In questi tempi di grandi turbamenti nella vita della Chiesa, che propongono gravi domande sulla conservazione della sua dottrina e sul suo governo, mi sembra utile ricordare brevemente le figure di due grandi Vescovi che col loro esempio illuminarono non solo la loro epoca ma fissarono un esempio per la Chiesa di tutti i tempi.
Uno, meno noto ma non meno grande, fu Matteo Giberti (1495 – 1543), Vescovo di Verona; l’altro, notissimo, fu il santo Carlo Borromeo (1538 – 1584), Vescovo di Milano.
Giberti, già datario papale[1], appena nominato vescovo di Verona non esitò a rinunciare a tutti gli onori e ai benefici che la carica e la posizione nella Curia romana gli conferivano, per recarsi nella sua nuova diocesi, dalla quale non si allontanò più.
Questo costituiva già un’eccezione, poiché al tempo i vescovi non avevano l’obbligo di risiedere nella diocesi loro assegnata: ognuno poteva dimorare in un luogo ed essere al contempo titolare della diocesi di un altro. La diocesi assegnata costitutiva un beneficio economico di per sé (che il vescovo poteva anche barattare con altra più strategica o conveniente), e che gli fruttava – per il solo fatto di esservi stato nominato – una rendita sicura in decime, censi e livelli, oltre che in prodotti di ogni genere, da parte del territorio di quella diocesi, coi quali campava anche a distanza.
Giberti dimostrò al contrario un vero e proprio attaccamento al territorio e alla cura d’anime assegnategli, e nella diocesi di Verona profuse ogni suo impegno apostolico dando estrema importanza alla formazione del giovane clero. Nei pomeriggi dei giorni festivi accoglieva i giovani seminaristi, li interrogava, scioglieva dubbi e rispondeva alle domande, li esaminava uno per uno per verificare la loro preparazione. Se trovava qualcuno in difetto, lo mandava da qualche anziano ed esperto sacerdote perché imparasse. Quasi ogni giorno riceveva in curia un sacerdote della diocesi, a rotazione, dal quale voleva essere dettagliatamente informato sull’andamento della sua parrocchia e delle anime che aveva in cura. Se accoglieva dei sacerdoti stranieri, li faceva celebrare solo dopo averne verificato le capacità. Istituì le adunanze quindicinali fra i sacerdoti della diocesi – anticipando di secoli le riunioni di vicariato delle sedi metropolitane – in modo da mantenere l’unità del presbiterio e da poter affrontare i problemi correnti col consiglio di tutti.
Ad ogni quaresima invitava dei predicatori che affiancassero i sacerdoti nelle parrocchie; nei giorni di festa obbligava i suoi sacerdoti a spiegare il Vangelo senza retorica ma con semplicità di lingua e di cuore. Curava l’istruzione dei bambini, e anche in questo anticipando i tempi di secoli, dedicava loro vere e proprie lezioni di catechismo la domenica dopo i vespri, aiutato da laici o da genitori che ne fossero in grado. In ogni convento o monastero chiedeva che venisse spiegato e commentato il Vangelo del giorno oppure una delle Lettere paoline. Stabilì che tutti gli atti del vescovo come autorità spirituale dovessero essere gratuiti, mentre per quelli civili come il rilascio di certificazioni o attestati, si chiedesse solo la cifra irrisoria dello scritturato.
Contro la battente campagna protestante – attuata anche attraverso efficaci foglietti simili ai nostri volantini – che avversava il papato e in genere la liturgia cattolica come incomprensibile ai più, fece tradurre dal latino in volgare l’Ordo Missae e quindi il breviario romano includendovi le memorie dei trentasei vescovi santi di Verona, affinché il popolo si rendesse conto di quel che i sacerdoti andavano celebrando. Predispose una Summa et silva argumentarum, un vero e proprio prontuario per i predicatori, che fu prima di tutto un’opera di apologetica quanto mai opportuna in quei tempi scossi dall’eresia luterana. Fece costruire un ospizio per i bambini abbandonati, uno per gli ammalati poveri e il lazzaretto, incaricando i laici della loro amministrazione affinché il clero si dedicasse interamente alla preghiera, e fosse messo il meno possibile alla prova della tentazione. Creò anche una struttura per le donne e le fanciulle da recuperare moralmente e le affidò alle cure di laiche formate ed esperte che, senza pronunciare voti, vivessero con loro e fossero loro d’esempio facendole lavorare: da qui, da Giberti, partiranno in seguito le esperienze di santa Francesca di Chantal e di san Vincenzo de’ Paoli. Istituì anche una Societas caritatis, organismo misto di chierici e laici, per diffondere e tener viva la preghiera, anticipando di secoli anche in questo campo, tutta la Chiesa.
