Le dimensioni della festa e la risonanza sui media di tutto il mondo evidenziano l’eccezionalità della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Di fatti straordinari, unici addirittura, ne annotiamo almeno due: l’elevazione contemporanea di due pontefici, la presenza in piazza San Pietro del papa regnante a celebrare e di quello emerito a concelebrare. Non tutto, però, è unico: possiamo rimarcare un processo di continuità storica e politica nella celebrazione di domenica 27 aprile e nel suo significato.
I santi della Chiesa cattolica hanno una peculiarità rispetto alle figure straordinarie delle altre religioni: per essere dichiarati tali non basta il riconoscimento popolare. Hanno bisogno della canonizzazione, un procedimento di diritto canonico che spesso ha una forte valenza politica.
Gli esempi sono tanti. Prendiamo il caso del 1622, quando furono elevati alla santità in quattro, con una solennità di grande sfarzo vissuta in molti luoghi d’Europa. Erano tre spagnoli: Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù (l’ordine di papa Francesco), il suo confratello Francesco Saverio, un contadino spagnolo vissuto nell’XI secolo, Isidoro e un italiano, Filippo Neri, ispiratore della Congregazione dell’Oratorio. In quest’occasione la Sede Apostolica diede concreta risposta alla richiesta della Corona spagnola, al sentimento dei fedeli e alle proprie esigenze. Oggi certo i tempi sono cambiati e non esiste più l’esigenza di compiacere i re ma pare difficile negare che le canonizzazioni abbiano anche un significato politico.
Gli esempi sono tanti. Prendiamo il caso del 1622, quando furono elevati alla santità in quattro, con una solennità di grande sfarzo vissuta in molti luoghi d’Europa. Erano tre spagnoli: Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù (l’ordine di papa Francesco), il suo confratello Francesco Saverio, un contadino spagnolo vissuto nell’XI secolo, Isidoro e un italiano, Filippo Neri, ispiratore della Congregazione dell’Oratorio. In quest’occasione la Sede Apostolica diede concreta risposta alla richiesta della Corona spagnola, al sentimento dei fedeli e alle proprie esigenze. Oggi certo i tempi sono cambiati e non esiste più l’esigenza di compiacere i re ma pare difficile negare che le canonizzazioni abbiano anche un significato politico.
Qualche spunto di riflessione al proposito lo offrono alcune voci di protesta. Le prime sono quelle dei lefebvriani: di Roncalli hanno condannato il concilio, di Wojtyla il dialogo interreligioso. Sono lamentele che trovano posto anche all’interno della Chiesa cattolica tra i gruppi più tradizionalisti. Certo, a Giovanni XXIII manca pure il miracolo, ma a questo il papa in carica può porre rimedio, come ha fatto. Ben più pesanti sono le critiche mosse a Giovanni Paolo II, specie dal mondo statunitense, ferito profondamente dal crimine della pedofilia. In un articolo apparso sul New York Times Maureen Dowd, cattolica di formazione, mette in dubbio la santità del papa polacco. Egli ebbe il grave torto di difendere il cardinale di Boston Bernard Law, titolare della diocesi dove erano avvenuti gli abusi più gravi e con lui il fondatore del Legionari di Cristo Marcial Maciel Degollado, accusato personalmente di molestie. Non è solo questo il punto. Così come Dowd, in molti lamentano che la condotta di Giovanni Paolo II sia stata contrassegnata da troppe chiusure. La sua politica ha agevolato la caduta del Muro di Berlino, ma allo stesso tempo avrebbe stroncato gli slanci di riforma provenienti soprattutto dall’America Latina. In tal senso le scelte di Wojtyla mostrano la rilevanza politica della canonizzazione anche, per così dire, in negativo: non ha mai dato seguito seguito al processo di canonizzazione del vescovo di San Salvador Oscar Romero, ucciso il 24 marzo 1980 al momento dell’elevazione eucaristica perché la sua voce che tuonava in difesa dei poveri dava fastidio a un governo violento e corrotto. La causa è rimasta ferma a lungo, non è stata sbloccata da Benedetto XVI ed è stato riavviata solo da Francesco. Mettere assieme Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II invece può essere vista come una scelta politica in positivo. Essi rappresentano due modi molto diversi di vivere il pontificato. Il primo, papa del concilio, diede impulso alla riforma della Chiesa, ne spalancò le porte alla ricerca di aria nuova. Il secondo invece la aprì al mondo con i suoi viaggi, il suo carisma e la sua capacità mediatica, ma allo stesso tempo ne riorientò la dottrina verso il Vaticano. Benedetto XVI, il vero protagonista delle due canonizzazioni, avrebbe difficilmente potuto fare a meno di beatificare il proprio predecessore, alla luce dell’ormai celebre “Santo subito”. Ratzinger però conosceva le riserve di parte della Chiesa e dell’opinione pubblica e ha presumibilmente voluto equilibrare le cose elevando anche Roncalli. Francesco ha ereditato i procedimenti ma ci ha aggiunto del suo, scegliendo la canonizzazione in contemporanea. Pare chiaro che così abbia voluto affermare la santità di due modi diversi di vivere il pontificato.
Vi è un ultimo appunto da fare. Fino alla metà dell’Ottocento, la canonizzazione dei papi era una pratica insolita: vi sono secoli interi trascorsi senza che nessun pontefice sia stato dichiarato santo. Da lì in poi, però, per la metà dei papi è stato avviato o si è concluso il procedimento. Sembra lecito interpretare i fatti sostenendo che il papato stesso tenda a rappresentarsi sempre più come un’istituzione santa, e le vicende del Novecento non possono che confermare questa ipotesi. È difficile giudicarla diversamente da una scelta politica.
Claudio Ferlan * - 29.04.2014
* Ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, Istituto Storico Italo-Germanico
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