E’ guerra di religione, conferma Civiltà Cattolica. Ma poi chiede dialogo
Miliziani dello Stato islamico fucilano diversi infedeli (foto LaPresse)
Quella dello Stato islamico in Iraq e Siria è una “guerra di religione e di annientamento” alla quale non bisogna rispondere con “una controffensiva armata di stampo religioso”. Semmai, con gli strumenti propri delle religioni, e cioè “il dialogo e la formazione di coscienze rette e corrette”.
E’ la Civiltà Cattolica, antica e prestigiosa rivista dei padri gesuiti stampata con l’imprimatur della segreteria di stato vaticana, a metterlo nero su bianco sull’ultimo numero, da oggi in circolazione. Una “guerra di religione” che “non va confusa o ridotta ad altre forme, da quella bolscevica a quella dei khmer rossi. Strumentalizza il potere alla religione e non viceversa. La sua pericolosità è maggiore di quella di al Qaida”, scrive padre Luciano Larivera in un saggio che dopo aver ricapitolato le numerose prese di posizione del Papa in merito alla persecuzione dei cristiani e delle altre minoranze cacciate dalla piana di Ninive dalle milizie jihadiste del califfo Abu-Bakr al Baghdadi – dagli Angelus alla conferenza stampa in aereo di ritorno dalla Corea –, spiega che le armi non bastano: “Limitarsi a questo mezzo può continuare a permettere allo Stato islamico spazi di conquista e occasioni di atrocità maggiori. All’Isis vanno interdetti i rifornimenti di armi, l’arruolamento e l’addestramento di nuovi combattenti, i canali di finanziamento, le infrastrutture energetiche e logistiche”.
ARTICOLI CORRELATI Con l’islam è guerra di religione Il silenzio sugli innocenti. Così Amnesty glissa sui “nazareni”Davanti ai tagliagole, ai rapper ventenni incappucciati che si rivolgono in un inglese del sud di Londra a Barack Obama, bisogna dunque puntare sulla politica e lavorare per “promuovere soluzioni diplomatiche di compromesso intelligente e nel soccorrere le popolazioni in emergenza umanitaria, potendo usare anche gli strumenti della Caritas internationalis e della collaborazione delle chiese locali e delle ong cattoliche”. Risposta un po’ flebile al grido reiterato dei vescovi autoctoni che chiedono di fare di più e meglio per “far sparire” – parole del cardinale Philippe Barbarin, primo porporato occidentale a mettere piede in Iraq dopo la conquista di Mosul da parte dell’esercito di al Baghdadi – la macchia nera che insiste sulla piana di Ninive? Non è così, spiega la Civiltà Cattolica: “La chiesa si esprime legittimamente nel chiedere di fermare l’ingiusto aggressore, nel giudicare la necessità militare o meno di un intervento armato come ultima ratio della politica”, e “non sostiene un pacifismo imbelle e ingenuo al fine di condannare un militarismo che assolutizza l’efficacia della violenza”. E poi, si osserva, “giudicare la legittimità di interventi mirati spetta al legittimo governo di Baghdad che li ha richiesti, agli organi delle Nazioni Unite, al Consiglio di sicurezza, a chi li attua, alla comunità degli esperti di guerra e di diritto internazionale”.
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Tutti i dubbi del Vaticano sui limiti della guerra giusta in Irak
Sono mesi, questi, in cui la diplomazia vaticana, tornata dopo la stagione ratzingeriana in mano a diplomatici di carriera e di rango, è messa sotto pressione dagli sviluppi in vicino e medio oriente. Più che dall’avanzata dei miliziani dell’autoproclamato califfo al Baghdadi, parrebbe che siano le dichiarazioni dei vescovi autoctoni a segnare una certa differenza di vedute con Roma.
LA PRUDENZA DEL VATICANO: NO ALLO SCONTRO DI CIVILTA’
Se in Vaticano da settimane s’invoca prudenza, sottolineando in tutti i modi che non si tratta di scontro di civiltà né tantomeno di conflitto tra islam e cristianesimo, da Baghdad, Mosul e le altre realtà della regione piagata dalle scorribande dei miliziani tagliagole si denuncia il silenzio delle autorità musulmane, si chiede un intervento immediato della comunità internazionale fin qui considerata silenziosa (se non complice) e, soprattutto, si arriva anche a chiedere le bombe a protezione dei civili perseguitati.