In poche parole, per tutto l’Umanesimo la Chiesa guardò costantemente a Giberti e a Verona.
Carlo Borromeo impegnò tutta la sua vita per la sua diocesi di Milano e nel far ciò, ebbe proprio nel Giberti il suo modello. Quel che lo caratterizzò fu il fatto di saper conciliare la cura della diocesi con la cura della Chiesa universale nella quale era chiamato a rivestire la veste cardinalizia e soprattutto lo vedeva alle prese col Concilio di Trento nel quale fungeva da nodo fra la Curia romana, i Legati pontifici e i Padri conciliari.
Non mutarono mai né il suo impegno né la sua dedizione, e nemmeno un maggiore o minore interesse per i diversi problemi che gli ponevano il centro e la periferia. Le sue energie invece restarono salde su tutti e due i fronti, ed egli seppe dirigerle con lucida determinazione, con saggezza e con prudenza, da vero uomo di Dio. Carlo aveva una visione complessiva della Chiesa e concepiva l’episcopato come strumento di servizio, tanto da trasferire anche negli atti del suo governo lo spirito ascetico che era la sua essenza.
In una lettera del 1576, il vescovo di Brescia Domenico Bollani descriveva il Borromeo come “un signore pieno di rigore et sottigliezza, pieno di grande bontà et ardente zelo”, e il cardinal Paleotti[2] gli scriveva: “Ella non si risparmia mai, né cessa mai, et in questo modo non vi durerà”[3]. Parole profetiche, perché Carlo moriva proprio nel 1584, pochissimo tempo dopo che lo stesso papa Gregorio XIII lo aveva richiamato a minor severità con se stesso.
Per comprendere meglio i motivi di tanta grandezza, trascrivo la lettera con la quale un altro grande santo – il gesuita Roberto Bellarmino – esprimeva a papa Paolo V il suo parere favorevole alla canonizzazione del Vescovo Carlo:
“Beatissimo Padre. La Sede Apostolica non è solita canonizzare alcuno se non sotto il titolo di Martire, overo di confessore; confessori si chiamano, non solo quelli, che confessano liberamente la fede di Christo avanti i tiranni, e persecutori, ma quelli ancora , che mentre vivono fanno in fatti la professione vera della dottrina del medesimo Christo. La dottrina di Christo si contiene in quattro capi, amore di Dio, amore del prossimo, disprezzo del mondo, disprezzo di se stesso; le quali cose non pure furono tutte in Carlo Cardinale di buona memoria, ma vi risplendevano a meraviglia, come a tutto il mondo è manifesto. Imperocché dell’ardentissimo amore di Dio, testimonio ne sono le assidue orazioni, e contemplazioni, nelle quali consumava spesse volte tutta la notte; dell’amore verso il prossimo, ne fanno fede le larghissime limosine, fino a dare ai poveri tutta la suppellettile della casa, e le vestimenta proprie; ne fa fede similmente la peste di Milano, nella quale ogni giorno egli espose la vita sua a manifesto pericolo di morte per i suoi fratelli. Del disprezzo del mondo, e massime delle ricchezze, ne appare dalla rinunzia volontaria, ch’egli fece di tanti ricchi beneficj essendosi riservato e pena la terza parte de’ suoi redditi. Et finalmente rendono testimonio di disprezzo di se stesso, le astinenze, i digiuni, le vigilie, il dormir sopra la terra, e, tutte l’altre sue rigidissime macerationi della carne, per le quali si può paragonare a i santi padri Martino e Paolino vescovi, e ad Antonio e Hilarione monaci. Essendo adunque queste cose vere, e aggiungendovisi ancora la gloria dei miracoli molto illustre, io giudico, Beatissimo Padre, che Carlo Cardinale possa giustamente essere ascritto nel numero de i Santi Pontefici, e Confessori”.
Il confronto con la Chiesa di oggi è stridente: in passato, era attraverso le virtù personali alimentate dalla grazia e dalla preghiera («ascetica», dicono le fonti, al riguardo del cardinal Borromeo) che la Chiesa si costruiva e prendeva vigore. Oggi la Chiesa si manifesta come un sistema organizzato (anche democratico e burocratico) ma rivolto verso il basso, verso i fini di un cristianesimo secondario inclusivo di tutti i valori umani e mondani, troppo spesso elusiva circa la riproposizione della sua unica ed urgente finalità – assolutamente trascendente ed imperativa – che è la prosecuzione della missione di Cristo sulla terra.
Davanti ai tanti «rumori» di oggi, solo la preghiera e l’azione di uomini santi potrà salvare. (Giovanni Tortelli)
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