Intervista ad un parroco.
di
Catto Maior
Chiacchierando
con un amico giovane sacerdote, siamo arrivati ben presto a parlare
della messa in latino, di cui anche il sottoscritto è grandissimo
ammiratore (tanto che, soprattutto in certi periodi dell'anno,
assiste più al rito di Pio V che a quello post-conciliare). Per
offrire a tutti un saggio delle bellezze sovrannaturali di questo
rito troppo spesso bistrattato, propongo una breve intervista a
questo venerabile Padre, dalla quale tutti noi possiamo trarre
importanti insegnamenti e, magari, accrescere la nostra curiosità
verso questa speciale celebrazione.
Quando
e come ha conosciuto la Missa?
Certamente
nella testimonianza di mio padre. Mio padre è cresciuto in un
orfanotrofio e fa parte di quelli che, dopo anni di messa quotidiana
obbligatoria, ha trascorso anni senza più neppure la messa
domenicale. Un giorno però mi parlò della Comunione, di come la
faceva lui: era una cosa santa, disse. Mi chiesi più volte in che
senso ora non lo fosse, o non abbastanza. La domanda rimase aperta.
Verso
il terzo anno di seminario mi capitò occasionalmente di sentire
parlare della Missa su qualche sito cattolico conservatore (fino ad
allora non avevo vera consapevolezza del fatto che esistessero siti
cattolici, né che fossero divisibili in orientamenti di scuola),
diceva cose ragionevoli e meritevoli di ascolto. Cose mai sentite
prima d’allora.
Poi
finalmente, a pochi mesi dall’accolitato, un seminarista più
giovane mi propose di partecipare a una Missa. Accettai subito. Avevo
una fifa matta e una vergogna zozza, quasi che stessimo per entrare
in un night club.
Cosa
l’ha colpita principalmente quando ha assistito per la prima volta
alla celebrazione di sempre?
Feci
due considerazioni. Anzitutto avvertivo quel rito come un rito bello
e stimolante, seppur impegnativo, lungo e faticoso. Faticoso perché
mi aveva costretto a pregare, a inginocchiarmi, a confessarmi più e
più volte, a battermi, a guardare la croce. Veniva meno l’ambaradan
della messa abituale, addio allo sguardo ammaliante del prete, nessun
andirivieni interattivo tra assemblea e presbiterio. Il tutto metteva
impietosamente a nudo la mia fede. Sì, insomma, la prima volta fu un
trauma, un misto di paura e venerazione: credo di aver capito lì
propriamente, sulla mia pelle, cosa intendesse Kant quando parlava
del “Sublime matematico”.
La
seconda impressione mi assalì all’uscita: la Missa è qualcosa di
tremendo ed eccezionale, potente e ricchissimo, nulla di brutto né
stupido né indifferente… perché mai allora i miei formatori e
pastori l’avevano sempre irrisa e me l’avevano tenuta nascosta
fino a quel momento?
Potrebbe
sintetizzare in poche parole qual è la forza coinvolgente e unica
della Missa?
No,
ci vorrebbe un poeta, ma uno di quelli grandi e veri. Ci vorrebbe un
Dante o poco meno. Poi è significativo che, per quanto ne so, i
grandi poeti cattolici non scrivessero sulla Missa. La vivevano. E
poi scrivevano cose eccelse su tutto il resto.
Qual
è la sua preghiera preferita della Missa?
L’ultima
tra le apologie segrete: Placeat
tibi, sancta Trinitas, obsequium servitutis meae: et praesta; ut
sacrificium, quod oculis tuae maiestatis indignus obtuli, tibi sit
acceptabile, mihique et omnibus, pro quibus illud obtuli, sit, te
miserante, propitiabile. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
Mi ricorda il valore propiziatorio del sacrificio, cosa che non mi è
stata insegnata in seminario e che sento come una deplorevole lacuna
nella mia coscienza sacerdotale. E poi è un meraviglioso atto di
umiltà: potrei anche aver appena concluso la più pia, devota,
solenne e curata delle celebrazioni, ma devo pur sempre riconoscere
che ciò che ho fatto non vale nulla, se non in quanto è Dio stesso
a volerlo in qualche modo accettare nella sua Misericordia.
