La laicizzazione propria della postmodernità irrompe anche nella Chiesa. Turba le menti e i cuori dei fedeli con domande insidiose, tra le quali oggi prevale questa: Davvero Dio ha detto ciò che la fede della Chiesa gli attribuisce sul matrimonio e sulla famiglia? La domanda: “E’ vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare?…” (Gn 3, 1-3), in illo tempore rivolta dal tentatore all’uomo e alla donna provocò la caduta primordiale.
In fondo, il dubbio in cui nascono domande del genere esprime la negazione della verità e, di conseguenza, della dignità dell’uomo.
Esso elimina dal campo visivo dell’uomo i principi del suo essere persona. La verità dell’uomo, infatti, gli si rivela in un altro uomo, cioè nella comunione con lui. Proprio per questo la negazione della verità della persona deve innanzitutto colpire le amicizie, il matrimonio, la famiglia in cui questa persona vive. Ogni realtà viene micidialmente colpita dalle parole il cui contenuto non le appartiene e le viene imposto. Le parole contraffatte incatenano la realtà alle cose che le sono estranee. E’ ciò che oggi succede alla realtà del matrimonio e della famiglia. La postmodernità cerca di convincere l’uomo e la donna che è lecito mangiare il frutto dell’albero che cresce nel giardino della loro relazione plasmata dalla differenza sessuale e la cui invisibile luce indica loro la via da prendere verso la verità. Proprio questa luce è d’intralcio a una volontà che voglia dominare tutti i regni del mondo. Non potendo colpire la luce stessa, questa volontà fa tutto il possibile per esiliare da questa luce l’uomo e la donna e, di conseguenza, farli cadere nell’oblio della verità. Non c’è allora da meravigliarsi come per questa volontà la Chiesa rappresenti un nemico, se posso così dire, primordiale. Il suo cedimento costituirebbe una sconfitta della persona umana.
Consapevole della caduta primordiale dell’uomo e del suo esilio, con la voce di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI la Chiesa risvegliava e continua a risvegliare negli uomini la memoria di quell’unico albero la cui luce fa vedere la verità di tutto il giardino. Penso che anche per questo Papa Francesco abbia convocato il Sinodo dei Vescovi. C’è infatti una urgente necessità di aiutare i cristiani a vedere meglio la bella e sacra verità del sacramento che unisce l’uomo e la donna “in una carne”. Come venire loro in aiuto? La risposta è stata data da Cristo.
Un giorno Cristo pose ai Suoi discepoli due questioni. La prima era questa: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Essi risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Va bene, questo è ciò che gli altri pensano di Me. Il fatto che Cristo non si sia soffermato sulle opinioni è per noi un’importante indicazione. Mi sembra che, avendola dimenticata, si sia perso tanto tempo per un’inutile inchiesta presinodale. I sociologi hanno già risposto e continuano a rispondere in modo scientifico alle questioni poste. I vescovi per primi dovrebbero sapere come stanno le cose nelle loro diocesi.
La seconda domanda era questa: “Voi chi dite che io sia?”. Questa domanda è la sola importante per Lui e la sola fondamentale per la Chiesa stessa. A nome di tutti, Pietro rispose: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Su questa domanda Cristo concentra la predicazione del Regno e con la Sua presenza insegna ai discepoli a cambiare il modo di pensare se stessi. Non più attraverso le opinioni ma attraverso la conversione alla verità.
Questo episodio ci mette in guardia dal pericolo di confondere con la fede della Chiesa la vox populi espressa nelle risposte date all’inchiesta presinodale. Non dimentichiamo che solo dopo la risposta data da Pietro alla seconda domanda, non alla prima, Cristo gli disse: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la Chiesa. (…) A te darò le chiavi del regno dei cieli…” (Mt 16, 13-19). Il mistero della salvezza non è una realtà da calcolare sociologicamente. Mi domando: accadrà questo nel Sinodo? Accadrà se i problemi pastorali sociologicamente vissuti (la prima domanda) incideranno sulla risposta alla seconda domanda, così da rendere ambedue inutili per il mondo moderno. Le domande sul matrimonio e sulla famiglia dovrebbero essere comprese dalla seconda: “Voi chi dite che io sia?”. La parola sul matrimonio e sulla famiglia deve essere la Parola del Padre e non invece una risultante delle statistiche. Disgraziatamente la propaganda comunista ha inciso sulla mentalità occidentale così che persino nella Chiesa da quasi cinquant’anni si è infiltrato il principio marxista del pensare per cui l’efficacia della praxis prevale sulla contemplazione del Logos. Penso al predominio della praxis pastorale sulla dottrina che nella Chiesa è la persona del Figlio del Dio vivente. Non riesco a darmi pace dal giorno in cui una persona autorevole mi ha detto: “Basta con la dottrina di Wojtyla e di Ratzinger, adesso bisogna fare qualcosa!”. Le conseguenze di una tale “impostazione” del lavoro della Chiesa sono gravissime. Parlando filosoficamente, il “fare” che domina l’“essere” e l’“agire” (amare e conoscere) si traduce in una pura produzione. Se quel regno dell’amore e della libertà che è la Chiesa si lascerà plasmare soprattutto dalla praxis pastorale, prima o poi essa farà parte del mondo tecnico e della sua civilizzazione, che io chiamo produttura (productura) in opposizione alla cultura (cultura). Nella produttura pastorale la fede non attecchirà.
