“VICARIO DI CRISTO. IL PRIMATO DI PIETRO TRA NORMALITA’ ED
ECCEZIONE”, DI ROBERTO DE MATTEI
In
questi giorni è uscito l’ultimo libro di Roberto de Mattei,Vicario di
Cristo. Il primato di Pietro tra normalità ed eccezione della collana
«I libri del ritorno all’ordine», curata da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
per l’editrice Fede & Cultura (€ 16.00, pp. 206). In un tempo di grande
confusione, anche la funzione petrina non è più chiara a molti: questo saggio
offre la valida risposta ad interrogativi e dubbi.
Qualcuno, prendendo spunto dalla rinuncia di Benedetto XVI
dell’11 febbraio 2013, ha riproposto la questione di una «riforma del
papato», tema molto caro ai modernisti, che vedono nel primato petrino e nella
figura monarchica del Pontefice una minaccia all’esigenza democratica dell’uomo
contemporaneo. Si legge nel documentato volume: «C’è chi vorrebbe
assegnare al Papato una missione soprattutto “profetica” e chi vorrebbe che
esso facesse della promozione della pace nel mondo il suo scopo principale. C’è
chi pensa a un Papato costituito da più persone e chi evoca l’ipotesi di un
pontificato “a termine”, e non più “a vita”, come forma di governo richiesta
dalla velocità di cambiamento del mondo moderno e dalla continua novità dei
suoi problemi. Per altri si tratterebbe di ridurre il Papa a “un portavoce di
tutti i cristiani” le cui dichiarazioni “saranno certamente tanto più efficaci
quanto meno egli pretenderà obbedienza”; oppure a una figura meramente
arbitrale, con a fianco una struttura ecclesiastica “aperta”, quale un sinodo
permanente, con poteri deliberativi. Altri ancora rivendicano “un nuovo stile
papale” opposto a quello autoritario precedente. C’è infine chi, richiamandosi
alle teorie di Carl Schmitt, secondo cui “il sovrano è colui che decide sullo
stato di eccezione”, vorrebbe ridurre la funzione del Papato a un potere di
intervento per i casi rari di cui il Papa è il solo giudice supremo. […]. La
riforma del Papato, sullo sfondo dei problemi posti dalla globalizzazione e del
pluralismo culturale, appare insomma come l’unica possibilità rimasta alla
Chiesa per non estinguersi» (pp. 5-6).
I sostenitori, come storicizzano e relativizzano la Fede,
così storicizzano e relativizzano il concetto di Papato e quale miglior
grimaldello utilizzano se non il “trucco” del risalire al Cristianesimo della
prima ora? Ovvero quando il Papa non esercitava una sovranità giuridica sulle
chiese locali e la Chiesa era perciò «policentrica», senza un centro
coordinante, rappresentato successivamente dalla Chiesa romana. Si sostiene che
la sede di Roma era originariamente soltanto un «patriarcato» e da un primato
di onore si sarebbe passati ad un primato di giurisdizione. «Il governo diretto
e universale della Chiesa, nel primo millennio, sarebbe stato in realtà
affidato ai patriarchi, a livello regionale; solo in seguito allo scisma del
1054, il Vescovo di Roma sarebbe stato indotto a cumulare nelle sue mani
entrambe le funzioni precedentemente distinte: quella del servizio all’unità della
Chiesa universale e quella del governo diretto della Chiesa latina» (p. 7).
Coloro che ambiscono ad una democratizzazione della Chiesa
vedono nella sovranità pontificia una grande nemica, sorta con la «plenitudo
potestatis» del Medioevo, dopo la svolta di Gregorio VII del 1075, quando
il papato assunse un profilo essenzialmente monarchico. In quest’ottica di
opposizione alcuni si rifanno al «conciliarismo» del XIV secolo, quando il
movimento conciliare ebbe il suo successo con il decreto Haec Sancta del
Concilio di Costanza del 1417, con il quale si stabiliva che il Concilio ha
direttamente la sua potestà da Cristo ed è pertanto superiore, o almeno uguale,
al Papa. «Qualificato come decreto obbligante di valore generale, anche al di
là della congiuntura storica in vista della quale era stato approvato, l’Haec
Sancta è considerato come un modello ingiustamente abbandonato ma
ancora valido per l’avvenire» (p. 8). C’è chi afferma, come il teologo Hans
Küng, che ai «decreti di Costanza si deve riconoscere fondamentalmente la
stessa autorità che ai decreti degli altri concili ecumenici; essi dal punto di
vista della storia della Chiesa formano il polo contrario del Vaticano I» (p.
8).
Nel libro vengono illustrate tutte le tesi che avvalorano e
giustificano la sovranità petrina e il primato petrino, rispondendo in maniera
esaustiva a chi pensa che la «vittoria romana» sul conciliarismo fu una
semplice affermazione di carattere diplomatico e non un superamento teologico.
