PREGHIERA
7 agosto 2013
Padre Paolo Dall'Oglio, un gesuita di cui ho trovato su internet moltissime foto ma non una con la croce al collo (timidezza? Allergia al metallo o al legno?), è stato rapito da un “gruppo islamico” (parole del ministero degli Esteri). Visto che è periodo di ramadan, digiuno foriero di “abbondanti frutti spirituali”, delle due l'una: 1) o il gruppo non è davvero islamico, e in tal caso il nostro governo sta diffamando un'intera religione; 2) o il gruppo è davvero islamico, rispettoso del digiuno rituale, e in tal caso bisognerà riconoscere che esiste anche una spiritualità negativa, veicolata da spiriti cattivi (Luca 7,21, 8,2, eccetera). Io non ho mai letto di un gruppo cristiano che abbia rapito un imam, un mullah o un muezzin, meno che meno durante il digiuno quaresimale. I digiuni non sembrano tutti uguali: che possa sempre incontrare maomettani satolli, rallentati da una digestione laboriosa.
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Dall’Oglio, il gesuita anacoreta che sta coi ribelli, rapito (forse) in Siria
C’è molta preoccupazione per la sorte del gesuita Paolo Dall’Oglio, figura di riferimento tra i cristiani siriani che si oppongono al regime di Bashar el Assad. Secondo i ribelli, Dall’Oglio sarebbe stato rapito nella città di Raqqa da miliziani islamisti dello Stato islamico e del levante, ma forse ha soltanto sospeso i contatti nel corso di una “missione” non meglio precisata che egli stesso aveva preannunciato su Facebook: “Pregate per me, perché abbia fortuna in questa missione per cui sono venuto qui”. La Farnesina e il nunzio vaticano a Damasco, monsignor Mario Zenari, invitano alla cautela e non confermano il rapimento, annunciato invece con certezza dal laico consiglio rivoluzionario locale. Espulso dalla Siria il 12 giugno del 2012 perché si era schierato con la rivolta, Dall’Oglio è rientrato nel febbraio scorso attraverso il Kurdistan iracheno in “pellegrinaggio di dolore e di testimonianza”. Il suo impegno trentennale di dialogo tra cristiani e musulmani, il suo prestigio personale e la notizia di un suo incontro di pochi giorni fa con i capi locali di Jabhat al Nusra rendono plausibili molte ipotesi. E’ innanzitutto possibile che Abuna Paolo, come viene chiamato in Siria, stia tentando una mediazione che ponga fine agli scontri tra i ribelli curdi e gli islamisti di al Nusra e della brigata Farouq, che hanno causato già 29 morti. Raqqa è stata conquistata dai qaidisti, che hanno fatto prigioniero il governatore, issato la bandiera nera di fronte la sede del governatorato e chiuso le chiese cristiane. Da qui l’immediata reazione armata contro i “nuovi invasori” dei peshmerga curdi, ribelli contro Assad ma laici.
Gesuita di rito siriaco, Dall’Oglio ha dato vita a un’esperienza unica: lo abbiamo incontrato anni fa nel suo fantastico monastero di Deir Mar Musa al Habashi, fondato 15 secoli fa in un luogo di elezione per gli anacoreti protocristiani. Dopo una salita a piedi su un sentiero, arrivato al grappolo di edifici aggrappati su una preistorica cordigliera, in equilibrio precario su uno strapiombo da cui si domina un’immensa zona desertica, eri accolto con un sorriso da padre Dall’Oglio che ti offriva un tè, ti mostrava la colorata cappella affrescata nell’XI secolo e ti introduceva nella comunità che fondò nel 1992. Su un largo tappeto ti accoccolavi tra giovani capelloni, ragazze, persone mature che chiacchieravano di tutto un po’, in pace. Molti i cristiani, molti i musulmani, tutti avvolti in un’atmosfera millenaria di ricerca rarefatta, non urgente.