Ho letto con grande interesse il testo del cardinale Kasper al recente Concistoro, ma mi rincresce dover dire che ne sono deluso e preoccupato. Sono deluso e preoccupato non come teologo oppure patrologo ma come un semplice cristiano che cammina nella fede sulla via del matrimonio e della famiglia. I teologi e i patrologi analizzino attentamente questo testo per valutarlo dal loro punto di vista. Il loro silenzio sarebbe peccatum omissionis. Come semplice credente, avrei sperato d’essere introdotto dal cardinale nella contemplazione della bellezza della verità del matrimonio e della famiglia. La sua relazione ha invece richiamato l’attenzione dei cardinali sui problemi legati con la prima domanda, quella sociologico-pastorale, il che potrebbe avere gravi conseguenze per i lavori del Sinodo, dal momento che le difficoltà pastorali potrebbero ottenebrare la nostra visione del “dono di Dio”.
La contemplazione della verità dovrebbe dare forma e tono al Sinodo, ma alcune domande poste dal cardinale, che già suggeriscono le risposte, lasciano pensare a un altro scenario. La parte centrale di questo discorso può indurre i cardinali a credere che oggi la prima domanda di Cristo sia più importante della seconda. C’è il pericolo che i problemi sociologico-pastorali possano prevalere sulla contemplazione della presenza sacramentale di Cristo nel matrimonio. Nessuno dubita che la Chiesa debba pensare ai problemi indicati dalla prima domanda, deve però farlo in una continua rinascita di sé, cioè in un continuo ritornare al Principio in cui Dio nella e con la Sua Parola crea l’uomo come uomo e donna. Fondamentale è e sarà il continuo dare una risposta, sempre più profonda, alla seconda domanda. Rinascendo nella Parola che è Cristo, cioè convertendosi a Lui, la Chiesa deve ogni giorno confessare: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”. Leggo nella relazione: “Tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute da molti cristiani si è creato un abisso”. Questo è un fatto. Però la Chiesa commetterebbe un peccato primordiale se si lasciasse trattenere dalla prima domanda e cercasse di truccare il Figlio del Dio vivente a seconda della moda postmoderna, perché la gente Lo scelga come si sceglie una miss tra le candidate truccate in modo adatto allo scopo. La Chiesa che nasce ed è presente nel matrimonio e nella famiglia deve essere fino alla fine del mondo “segno di contraddizione” e di scandalo per il mondo. Il mondo voterà sempre contro di Lei.
Dobbiamo essere grati al cardinale quando dice che il “Vangelo della famiglia” è luce grazie alla quale la vita nel matrimonio e nella famiglia riprende forza e non diventa peso. Tuttavia le sue domande suggeriscono – vorrei sbagliare! – che questa luce è troppo pesante. Non sono d’accordo con lui quando dice che l’uomo non è stato creato per il lavoro ma per la celebrazione del sabato con gli altri e che dobbiamo imparare di nuovo dagli Ebrei a celebrarlo. Gesù rispose a coloro che Gli avevano rimproverato di non osservare il sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (cfr. Gv 5, 17). Il lavoro del Padre è esattamente Amore. Il lavoro e l’amore costituiscono un insieme. Staccare l’uno dall’altro significa distruggere l’uno e l’altro. L’amore ha carattere creativo, esso è generante. Lo sappiamo dalla personale esperienza illuminata dal racconto biblico dell’atto della creazione dell’uomo (cfr. Gn 1, 28). La via dell’amore è difficile, ma proprio questo difficile amore fa sì che il lavoro non diventi peso. Ridurre l’amore a un qualche facile evento nella vita significa chiuderlo all’eternità.
