I FRUTTI DEL VATICANO II
"Dietro l'espressione vaga mondo di oggi vi
è la questione del rapporto con l'età moderna. Questo non è riuscito nello
schema XIII [Gaudium et Spes]. Sebbene la costituzione pastorale
esprima molte cose importanti per la comprensione del mondo e dia rilevanti
contributi sulla questione dell'etica cristiana, su questo punto non è riuscita
a offrire un chiarimento sostanziale". (Benedetto XVI al Sinodo
dei vescovi, 11 ottobre 2012)
"In questo tempo così turbato del
post-concilio" [1], Benedetto
XVI ha consentito e incoraggiato la rilettura e la revisione dei testi lacunosi
e/o confusi del Vaticano II. Ad esempio ha indicato i limiti della Nostra
aetate, rammentando che nel processo di recezione del Concilio ecumenico
Vaticano II "è via via emersa anche una debolezza di questo testo di
per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora
le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e
teologico hanno un'ampia portata, per questo sin dall'inizio la fede cristiana
è stata molto critica, sia verso l'interno sia verso l'esterno della
religione".
Intanto l’uso sobrio e rigoroso di un’ingente mole di
notizie e la felice combinazione di fermezza dottrinale e carità, hanno
consentito a Paolo Pasqualucci di affrontare l’imbarazzante problema posto
dalla presenza – indisturbata, quando non incoraggiata e approvata
ufficiosamente - della screditata teologia progressista, fumo di satana penetrato
nella Chiesa cattolica, come ebbe a definirla Paolo VI [2].
La rumorosa sopravvivenza della teologia conformista, che fu
generata da uno stupore disarmato davanti a figure ideologiche fatiscenti e
destinate ad essere travolte e sepolte sotto il muro di Berlino, costituisce
motivo di umiliante disagio per la cultura cattolica.
Smentite tutte le ragioni del trionfalismo moderno, è
evidente, infatti, la malinconica dissolvenza delle pie illusioni e dei
cedimenti cattolici alle magnifiche sorti e progressive.
La disperazione leopardiana, schopenhaueriana e
nietzschiana, professata senza ritegni dall’affranto guru Eugenio
Scalfari, l'uomo che sussurra a papa Francesco I, dimostra che l’illusione
progressista appartiene al passato. Le autentiche ragioni della speranza stanno
rientrando faticosamente nella casa dell’ortodossia cattolica.
Se non che l’imperiosa e torrentizia verbosità dei teologi
sedicenti aggiornati, mantiene una vasta area del mondo cattolico
incollata al fotogramma della moviola, che ha registrato le suggestioni del
progressismo furoreggiante nei remoti (e non ancora del tutto superati) anni
del Vaticano II.
Nelle pagine della sua magistrale opera, Pasqualucci
dimostra che, per uscire dal vicolo cieco in cui langue la cultura
postconciliare, è necessario rammentare la dipendenza dei nuovi teologi (Rahner
e Küng, ad esempio) da uno stato d’animo abbagliato dalle luci della ribalta
progressista. Una ribalta peraltro devastata dal corso sfavorevole degli eventi
e dall’involuzione dei pensieri “a monte”.
Un teologo autorevole quale Brunero Gherardini ha scritto che
la nuova teologia ha tentato di mettere una pietra tombale sulla metafisica “spogliando
la ragione umana della sua capacità di pervenire alla verità, di scoprirne
l’essere, d’isolarne l’atto di essere”.
Dal suo canto Giovanni Cavalcoli o. p., ha dimostrato che
nel pensiero di Karl Rahner, uno degli agenti confusionari circolanti negli
ambulacri del Vaticano II, prevale l'errore capitale del trascendentalismo dopo
Kant: "la mente umana, secondo Rahner, trascende gli enti e giunge a
Dio non con l'applicare il principio di causalità partendo dall'esperienza
degli enti sensibili, ma mediante un'esperienza, che è appunto questo
trascendere, il quale non segue ma precede l'esperienza sensibile degli enti,
ed è immediato ed aprioristico contatto con Dio stesso atematicamente ed
originariamente sperimentato" [3].
Di qui le
acrobazie alle quali sono costretti i teologi quando si trovano di fronte al
problema dell'ateismo fanatico, professato da uomini di cultura, ad esempio da
Eugenio Scalfari. Come è possibile l'ateismo se la mente umana è capace di un
aprioristico contatto con Dio? Se Cristo si è incarnato in qualche modo in
ogni uomo come si giustifica la cecità degli atei? Come possono
convivere nell'uomo il Cristo incarnato (in qualche modo) e la
negazione di Cristo? Come è possibile una coscienza che nega il Dio in sé
abitante? E come è teologicamente spiegabile un tale paradosso?
Purtroppo l'ovvia soluzione del problema - abbandonare i
devastanti errori rahneriani - è unrischio che la teologia
post-conciliare non può correre. Di qui l'acrobazia teologica che assolve e
addirittura promuove la coscienza dell'ateo Scalfari.
Il difficile compito dei restauratori cattolici, in ultima
analisi, consiste nel rianimare la perplessa e depressa maggioranza dei
credenti, dimostrando che il potere, tuttora esercitato da novatori tanto
ostinati quanto esausti e sorpassati, non discende dalla presunta evoluzione
del dogma ma dall’esagerata fiducia riposta in ideologie perdenti.