E
adesso lasciami spezzare una lancia di sintonia con il mio venerato
Papa, Francesco: in quel miserante
finale sento tutto l’irradiare del franceschiano miserando,
sì che la pastorale realmente si sprigioni dal culto di obbedienza a
Dio.
Come
ha imparato a celebrare la Missa?
Sono
andato in ricerca di un prete che sapesse celebrarla, amasse
celebrarla e volesse insegnarla. Il resto si apprende dai video su
Internet. Tutti poi mi consigliano il video dei lefebvriani: nella
celebrazione sono i migliori, né inutilmente pomposi, né svelti, né
troppo rigidi. Incredibile come gente tanto discussa sia così fine
nel più fine dei settori. Quasi quasi verrebbe da ricredersi su
certi pregiudizi, almeno su certi…
Ha
incontrato grandi difficoltà all’interno del clero e ha dovuto
operare quasi – ahinoi – clandestinamente?
Quando indosso il cingolo, la stola sotto la casula, o quando uso la palla per coprire il calice e non per appoggiarci le oblate. Non parliamo di talare, pianete, latino,
gregoriano, o della turpe parola: rubrica.
No,
davvero, pressoché nessuno dei miei conoscenti sa che celebro in
rito antico. Non mi considero nemmeno un clandestino, ma un apolide:
attendo il ritorno del Padrone della Vigna. A volte mi stupisco della
fede tenace del popolo, visto il pressapochismo liturgico del clero
di mia conoscenza. Scusatemi per questa considerazione villana:
consideratelo uno sfogo imprudente, o la mia tentazione periodica.
Ha
occasione di celebrare di frequente secondo questo rito?
In
alcuni momenti simbolici durante l’anno. Aggiungi due o tre messe
lette al mese. Comunque è una celebrazione che chiede tanto tempo: i
molti lavori, le giuste e debite messe parrocchiali per il popolo e
la necessità di operare nel segreto rendono difficile una frequenza
maggiore.
È
riuscito a comunicare questa sensibilità verso l’antico rito anche
ad altri sacerdoti?
Quasi
per nulla. E ho sempre il timore di imbattermi in qualche talpa. Di
recente poi, tra i FFI, la penalizzazione di Burke e altri casi
locali di mia conoscenza mi pare che più uno si esponga più rischi
di saltare: di ruolo o di nervi. Il paradigma ormai è Nagasaki:
nascosti per secoli nelle foreste. Il lavoro di propaganda dovete
farlo voi laici. Preziosissimo è l’aiuto di quei laici che
riescono a mettere in contatto tra loro sacerdoti tradizionali di
provata fedeltà e prudenza.
Ritiene
che la Missa
possa essere uno strumento efficacie di rinascita – spirituale e
teologica – per la Chiesa attuale?
Sì,
sicurissimo, anche se con l’oblio di Benedetto XVI ho il timore
stia diventando piuttosto il mezzo sondaggistico delle curie per
compilare con facilità le loro nuove liste di proscrizione.
Sovente
si sente etichettare la missa
come un qualcosa di superato, limitato unicamente a ristretti gruppi
di nostalgici sovversivi. Tuttavia già la sua giovine età e il
numero crescente di giovani sacerdoti e di giovani fedeli che si
avvicinano a questa forma di celebrazione sembrerebbero indicare ben
altro. Ritiene che la Missa
sia in grado di catturare anche i più giovani e di sostenerli nel
non allontanarsi dalla Fede?
Ritengo
che la Missa ti metta impietosamente davanti a Cristo e all’Eterno:
è il momento migliore per scegliere con lucidità. Poi avremo solo
un altro momento più diafano e più tragico: il momento della nostra
morte. Visto l’imprevedibilità del secondo, ho preferito portarmi
avanti sul primo.
“Superato”
e “limitato” sono etichette superficiali, concernono il
materiale. Già a livello psichico divengono confuse. L’uomo
spirituale le usa con la stessa parsimonia con cui un capofamiglia
saggio mette mano al bastone.
Ciò
detto, i giovani, quando non siano irrimediabilmente soggiogati al
peccato, si sentono attratti dalle cose profonde e serie. La morte,
Cristo e lo spirito sono cose profonde e serie. Così profonde e
serie da riuscire a spezzare talvolta anche i gioghi più compatti.
http://www.campariedemaistre.com/2014/01/la-missa-intervista-ad-un-parroco.html
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