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mercoledì 23 luglio 2014

Belzebù e il suo amico papa

Quell'amicizia tra Paolo VI e Andreotti


Giulio Andreotti
(©lapresse)
(©LAPRESSE) GIULIO ANDREOTTI

A partire dal libro di mons Sapienza i ricordi del giornalista teologo Gennari

GIOVANNI GENNARIROMA
Qui nei giorni scorsi il collega Scaramuzzi ha ricordato la presentazione del volume “Andreotti e Paolo VI” (Ed. Viverein) curato da mons. Leonardo Sapienza, Reggente della Casa Pontificia, che raccoglie lettere e racconti sul rapporto tra i due durato quasi l’intera vita: per ambedue.

Ampio il ricordo di Scaramuzzi, con interventi puntuali del cardinale Giovanni Battista Re e di mons. Sapienza, del Dr. Gianni Letta e di Lucio Brunelli…A suo titolo ciascuno di loro ha raccontato la sua esperienza dei due personaggi in questione. Avrei desiderato essere presente: non mi è stato possibile…Qui vorrei aggiungere qualcosa di minimo, ma per me significativo, stimolato anche – e forse parrà strano – da altre circostanze casuali, e da un accenno speciale uscito sulla stampa in questi stessi giorni.


Non ho incontrato Andreotti che pochissime volte, ho avvicinato di più Paolo VI, anche in circostanze per me importanti, ma per quanto riguarda il primo ho avuto alcuni scambi di idee e di scritti con lui, che in un biglietto dei suoi, veloce e acuto, mi chiamava “il mio pignolissimo critico”. Dal punto di vista – diciamo così, politico e culturale – non sono stato mai del tutto d’accordo con il suo partito, e quando lo sono stato – segretario Zaccagnini – è probabile che Andreotti non lo fosse, ma la pubblicazione di queste memorie è preziosa: ci serve a ricordare meglio i due protagonisti, diversi, che hanno avuto parte nella storia di tutti.

Di Andreotti mi ha sempre colpito la straordinaria capacità di stare attento a tutto e a tutti, con particolari da antologia. Una volta, per esempio, all’inizio degli anni ’90, a tarda sera incontrò Pierre Carniti, ex segretario della Cisl, una delle persone più integre e stimabili, anche culturalmente, che ho avuto modo di conoscere di persona, e ad un certo punto – non so per quale ragione – Carniti aveva in mano il suo sigaro…Andreotti gli chiese curioso quale specie di sigari amasse di più e Carniti rispose gentilmente…Ebbene: la mattina dopo, prestissimo, quasi all’alba, arrivò a casa Carniti una confezione di sigari di quella specie…Durante la notte lui aveva pensato anche a questo…So anche, per esperienza diretta, che qualche prete di periferia romana, anche malvisto da uomini di Curia perché noto anche come “prete operaio” in una fabbrica romana di metalmeccanici, contava molto sul suo aiuto continuo, fraterno e paterno. Ad un certo punto la parrocchia aveva bisogno di una campana, che arrivò prontamente…

Veniamo al libro. In esso ha colpito l’episodio sulla “infelicità” del Papa. Quando Paolo VI andò presso Acilia, ove incontrò un gran numero dei “baraccati” di Roma, piaga antica e moderna della città fino ad oggi, confidò loro di non essere “felice”, perché si sentiva partecipe di “tutti i dolori del mondo”, quindi anche del loro. Il Papa “infelice”? L’espressione aveva colpito Andreotti, che la sentì “patetica” e scrisse al Papa una lettera, pubblicata nel volume, come di “consolazione”, ricordandogli il bene che la sua stessa presenza portava a chi lo incontrava. Non so se Paolo VI ne fu davvero consolato…Ma in sostanza Paolo VI fu infelice? In senso profondo no di sicuro! Tra l’altro è l’unico Papa che, prima della “Evangelii Gaudium” di Francesco, abbia scritto un intero documento fin dal titolo sulla gioia cristiana, “Gaudete in Domino”, nel 1975. Certamente vedeva lucidamente la realtà, e raccontano che a qualcuno che gli raccomandava di ridere qualche volta, o almeno di sorridere, rispondesse interrogandolo: e quale sarebbero i motivi per ridere, in questi tempi difficili?

Faceva eccezione – secondo testimoni diretti – qualche incontro con la Cei del tempo. Quando arrivava dai vescovi pare che il Papa chiedesse “C’è Cè?”, e sorrideva visibilmente: si riferiva a Marco Cè, allora ausiliare di Bologna e futuro Patriarca di Venezia, e la battuta forse gli serviva – in fondo un po’ timido – per superare il primo momento…

Due persone, due personaggi diversi e un rapporto complesso. Per capire che non fu senza complessità e vicende alterne, andrebbe ricordato che quando nel 1942 il giovane Andreotti successe a Moro come presidente della Fuci, ufficialmente perché Moro fu richiamato alle armi, anche mons. Montini fu sostituito nel ruolo di assistente con un successore più adeguato al nuovo, uomo di Curia e sicuramente più malleabile nei confronti del “Regime” in guerra, che già aveva avuto problemi con gli Scaut e con l’Azione Cattolica...