Durante gli anni Sessanta il potere della suggestione era a
tal punto influente che perfino un uomo cauto e scrupoloso come Giovanni XXIII
dichiarò ammirazione “per il meraviglioso progresso del genere umano”,
in pratica per le conquiste vantate dai propagandisti dellarivoluzione
illusionista.
Nell’Allocuzione inaugurale Gaudet Mater Ecclesia papa
Roncalli tratteggiò due scenari divergenti: un Concilio indirizzato alla
risoluta, intransigente conferma dei dogmi (“il Concilio deve condurre ad un
sempre più intenso rafforzamento della fede”) e un Concilio
orientato ad evitare la condanna degli errori moderni, visto che “ormai gli
uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli”.
In una fase storica caratterizzata dall’incubazione del
furente anarchismo dei sessantottini, Giovanni XIII affermò addirittura che gli
uomini contemporanei sembravano “più inclini a recepire gli ammonimenti”
della Chiesa cattolica.
Di qui la convinzione, illusoria dato il furore delle
persecuzioni anticristiane allora in atto nell’Unione sovietica e in Cina,
oltre che nel mondo islamico, che si potesse giudicare avvenuto “l’ingresso
in una nuova età, la quale, fatta salva la sacra eredità trasmessaci dalle
generazioni precedenti mostra un meraviglioso progresso nelle cose che
riguardano l’animo umano”.
Evidentemente la visione di un mondo verniciato di rosa non
può essere equiparata all’errore teologico, perciò nessuno mette in discussione
la fedeltà di papa Giovanni al dogma, fedeltà che fu peraltro autorevolmente
attestata da Cornelio Fabro. L’infallibilità peraltro non copre le opinioni dei
papi sull’effimero, tanto meno sacralizza gli abbagli giornalistici.
Senza dubbio erronea è, invece, la teologia progressista,
avanzata sotto l’ombrello dell’immaginario contemplante i progressi
spirituali della modernità, fino a raggiungere il punto di non ritorno che
è rappresentato dalla teoria di Karl Rahner sui cristiani anonimi.
Teoria in cui Cornelio Fabro vedeva il rovesciamento della teologia in
antropologia.
Le suggestioni diffuse dai nuovi teologi hanno purtroppo
inquinato il dibattito conciliare, imponendo una soluzione interlocutoria
e minimalista, la “pastoralità”, che ha escluso il radicamento delle
costituzioni conciliari nell’infallibilità ma non ha impedito la circolazione
tra i novatori di una surrettizia opinione infallibilista,
affermante l’inviolabilità dell’ecumenismo latitudinario, che era giustificato
soltanto dagli immotivati entusiasmi intorno alle languenti ideologie.
In seguito, l’infallibilismo è stato usato come
copertura, offerta dall’esorbitanza del buonismo, ai teologi che, in nome del “concilio”,
erano intenti all’erosione del depositum fidei. Per un singolare
paradosso, il partito dei nuovi teologi ha trovato rifugio nella intransigenza
dottrinale dichiarata da Giovanni XXIII durante la cerimonia inaugurale del
Vaticano II.
Per ridare vitalità e slancio missionario alla Chiesa
cattolica, a nostro avviso, è necessario sciogliere i lacci che tengono unito
l’incontrollato entusiasmo dei novatori all’intransigenza dottrinale,
cioè interrompere il giro vizioso che si è stabilito tra la prudenza infallibilista e
ildeficit prodotto dal precipitoso avventurismo teologico.
Occorre specialmente che questa delicata
operazione sia compiuta, come propone Pasqualucci, con rigore ma senza
ventilare lacerazioni irreparabili.
L’interruzione del giro vizioso della teologia è tuttavia
impensabile senza la preventiva rinuncia alle anacronistiche illusioni intorno
agli splendori della modernità. Si tratta di trarre le dovute
conseguenze dall’invito all’autocritica della modernità e del cattolicesimo
modernizzante, formulato da Benedetto XVI nella Spe salvi.
È questa, infatti, la condizione necessaria a ottenere la
liberazione del pensiero cattolico dal peso morto e mortificante della moderna
utopia. Nei testi del Concilio pastorale (e non dogmatico) un illuminato
esercizio del senso autocritico può, infatti, scoprire e rimuovere le tracce
dell’ingenuo ottimismo professato da Giovanni XXIII, quindi avviare, senza
inscenare drammi, l’attesa separazione del dogma cattolico dalle temerarie
opinioni dei teologi privati.
[1] L'espressione
è di padre Cornelio Fabro, cfr. "Lettere su Santa Gemma Galgani al
Monastero di Lucca", a cura di Elvio Fontana, Edivi, Segni 2013, pag.
34
[2] Paolo
Pasqualucci, “Giovanni XXIII e il Concilio Ecumenico Vaticano II Analisi
critica della lettera, dei fondamenti, dell’influenza e delle conseguenze della
Gaudet Mater Ecclesia, Allocuzione di apertura del Concilio, di Giovanni XXIII”,
Editrice Ichtis, Spadarolo (Rn) tel. 0541.727767.
[3] Giovanni
Cavalcoli, "Karl Rahner Il Concilio tradito", Fede &
Cultura, Verona 2009, pag. 33
di Piero Vassallo
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