Aumenta il numero dei divorzi e dei matrimoni civili o addirittura delle convivenze basate solo su affetto e interessi. Ne nascono dei figli. Comprendo le difficoltà di coloro che sono caduti in queste trappole, vedo le loro ferite. Non mi risulta però chiaro cosa il cardinale abbia in mente quando scrive: “Non basta considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale; abbiamo bisogno di un cambiamento del paradigma e dobbiamo – come lo ha fatto il buon Samaritano (Lc 10, 29-37) – considerare la situazione anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto”. Allora la praxis pastorale deve accantonare l’evento del sacramento? E’ questo che il cardinale Kasper intende che si faccia? Nel vangelo il buon Samaritano cura il povero viandante assalito, così da ridargli la salute! Tratta le sue ferite in modo amorevole, nella prospettiva che gli apre l’amore per la persona di quel poveretto. La Chiesa non può tollerare il divorzio e il risposarsi dei divorziati proprio perché Essa li deve amare. L’amore della verità dell’essere l’uomo persona è paradigma dell’aiuto dovuto agli uomini aggrediti dal male. Ripeto ancora una volta: l’amore è difficile. Esso è tanto più difficile quanto più grande è il male da curare nell’amato. E’ la verità della persona a definire il modo di avvicinarsi pastoralmente all’uomo ferito, e non viceversa. La perdita del senso del peccato manifesta la perdita del senso del sacro e lascia cadere nell’oblio la vita sacramentale.
Aumenta il numero dei divorzi e dei matrimoni civili o addirittura delle convivenze basate solo su affetto e interessi. Ne nascono dei figli. Comprendo le difficoltà di coloro che sono caduti in queste trappole, vedo le loro ferite. Non mi risulta però chiaro cosa il cardinale abbia in mente quando scrive: “Non basta considerare il problema solo dal punto di vista e dalla prospettiva della Chiesa come istituzione sacramentale; abbiamo bisogno di un cambiamento del paradigma e dobbiamo – come lo ha fatto il buon Samaritano (Lc 10, 29-37) – considerare la situazione anche dalla prospettiva di chi soffre e chiede aiuto”. Allora la praxis pastorale deve accantonare l’evento del sacramento? E’ questo che il cardinale Kasper intende che si faccia? Nel vangelo il buon Samaritano cura il povero viandante assalito, così da ridargli la salute! Tratta le sue ferite in modo amorevole, nella prospettiva che gli apre l’amore per la persona di quel poveretto. La Chiesa non può tollerare il divorzio e il risposarsi dei divorziati proprio perché Essa li deve amare. L’amore della verità dell’essere l’uomo persona è paradigma dell’aiuto dovuto agli uomini aggrediti dal male. Ripeto ancora una volta: l’amore è difficile. Esso è tanto più difficile quanto più grande è il male da curare nell’amato. E’ la verità della persona a definire il modo di avvicinarsi pastoralmente all’uomo ferito, e non viceversa. La perdita del senso del peccato manifesta la perdita del senso del sacro e lascia cadere nell’oblio la vita sacramentale.
Avvicinandosi alla persona divorziata, il pastore dovrebbe partecipare al dialogo di Gesù con la Samaritana (cfr. Gv 4, 4 e s.). Questo dialogo dice cosa sia la comunione spirituale. Gesù rivela alla donna che il desiderio di cui ella arde è desiderio dell’“acqua viva”, cioè del “dono di Dio”. La Samaritana gliela chiede per non aver più sete. A questo punto Gesù le pone una condizione: “Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui!”. Colpita dalla scienza profetica di Gesù, la donna gli si apre, confessando il proprio peccato in modo molto sottile: “Non ho marito”. Gesù allora le spiega come Dio vuole essere adorato (“in spirito e verità”). Alla fine le rivela chi Egli sia: “Sono io / Messia /, che ti parlo”. Direi al Cardinale: questa è misericordia! Perdonata, la donna corre dai suoi concittadini e annunziando loro il Messia confessa anche i suoi peccati.
La comunione spirituale si compie nel desiderio di unirsi con Cristo nel Suo corpo e nel Suo sangue. E’ un cammino nella coscienza che lentamente si rende conto del peccato e lo confessa. L’odierna praxis pastorale, sprofondata nella prima domanda, ha fatto sì che i confessionali siano stati venduti agli psicologi e agli psichiatri. La proposta insidiosa di identificare la comunione spirituale con la comunione eucaristica colpisce il sacramento stesso. Esorto ora i pastori a stare ben attenti: l’Eucaristia è da adorare (“in spirito e verità”) e non da manipolare!