Ma Abuna Paolo è gesuita, miles Christi, si sente, ed è ora, siriano e quando nella quiete argentea del suo monastero sono arrivate le notizie delle stragi, non si è limitato a pregare con più forza. Ha parlato, ha denunciato. Ha scritto quattro giorni fa sull’Huffington Post parole che testimoniano il suo travaglio a fronte della violenza bestiale di Assad: “Se avete paura, giustamente intendiamoci, per la sicurezza dello stato di Israele, allora siate bravi, intervenite a pacificare la Siria, distruggete l’arsenale chimico, restituiteci il diritto all’autodeterminazione democratica e poi mettete alla giovane democrazia siriana quelle linee rosse che riterrete necessarie. In fondo per voi non cambia nulla sul piano della sicurezza se come partner regionale avete un regime assassino o una baldanzosa Siria democratica! Invece se ci lasciate sbranare dal regime assassino, allora, ve lo promettiamo, la necessaria doverosa e disperata autodifesa ci consiglierà, ci obbligherà a costituire un tale micidiale pericolo alla sicurezza regionale da obbligarvi ad assumervi comunque le vostre responsabilità”.
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Padre Van der Lugt, il gesuita nell'assedio di Homs
Ha alle spalle quasi cinquant'anni di Siria il religioso olandese per il quale - come per padre Dall'Oglio - mancano notizie da giorni
GIORGIO BERNARDELLI
Il suo è un nome molto meno noto rispetto a quello di padre Paolo Dall'Oglio: non ha lanciato appelli o petizioni, né rilasciato interviste ai media di mezzo mondo. Eppure anche la sua è una storia straordinaria di condivisione delle sofferenze del popolo siriano. Vale dunque la pena di capire un po' meglio chi sia anche padre Frans van der Lugt, l'altro gesuita per il quale il provinciale per il Medio Oriente Victor Assouad ha espresso grande preoccupazione nel comunicato diffuso l'altro giorno sul caso Dall'Olio. Padre Frans, e cioè il religioso che vive nel centro di Homs, la città martire per eccellenza del conflitto siriano, nuovamente precipitata nell'abisso della violenza.
Originario dell'Olanda, padre van der Lugt vive in Medio Oriente ormai da cinquant'anni: è in Siria dal 1966, dopo un primo breve periodo trascorso in Libano a imparare l'arabo. Ci arrivò con un un'esperienza umana del tutto particolare: quella di un religioso che è anche psicoterapeuta; una competenza rivelatasi preziosa nel gettare ponti di pace e di comprensione reciproca tra cristiani e musulmani.
A Homs - a partire dagli anni Ottanta - padre van der Lugt ha dato vita al progetto Al Ard (“la terra”), un centro sorto su una collina a pochi chilometri dalla città. Un progetto di sviluppo agricolo, un luogo dello spirito (ospitava ritiri che padre Frans stesso predicava) e insieme un'icona del dialogo possibile tra uomini e donne di religioni diverse. Un centro che dal 2000 era divenuto anche un segno importante di solidarietà, aprendo le porte a una quarantina di ragazzi con handicap mentale, provenienti dai villaggi vicini. Anche loro sono stati coinvolti nelle attività agricole e in questo modo valorizzati nella loro dignità di persone.
Ma questa era la quotidianità della vita di padre van der Lugt prima che l'anno scorso il dramma della guerra si abbattesse anche su Homs. Da allora - infatti - la frontiera di questo gesuita olandese è tornato a essere Bustan el-Diwan, il quartiere della parte vecchia della città dove abitavano i cristiani. Quello da cui chi poteva è fuggito già quando erano gli islamisti ad avanzare ed era diventato il cuore della battaglia con le truppe di Assad. Padre Frans, invece, ha scelto di restare lì, nello storico collegio dei gesuiti, per prendersi cura dei più deboli rimasti nel quartiere. A loro ha aperto le porte della sua casa - un luogo non risparmiato dai colpi dell'artiglieria dell'esercito siriano -, prendendosi cura delle sofferenze del corpo e dello spirito che una guerra lascia sempre dietro di sé.
Già nel giugno 2012, durante i giorni più duri della prima offensiva, i gesuiti avevano perso i contatti con padre van der Lugt: in quelle ore era palpabile il timore che le milizie di Jabat al Nusra, conquistato Bustan el-Diwan, non avessero risparmiato quella comunità. Invece così non è stato, grazie anche alla capacità di padre Frans di coltivare relazioni di amicizia con gli imam locali. Oggi - però - la situazione si è capovolta: ora è l'esercito di Assad che sta cercando di riconquistare Homs. Con le milizie ribelli asserragliate nella parte vecchia della città, dove vivono 400 mila persone. E con un gesuita olandese con la passione per la psicologia sempre lì nel mezzo, a prendersi cura comunque di chi è più debole nel cuore lacerato della Siria di oggi.
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