(Vincenzo Bertolone) «Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata». Con queste parole di speranza papa Paolo VI iniziò il suo discorso all’Onu, l’Organizzazione delle nazioni unite, il 4 ottobre 1965, “evento singolare sotto ogni aspetto”, nel ventesimo anniversario della sua costituzione.
Dinanzi ai rappresentanti di 115 Nazioni si celebrò «l’epilogo di un faticoso pellegrinaggio in cerca di un colloquio con il mondo intero». Nel simbolismo kafkiano del messaggero c’è tutto lo stile di Paolo VI: servo dei servi, grande nella sua umiltà, autorevole nella sua fede, cor inquietum, esperto in umanità.«Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino e portiamo con noi una lunga storia», iniziata con il mandato «andate e portate la buona novella a tutte le genti». Di quelle genti ora in quell’assise si sente più un fratello, che governante, senza «alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere».
Nulla da sollevare né da chiedere, bensì con «disinteresse, umiltà e amore» desidera servire e portare a ciascuno «un messaggio felice».Dinanzi ai rappresentanti di 115 Nazioni si celebrò «l’epilogo di un faticoso pellegrinaggio in cerca di un colloquio con il mondo intero». Nel simbolismo kafkiano del messaggero c’è tutto lo stile di Paolo VI: servo dei servi, grande nella sua umiltà, autorevole nella sua fede, cor inquietum, esperto in umanità.«Sì, voi ricordate: è da molto tempo che siamo in cammino e portiamo con noi una lunga storia», iniziata con il mandato «andate e portate la buona novella a tutte le genti». Di quelle genti ora in quell’assise si sente più un fratello, che governante, senza «alcuna potenza temporale, né alcuna ambizione di competere».
Nulla del messaggero, dell’imperatore e del palazzo del racconto di Kafka è rintracciabile quel giorno entrato nella storia, il 4 ottobre 1965. «Umilissimo suddito», «minuscola ombra sperduta nel più remoto cantuccio dinanzi al sole imperiale», è il messaggero dello scrittore boemo. Montini, al contrario, nel suo abito bianco, fa risuonare con forza il suo Jamais plus les uns contre le autres, jamais plus, jamais, riportando a una memoria non lontana lo struggente e accorato appello rielaborato per incarico di Pio XII che lo lanciò il 24 agosto 1939 nel tentativo estremo di scongiurare il conflitto mondiale: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra».
Racconta Kafka, inginocchiato dinanzi all’imperatore, un messaggio bisbigliato all’orecchio, un cammino fatto di situazioni avverse, ostacoli insormontabili — moltitudine di persone, palazzi, scale, cortili — che non gli faranno mai raggiungere la meta, lasciando tuttavia l’attesa del suo arrivo: «Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera». Non messaggio bisbigliato, bensì annunciato da molto tempo quello di Montini, che gli fa percepire «la fortuna di questo, sia pur breve, momento in cui si adempie il voto che noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli».
Un cammino, certamente irto, tortuoso, faticoso, ha condotto il successore di Pietro dinanzi ai popoli riuniti nel Palazzo di vetro. Le sue parole, tuttavia, sono chiare, decise, senza alcun tentennamento. È la sua prima dichiarazione a nome personale, dell’intera famiglia umana, dell’intero cattolicesimo e di tutti i cristiani che ne condividono sentimenti e contenuti lì espressi.
Paolo VI è il papa di tante “prime volte”: del primo viaggio apostolico in aereo verso la Terra Santa, dell’abbraccio al patriarca Atenagora, della rinuncia alla tiara papale, del sinodo dei vescovi, della prima messa in un impianto industriale, nell’Italsider di Taranto accanto agli operai, della giornata mondiale per la pace, il primo a visitare i cinque continenti, il primo a disporre un funerale sobrio, in una semplice bara di legno su cui viene posato un Vangelo sfogliato dal vento, in una tomba nella nuda terra con il solo nome impresso sulla pietra.