Nel libro, poi, per me anche qualche minimo particolare interessante. Andreotti infatti racconta che da ragazzo fece spesso la vacanze, al mare, con i futuri cardinali Angelo Felici e Vincenzo Fagiolo, suoi amici di gioventù, e annota di non aver pensato anche lui al sacerdozio, sentendosi “non attraibile dal celibato”. Per caso, a parte la riflessione sul celibato, a fine anni ’60 capitò anche a me di fare una vacanza al mare, a Maiori, presso Amalfi, con lo stesso Vincenzo Fagiolo, allora monsignore e futuro cardinale, e col collega Don Antonello De Sanctis, professore al Seminario Romano…
Altri punti: dal ritratto di Andreotti scritto da Oriana Fallaci, cui dispiaceva che “scriva solo di cose da cui si leva profumo di incenso”, al racconto di Roberto Gervaso: “Quando nel Paese divampò la polemica sul divorzio sarebbe andato da Paolo VI proponendogli un governo coi comunisti. Il Papa disse sì, ma i gesuiti insorsero e il pateracchio fallì”: in sostanza una balla, anzi tre – compresa quella sui gesuiti – pesantissime! Per fortuna c’è quel “sarebbe”.

Un altro punto riguarda la “gentilezza di Paolo VI”: Andreotti racconta un gesto del Papa che volle ringraziare Pietro Nenni, socialista e notoriamente ateo, allora vicepresidente del Consiglio italiano, dopo una sua conferenza a New York sulla “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII e gli inviò “un orologio appartenuto” a Papa Roncalli. Ci fu altro: Paolo VI fu sempre cordiale con Nenni, che nei mesi della occupazione tedesca di Roma era stato rifugiato in Laterano su mandato della Santa Sede: da Papa lo ricevette con la moglie Carmen, e quando questa morì inviò al leader socialista, tramite mons. Macchi, un messaggio amichevole di vicinanza nel dolore…

Come giusto, nel libro non manca neppure l’accenno alle “disavventure giudiziarie” di Andreotti, nell’intervento del collega Antonio Airò, di “Avvenire” – “La Dc, il Governo, il Boom. I misteri e i Boss” – che non nasconde anche i giudizi controversi che si sono dati, e si danno, su alcuni aspetti dell’operato del politico. Interessanti, per me, anche i riferimenti alla Sede di S. Ivo alla Sapienza, che per la Fuci e poi per i Laureati cattolici furono per decenni la casa romana delle intelligenze più acute dei cattolici italiani: lì ho avuto anch’io, in anni lontani, le mie personali avventure e…disavventure.

Questo accenno per introdurre un pensiero importante, che riguarda il tema della Legge sul divorzio, approvata dal Parlamento italiano nel 1970 e confermata dal referendum del maggio 1974. Non tutto nel libro fila come dovrebbe per chiarezza assoluta. Paolo VI fu ovviamente addolorato per l’approvazione della Legge Fortuna-Baslini, promulgata da un Governo retto da un presidente Dc, e non mancò di farlo presente con la sua saggezza e prudenza anche pubblicamente, ma non fu per niente favorevole al referendum successivo, che in pratica fu come imposto da un gruppo di cattolici, guidati da un uomo di valore come Gabrio Lombardi, cui il Papa come tale non poteva opporsi pubblicamente. Lo stesso Andreotti, in verità, tentò insieme con l’onorevole Nilde Jotti di aggirare l’ostacolo del referendum con un compromesso, che tuttavia fallì. Il referendum fu appoggiato con forza decisiva, a sostegno del concittadino Fanfani, che pensava con un successo di prendere in mano il partito, e forse anche il Governo, dal Sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Benelli, che agì con durezza nei confronti dei cosiddetti “cattolici del No”. Il Papa sentiva, e sapeva che il sentimento era fondato, perché aveva anche consiglieri illuminati come mons. Franco Costa e poi mons. Enrico Bartoletti, che l’esito sarebbe stato problematico, ma come si legge anche nel libro, scritto dallo stesso Andreotti, non pensò di poter impedire una iniziativa di “laici cattolici” liberi…Sappiamo, ora, che proprio quello fu l’inizio della fine della Dc, accelerato poi dalla vicenda Moro e dall’esplosione della corruzione con la fine della Prima Repubblica…
E vengo all’ultimo pensiero, del tutto occasionale. Sull’ultimo “Venerdì” di “Repubblica” (19/7, pp. 56-57) Emanuele Macaluso ricorda i tempi della sua “Unità”, il giornale fondato da Antonio Gramsci che oggi è in difficoltà anche per incapacità culturale e quindi indirettamente anche politica della nuova proprietà, e tra le firme di peso che collaboravano con la sua direzione mette al primo posto Fortebraccio, e cioè Mario Melloni, ex deputato Dc e poi Pci, cattolico di forte fede e altrettanta libertà di giudizio, inventore moderno della satira politica senza aggettivi, capace di criticare senza mai cadere nello scurrile o nell’offesa dell’avversario. Ecco quanto leggo quasi a conclusione: “Fortebraccio…attaccava solo gli altri. L’unico Dc che salvò sempre fu Andreotti, verso il quale nutriva una specie di ammirazione”. Ho conosciuto bene Fortebraccio, e so che l’ammirazione era anche ricambiata…Melloni riconosceva anche la grandezza di Paolo VI, pur dissentendo su punti che non toccavano la fede: la sua esperienza, anche dolorosa, condivisa con amici di fede cattolica e di militanza come Ugo Bartesaghi ed altri, nella battaglia che cercò di evitare lo schieramento puro e semplice dell’Italia nella Nato, senza riserva alcuna, era stata anche questa. Mi pare giusto concludere con questa nota: problematica anche per oggi…

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