo complesso, portando non solo ad un mutamento dei connotati istituzionali dello Stato pontificio, trasformato in principato temporale, ma anche ad una riformulazione del concetto di sovranità ecclesiastica, plasmata su quella politica. Vittorioso sul conciliarismo, il Papato viene però sconfitto dallo Stato moderno, poiché, mentre la Chiesa si secolarizza, lo Stato si sacralizza[17]: “il papato rinascimentale si riassume sul modello del principato temporale”[18]; restaurata la “monarchia pontificia”, si apre l’epoca della “dittatura del papato”[19].
La vittoria “romana” sul conciliarismo fu quindi “una vittoria diplomatica e non un superamento teologico”[20]. A partire dalla Rivoluzione francese, la Chiesa, in fruttuoso rapporto dialettico con il mondo moderno, ha iniziato a liberarsi dalle pastoie del passato[21]. Malgrado alcune fasi regressive, rappresentate soprattutto dai pontificati di Pio IX, Pio X e Pio XII, il Concilio Vaticano II segna finalmente il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale della Chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di “comunione” e di “popolo di Dio”[22].
La seconda direttrice consiste nel relativizzare la portata teologica del dogma del Primato Romano. Dalla distinzione tra “verità dogmatica” e “forma storica” si passa a quella, interna al dogma, tra “contenuto sostanziale” (immutabile) e “formulazione dottrinale” (mutevole) della fede. Un enunciato dogmatico, si afferma, è un “evento linguistico”, necessariamente legato a un contesto teologico e culturale[23]; dopo lo storico, è il teologo a ripresentare la distinzione tra l’ “essenza” permanente del ministero di Pietro e le “forme di esercizio” in cui esso si è espresso nella storia[24].
I teologi novatori, al termine Papato preferiscono quello di “ministero” e/o “funzione” petrina, riducendo il Papato a una configurazione storica sorpassata della funzione primaziale attribuita alla Sede romana. “Guardando a Gesù, che non si è presentato come padre, ma fratello dell’uomo, la maggior parte dei cattolici spera oggi che il ministero petrino nel III millennio acquisti nuova autorità come servizio fraterno in una chiesa di fratelli e di sorelle”[25]. Questo ruolo non andrebbe oltre quello di “rappresentante dell’unità, intermediario, promotore, organizzatore, porta-parola e arbitro in seno ad una comunità-eucaristica di Chiese riconciliate”[26].
Si pretende quindi di proporre una visione teologica in cui vengano separate e contrapposte dialetticamente, servizio e autorità, potestà d’ordine e potestà di giurisidizione, struttura carismatica e struttura giuridica della Chiesa. Riaffiorano le vecchie antinomie del pensiero ereticale: legge contro Vangelo, Chiesa invisibile contro chiesa visibile, ecclesia iuris contro ecclesia caritatis, chiesa “petrina” contro chiesa “paolina”.
Alla dottrina tradizionale, sbrigativamente liquidata come “giuridista”[27], viene contrapposta la tesi secondo cui la Chiesa è retta da un potere apostolico di struttura sacramentale e collegiale[28]. In questa prospettiva il Papato deve essere “de-istituzionalizzato”, ritrovando la dimensione “carismatica” del Primato smarritasi nel corso dei secoli [29]. La parola d’ordine è quella di liberare la Chiesa dall’involucro giuridico che la soffoca e di trasformarla da struttura di vertice in struttura “democratica” e ugualitaria. Si auspica una “metamorfosi” del Papato che lo liberi dalle catene dell’ideologia della “suprema potestas”[30] per conferirgli una funzione etico-profetica[31], un primato di “ onore ” o di “ amore ”, ma non di governo e di giurisdizione della Chiesa.
La riforma passa attraverso una “riscoperta” della natura della “collegialità”[32], che avviene attraverso l’enfatizzazione della natura sacramentale dell’episcopato e del ruolo eminentemente “episcopale” del Papato, ridotto a primus inter pares all’interno del collegio dei Vescovi. Al “centralismo papale” si contrappone una struttura collegiale “aperta” e “policentrica”, basata sul ruolo accresciuto dei sinodi, delle conferenze episcopali, delle chiese locali. Negata o vanificata la gerarchia di giurisdizione, il ministero petrino dovrebbe scaturire da un’ecclesiologia “sacramentale” e “di comunione” e limitarsi a un “servizio all’unità” nei confronti dei fratelli separati. La Chiesa dovrebbe cambiare “la forma del governo ecclesiastico”, seguendo la via maestra della “collegialità” indicata dal Concilio Vaticano II. Per questo si affida al nuovo Papa il compito di “attuare quello che gli ultimi papi non hanno mai fatto: la collegialità episcopale sancita dal Concilio Vaticano II. Quanto più il prossimo Papa saprà essere non un monarca ma il motore della comunione ecclesiastica, tanto più, come dicono gli Atti degli apostoli, salirà da tutta la Chiesa la preghiera per Pietro”[33].
