Chi sono io per giudicare?
L’idea
di questo numero di Concilium è affascinante: suggerisce l’ipotesi che l’ortodossia non
sia necessaria.
A partire dalla famosa frase di Papa Francesco
sull’omosessualità: chi sono io per giudicare una persona, pronunciata in aereo
di ritorno dal Brasile. I vari saggi del fascicolo percorrono in lungo e largo
l’idea dell’ortodossia come si è stabilita nel corso di due millenni di
cristianesimo e la necessità di fare spazio a qualcosa di radicalmente diverso.
Andres Torres Queiruga si esprime così: «è innegabile che in qusto campo negli
ultimi tempi si è imposto uno spirito di ortodossia escludente, che
pastoralmente si è trasformato in sfiducia cronica e in atteggiamento
condannatorio verso qualsiasi tentativo di rinnovamento; e teoricamente ha
portato all’enorme confusione tra il pastorale e il teologico che ha indotto a
trasformare un ‘catechismo’ in norma ultima per giudicare i progressi della
teologia».
Più
chiaro di così è anche il saggio del teologo David Tracy, secondo il quale una
visione critica dell’ortodossia è possibile. Dobbiamo essere consapevoli che
l’ortodossia è stata stabilita a partire da una visione europea o occidentale
della teologia. In questo senso Tracy legittima l’importanza di una
«ermeneutica del sospetto» cioè un approccio che ponga prima di tutto la
domanda su quanto i nostri punti di vista culturali di partenza influenzino la
lettura che si compie rispetto al sapere e alle impostazioni degli altri. Se
incrociamo questo dato con la misericordia di Dio – che la Chiesa predica molto con
Papa Francesco – allora a cosa serve l’affermazione dell’ortodossia? A
niente, è la risposta, anche se in questo numero di Concilium non viene espressa in
maniera tanto brutale. Jon Sobrino, ad esempio, il gesuita che è considerato un
esponente di spicco della teologia della liberazione, nota che la misericordia
di Gesù e la Croce
vengono poco considerate quando si parla di ortodossia.
E
ad un esame più attento scopriamo che i dogmi sono molto meno stabili di quello
che sembri. Norman Tanner, gesuita britannico, analizzando la formula del Credo
di Nicea e di Calcedonia, dimostra in un acuto saggio come i primi Concilii
ecumenici abbiano speso molto tempo e molta sapienza teologica nel precisare e
correggersi. Dunque se lo hanno fatto in quell’epoca, perché non oggi? In pratica
le definizioni dogmatiche che consideriamo immutabli non lo erano al tempo in
cui furono determinate e per molti decenni sono state riviste e rielaborate.
«L’aggiornamento – nota Tanner – è stato una tradizione costante nella Chiesa».
E servirebbe anche oggi con buona pace dei troppo rigidi custodi
dell’ortodossia. Perché, come nota Queiruga citando il teologo Otto Karrer, si
deve sempre supporre (nelle persone e) nei teologi la «buona fede». Anche
questo numero di Concilium dunque è un contributo indiretto e prezioso nella direzione
di una «Riforma» della Chiesa.
Concilium
2/2014, Dall’«anathema sit» al «Chi sono io per giudicare?», Queriniana, pp.
200, euro 15; www.queriniana.it
FABRIZIO MASTROFINI
ROMA
ROMA
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