PACIFISMO IN CONTRASTO CON IL PROGRESSO DELLA PACE
Anche l’arcivescovo di Lione, il cardinale Philippe Barbarin, primo a recarsi in Kurdistan lo scorso agosto, ha ricordato in una recente intervista che “è con la morte nel cuore che i vescovi approvano o richiedono l’uso delle armi”, ma dopotutto “Giovanni Paolo II aveva ben spiegato al tempo della guerra nei Balcani che il pacifismo è a volte in contrasto con il progresso della pace”. E i patriarchi locali, primo fra tutti quello di Babilonia dei caldei, Louis Raphael I Sako, ha giudicato addirittura “insufficiente” l’intervento militare fin qui attuato dagli Stati Uniti con i raid aerei.
“SERVONO SOLUZIONI POLITICHE, NON MILITARI VIOLENTE”
Il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ieri sera ha sottolineato che “alle situazioni di crisi si mette fine con la volontà politica di tutte le parti coinvolte nel conflitto e con l’aiuto della comunità internazionale”, come per altro aveva anche auspicato il Papa nel corso della conferenza stampa a braccio tenuta durante il viaggio di ritorno dalla Corea, lo scorso agosto. “Questa”, ha aggiunto, “è la sola via per evitare che questi conflitti proseguano e vengano dimenticati, come nel caso del conflitto in Siria”. Poi, però, Parolin ha affermato che, a proposito dell’Irak, “servono soluzioni politiche, non militari violente”. La situazione “umanitaria è drammatica, e quindi l’impegno è che i cristiani prima di tutto ricevano aiuto e assistenza umanitaria e poi possano tornare con sicurezza ai loro villaggi e alle loro case”.
IL SONNO DELL’OCCIDENTE
Frasi che si discostano da quelle proferite, ad esempio, dal vescovo ausiliare di Baghdad,mons. Warduni, che intervenendo al Meeting di Rimini aveva avvertito che “se l’occidente continuerà a dormire, i terroristi arriveranno fin sotto le vostre case”. La segreteria di Stato, dunque, pone la ricerca di una soluzione politica sopra ogni altra opzione, benché non sia chiaro quali siano i limiti e i contorni delle “azioni militari non violente”.
“PROTEGGERE E PUNIRE”
Lunedì scorso, però, al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’osservatore permanente mons. Silvano Tomasi aveva collegato con due verbi quella che sembrava essere la strategia ufficiale del Vaticano: “Proteggere e punire”. Il prelato aveva usato parole e toni forti, denunciando che “le persone vengono decapitate a causa della loro fede, le donne vengono violentate senza pietà e vendute come schiave sul mercato, i bambini sono costretti a combattere, i prigionieri massacrati contro ogni legge”. E qui, mons. Tomasi sosteneva che “la responsabilità della protezione internazionale, specialmente quando un governo non è capace di assicurare la sicurezza delle vittime si applica con certezza in questo caso”. Ma l’osservatore permanente della Santa Sede andava oltre, e ribadiva – concetto caro ai patriarchi orientali – che “tutti gli attori regionali e internazionali devono condannare esplicitamente il comportamento brutale, barbaro e incivile dei gruppi criminali che combattono nella Siria orientale e nell’Iraq settentrionale”.
“LA PROTEZIONE, SE NON E’ EFFICACE, NON E’ PROTEZIONE”
Certo, la “responsabilità di proteggere deve essere assunta in buona fede, nell’ambito della legge internazionale e umanitaria” e “la società civile non dovrebbe diventare uno strumento di giochi geopolitici regionali e interregionali”. La protezione, aggiungeva, “se non è efficace, non è protezione”. E tutti devono adoperarsi per “fermare il flusso di armi e il mercato nero del petrolio, così come ogni sostegno politico indiretto al cosiddetto Stato islamico”. Ma oltre alla protezione c’è la unzione: “Chi ha commesso questi crimini contro l’umanità deve essere punito con determinazione. Non gli deve essere permesso di agire impunemente”, dal momento che ciò rischierebbe di far ripetere “le atrocità commesse”.
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