La sua “prima volta” all’Onu è un momento semplice, com’è semplice quel piccolo uomo vestito di bianco. Piccolo, ma esperto in umanità, come definisce la Chiesa. Ma anche un momento grande, sia per lui, sia per gli Stati lì rappresentati. Il papa, infatti, può parlare, per loro tramite al mondo intero.
Quattro sono i punti propositivi del memorabile messaggio. L’Onu deve offrire al pluralismo degli Stati una formula di convivenza pacifica. L’organizzazione esiste e opera per unire le Nazioni, per collegare gli Stati, per mettere insieme gli uni con gli altri, per gettare ponti fra i popoli. L’Onu deve seguire la formula della eguaglianza, cioè nessuno potrà essere superiore agli altri: non l’uno sopra l’altro, non gli uni contro gli altri. Infine, la formula cristiana e operativa per l’edificazione della pace, che non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, bensì con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Bisogna lasciar cadere le armi, come si stava dicendo nell’aula conciliare.
I contenuti della dichiarazione all’assemblea generale dell’Onu furono infatti in piena armonia con quanto la Chiesa, riunita a Roma durante il concilio Vaticano II, stava a mano a mano consegnando al mondo: «aggiornamento» al suo interno, condurre all’unità tutti i cristiani, dialogare con l’uomo contemporaneo. Le sue “lettere al mondo” — dalla programmatica Ecclesiam suam (6 agosto 1964) fino alla Humanae vitae (25 luglio 1968), passando per la Populorum progressio (26 marzo 1967) — raccontano il suo cor inquietum per l’uomo, quale risuonano le parole del vescovo d’Ippona: Si hominem te fecit Deus, et iustum tu te facis, che si può rendere così: se Dio ha fatto l’uomo senza di lui, non può operare la sua redenzione senza di lui. Non senza l’uomo, ma non senza Dio! Paolo VI era consapevole che dire uomo significava riportarlo a Dio, far riscoprire quella tensione verso la verità che da sempre ha caratterizzato il cammino dell’umanità.
Può davvero e onestamente l’uomo moderno nutrire la convinzione che Dio rappresenti per noi una alienazione? Che solo senza Dio sia possibile questa pienezza di libertà e di responsabilità che consentirebbe di intraprendere con successo la costruzione del mondo e della storia? Al contrario, afferma Montini memore ancora di sant’Agostino, «non si dovrà riconoscere che è proprio per la mancanza e il rifiuto di Dio – fondamento dell’essere, della verità, della moralità, di tutti i valori – che l’uomo si “altera” nel suo stesso equilibrio essenziale, per precipitare nella disumanità dell’egoismo, della tecnocrazia, dell’oppressione?».
Il vero umanesimo suscita insuperabile fraternità, risponde riprendendo quanto si legge nella Gaudium et spes (n. 19): «L’aspetto più sublime della dignità umana consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio». Cercare Dio è trovare l’uomo. Si amano gli altri non perché si comportano in un certo modo, diceva Montini a Jean Guitton, poiché gli altri potrebbero essere anche nostri avversari, malati, ingrati, vili, uomini caduti in basso: «Il vero motivo dell’amore dell’uomo è che esso è fatto a somiglianza di Dio». È desolante constatare che «in questo momento l’uomo cerca l’uomo, ma non lo ama. E non può farlo dal momento che ignora l’amore di Dio».
La Chiesa, riunita in concilio, «al codice delle sole speranze terrene ha opposto l’inno della verità e della speranza cristiane» e «al segno dell’ateismo e dell’egoismo, il segno di Dio e dell’amore». La scelta per Montini è vitale: o essere di più o perire. «Se ci ricordiamo che nel volto di ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle lacrime e dalle sofferenze, noi possiamo e dobbiamo riconoscere il volto di Cristo (cfr. Matteo, 25, 40), il nostro umanesimo diventa cristianesimo, e il nostro cristianesimo si fa teocentrico, tanto che possiamo altresì affermare: per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo».
L'Osservatore Romano, 3 agosto 2014.
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