Mi fa tremare la scena in cui Gesù, dopo aver detto che chi non mangia il Suo corpo e il Suo sangue non avrà la vita eterna, viene abbandonato quasi da tutti tranne i Dodici. Ed è a questi futuri Pastori che in questa drammatica situazione Egli chiede senza mezzi termini: “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6, 67). Andate pure! Siete liberi! Verranno gli altri!
Queste parole di Gesù non cesseranno mai di essere attuali. Ma siamo anche certi che non ci sarà mai il tempo in cui Pietro non direbbe: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 68-69).
Nella conferenza del cardinale Kasper c’è ancora un suggerimento che potrebbe ingenerare qualche malinteso, e cioè che sarebbe forse meglio lasciare la decisione sulla validità del proprio matrimonio al giudizio della coscienza del divorziato; basterebbe forse affidare il compito di valutare il giudizio del soggetto interessato a un sacerdote con esperienza spirituale e pastorale… La pastorale e la misericordia non si contrappongono alla giustizia ma, per così dire, sono la giustizia suprema, poiché dietro ogni causa c’è una persona “che ha sempre una dignità unica”. Le carte dei tribunali ecclesiastici non devono prevalere su questa dignità, dice il cardinale. Giusto. Il codice di diritto canonico non è da identificare con il codice penale. Esso è una teologia che aiuta l’uomo a vivere nell’amore e nel lavoro, facendogli vedere che quanto è più grande e bello, tanto più l’amore è difficile, e che esso chiama gli uomini a un adeguato lavoro. Se la Chiesa valutasse la validità del matrimonio soltanto sulla base delle carte, le decisioni potrebbero essere rapide e prese anche da un parroco. La Chiesa però si comporta in altro modo proprio a causa della dignità unica della persona. Ogni uomo è un’opera d’arte e come tale egli è prima di tutto da contemplare “in spirito e verità” e non da manipolare a seconda delle circostanze attuali.
Tra parentesi, pongo una domanda: sarebbe forse più adeguato alla situazione di oggi anche lasciare il giudizio sulla validità dell’ordinazione sacerdotale alla coscienza del sacerdote interessato? Certo, una battuta, ma la posta in gioco esige una riflessione serissima.
Giovanni Paolo II sotto la croce a Nowa Huta, dove la gente difendeva questo segno di salvezza con il proprio sangue, ha detto che la nuova evangelizzazione inizia sotto la croce. Essa inizia nelle donne e nel mistico discepolo radunati intorno alla Madre del Crocifisso. Gli altri discepoli di Cristo erano fuggiti da là per la paura. La nuova evangelizzazione inizia nella maternità di Maria unita alla Paternità di Dio rivelata nel loro Figlio crocifisso. La nuova evangelizzazione consiste nel continuo rinascere della Chiesa. Le persone rinascono ritornando ai Principi della vita, alla maternità e alla paternità la cui unione risplende nel Crocifisso. Quando allora parliamo della donna e dell’uomo, non parliamo degli incarichi nelle strutture ecclesiastiche (cfr. l’intervista del cardinale Kasper pubblicata su “Avvenire” l’1. III. 2014). Noi tutti, anche il Papa e i vescovi, ritroviamo la dignità della nostra persona nell’Eucaristia pasquale che riceviamo sotto la croce. Apparirebbe grottesco chi, dimenticandolo, trovasse rifugio negli incarichi!
di Stanislaw Grygiel
Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma presso l’Università Lateranense, è stato allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino. Successivamente, è stato consigliere e confidente del Pontefice polacco, con il quale ha condiviso una lunga e profonda amicizia. Tra i suoi libri, si ricordano “Dialogando con Giovanni Paolo II” (Cantagalli, 2013) e “Dolce guida e cara” (Cantagalli, 2008).
Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia di Roma presso l’Università Lateranense, è stato allievo di Karol Wojtyla all’Università di Lublino. Successivamente, è stato consigliere e confidente del Pontefice polacco, con il quale ha condiviso una lunga e profonda amicizia. Tra i suoi libri, si ricordano “Dialogando con Giovanni Paolo II” (Cantagalli, 2013) e “Dolce guida e cara” (Cantagalli, 2008).
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