Da parte nostra percorreremo in questo studio le stesse due direttrici seguite dai “riformatori”: quella della storia da una parte e quella della teologia e del diritto dall’altra. La ricerca storica, se si attiene alla oggettività dei fatti e non è piegata a fini di parte, offre una testimonianza, per così dire dall’esterno; la ricerca teologica e giuridica non può che svilupparsi all’interno della Tradizione della Chiesa secondo le definizioni del suo Magistero.
Ci proponiamo in tal modo di contribuire a rispondere alla domanda: “Chi è il Papa?” non solo nei tempi ordinari, ma anche e soprattutto in quelli “di eccezione”, come quelli che stiamo vivendo.
[1] Ferdinand Klosterman, Die Zukunft der Oekumene, “Theologisch-praktische Quartalschrift”, 131 (1983), p. 328.
[2] Un Papa a tempo determinato?, intervista a Jean Delumeau, “Il Manifesto”, 26 gennaio 2000.
[3] Wolfhart Pannenberg, Il ministero petrino a servizio dell’unità, “Il Regno”, 821 (15 settembre 1998), p. 562.
[4] O’Malley, Version two: A break from the past, “Commonweal”, 9 marzo 2001.
[5] Antonio Acerbi, Per una nuova forma del ministero petrino, in “Il Regno”, 818 (1 luglio 1998), passim.
[6] Costituzione Pastor aeternus, capitolo 3, in Heinrich Denzinger, Enchiridium Symbolorum, a cura di Peter Hünermann, EDB, Bologna 1995, nn. 3059-3063.
[7] Cfr. Brian Tierney, Modelli storici, “Concilium”, anno XI (1975), fasc. 8, passim; Giuseppe Alberigo, Forme storiche di governo, “Il Regno”, 892 (1 dicembre 2001), passim.
[8] Hans Küng, La chiesa, tr. it. Queriniana, Brescia 1980 (4a ed.), p. 5.
[9] Giancarlo Zizola La riforma del papato, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 127.
[10] G. Dejaifve, La Papauté, problème oecuménique, “Nouvelle Revue théologique”, 102 (1980), pp. 239-240.
[11] Ferdinand-Reinhard Gahbauer o.s.b, Die Pentarchietheorie. Ein Modell der Kirchenleitung von den Anfängen bis zur Gegenwart, Knecht, Frankfurt am Main 1993, passim.
[12] G. Alberigo, Forme storiche di governo, cit., p. 720.
[13] Alberto Melloni, La riforma di Papa Francesco, “Corriere della Sera”, 14 aprile 2013.
[14] G. Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e significato del conciliarismo, Paideia, Brescia 1981, pp. 9-18.
[15] G. Zizola, Il Conclave. Storia e segreti, Newton & Compton, Roma 1993, p. 71.
[16] H. Küng, La chiesa, cit., p. 525.
[17] Paolo Prodi, Il sovrano pontefice, Il Mulino, Bologna 1983, p. 306.
[18] G. Zizola, Il Conclave, cit., p. 82.
[19] Leonardo Boff, Chiesa: carisma e potere, Borla, Roma 1984 (2a ed.), p. 90.
[20] G. Alberigo, Chiesa conciliare, cit., p. 354.
[21] Yves-Marie Congar, L’ecclésiologie de la Révolution française au Concile Vatican sous le signe de l’affirmation de l’autorité, in Aa. Vv., L’ecclésiologie au XIX siècle, Cerf, Paris 1960, pp. 77-114.
[22] G. Alberigo, Forme storiche di governo, cit., p. 722.
[23] A. Acerbi, Per una nuova forma del ministero petrino, cit., p. 458.
[24] Angel Antón Gómez, El misterio de la Iglesia, Editorial Catolica, Madrid – Estudio Teológico de S. Ildefonso, Toledo 1986-1987 (2 voll.), II, pp. 1022-1026.
[25] Pottmeyer, Lo sviluppo della teologia dell’ufficio papale, in G. Alberigo – Andrea Riccardi (a cura di),Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 63.
[26] Michael Hardt, Papsttum und Ökumene, Paderborn, München 1981, p. 159.
[27] A. Acerbi, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella « Lumen Gentium », EDB, Bologna 1975, pp. 94 e ss.
[28] Luigi Sartori, Il papato domani: considerazioni ecumeniche, Introduzione a Klaus Schatz, Il Primato del Papa, tr. it. Queriniana, Brescia 1996, p. 24.
[29] K. Schatz, Il primato. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, tr. it. Queriniana, Brescia 1996, pp. 227, 236.
[30] G. Zizola, Il Conclave, cit., p. 11.
[31] Ivi, pp. 376-377.
[32] Cfr. ad esempio John Quinn, Per una riforma del Papato, tr. it. Queriniana, Brescia 2000.
[33] A. Melloni, Ci vuole la collegialità indicata dal Concilio, “Corriere della Sera”, 8 marzo 2013.
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