Secondo i moderni teologi la Chiesa, grazie all’Illuminismo e alla Rivoluzione
Francese, ha iniziato una positiva e proficua dialettica con il mondo moderno,
sviluppatasi e arricchitasi con il Concilio Vaticano II che «segna finalmente
il momento della “svolta”, liquidando la dimensione giuridico-istituzionale
della Chiesa e aprendosi a una nuova visione di essa fondata sul concetto di
“comunione” e di “popolo di Dio”» (p. 9).
I novatori, che relativizzano la portata teologica del dogma
del primato romano, pretendono di separare e contrapporre dialetticamente
servizio e autorità, potestà d’ordine e potestà di giurisdizione, struttura
carismatica e struttura giuridica della Chiesa; con tale sistema riemergono «le
vecchie antinomie del pensiero ereticale: legge contro Vangelo, chiesa
invisibile contro chiesa visibile, ecclesia iuris contro ecclesia
caritatis, chiesa “petrina”, contro chiesa “paolina”» (p. 11), dove tutte
le simpatie sono per la collegialità, quella collegialità caldeggiata durante
l’Assise che si tenne fra il 1962 e il 1965:
«Il Concilio Vaticano II in quanto riunione solenne dei
vescovi uniti al Papa, ha proposto insegnamenti autentici non certo privi di
autorità. Il suo Magistero è autorevole e supremo. Ma solo chi ignora la
teologia – ed è privo anche del più comune buon senso – potrebbe attribuire un
grado di “infallibilità” a tutti gli insegnamenti. Laddove essi suscitano dei
problemi, il supremo criterio ermeneutico è rappresentato dalla Tradizione,
vivente e perenne della Chiesa» (p. 96). Questa frase sarebbe da incorniciare e
da mettere in bella mostra sulle scrivanie di tanti teologi, storici, sociologi
e pastori.
Il saggio è ricco non solo di informazioni storiche,
giuridiche e teologiche, ma anche di notevoli spunti di riflessione e di
spiegazioni, che seguono il rigore della logica, rispondendo così, punto per
punto, alle obiezioni di coloro che vorrebbero fare del Pontefice un Presidente
della Repubblica o un delegato d’amministrazione o un Vescovo fra tanti, la cui
unica distinzione è quella di esserlo in Roma.
Molto interessante, ma anche suggestiva, è la sezione
dedicata alla testimonianza degli scavi archeologici, quelli commissionati da
Pio XII fra il 1940-1949, mentre era in costruzione il sepolcro di Pio XI nelle
Grotte Vaticane. Altri scavi vennero realizzati anche nel 1952… e le scoperte
furono sensazionali. Si comprese come la Basilica era stata edificata su un
luogo decisamente sfavorevole, a causa del pendio del terreno e anche della
presenza di una vasta necropoli sotterranea. Per i lavori si profilò, dunque,
la necessità di spostare un’enorme massa di terra e di distruggere sacri
monumenti sepolcrali; cosa, dunque, convinse l’imperatore Costantino ad
intraprendere quel grandioso lavoro? Ed ecco la spiegazione che emerse: sotto
l’altare della confessione, a sette metri di profondità, si rinvenne una
primitiva tomba terragna, al di sopra della quale si mostrò un piccolo
monumento funerario del II secolo, al quale venne sovrapposto un
monumento-sepolcro eretto dall’Imperatore Costantino e tre altari: di Gregorio
Magno, costruito fra il 590 e il 604, di Callisto II nel 1023 e di Clemente VII
nel 1594, tuttora altare papale della Basilica di San Pietro.
Margherita Guarducci, archeologa ed epigrafista, nel 1959
dimostrò, in tre volumi, come le epigrafi sepolcrali indicassero proprio nella
tomba, con il piccolo monumento, la sepoltura di colui al quale Cristo disse:
«Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli
inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli,
e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che
scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16, 18-19). Dunque il
primato di san Pietro fra gli Apostoli e nella Chiesa venne stabilito già da
Gesù Cristo e Cristo volle il primo Papa (la sua Chiesa) a Roma, dove subì il
martirio della crocifissione.
Le spoglie di san Pietro erano state avvolte in un drappo
intessuto d’oro e, dall’età di Costantino, non furono mai violate. Il 26 giugno
1968 Paolo VI annunciò, al termine dell’Anno della Fede - «che Noi abbiamo
dedicato alla memoria del XIX centenario del martirio sofferto a Roma per il
nome di Cristo dai Santi Apostoli Pietro e Paolo» - che le reliquie, trovate
nel piccolo sepolcro, erano state scientificamente esaminate e appartenevano
proprio al primo Pontefice della Chiesa, che morì nel 67, ultimo anno del regno
di Nerone, data scelta anche dall’oratoriano cardinale Cesare Baronio nei suoi
Annales Ecclesiastici, una delle prime opere di storia
ecclesiastica, basata su un’attenta e scrupolosa analisi critica delle fonti
documentarie, pubblicata la prima volta tra il 1588 e il 1607 come risposta
alla Historia Ecclesiae Christi dei teologi luterani di
Magdeburgo.
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