(a cura Redazione "Il sismografo")
Si annuncia impegnativa l'ultima settimana del Sinodo dedicata all'evangelizzazione e la famiglia. Nei prossimi sei giorni i padri sinodali affronteranno compiti delicati dai quali dipende in buona misura la pienezza del successo, e cioè il raggiungimento degli scopi dell'assemblea. I sinodali hanno davanti a se 6 incontri nei Circoli minori (o linguistici) e 5 Congregazioni generali delle 15 previste nel programma. Il primo e delicatissimo compito è lo studio e approvazione per così dire della Relatio post disceptationem (la relazione dopo le discussioni).
Il documento già pronto è responsabilità del Relatore, cardinale P. Erdö, di mons. Bruno Forte, segretario speciale del Sinodo, del cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo e di due membri della "commissione per il Messaggio", il cardinale Gianfranco Ravasi e l'argentino Victor Manuel Fernandez, Rettore della Cattolica di Buenos Aires, del cardinale Donald Wuerl (Washington), di mons. Carlos Aguiar Retes (Presidente del Celam), di mons. Kang U-Il (Cheju, Corea del Sud) e infine del Preposito dei gesuiti, p. Adolfo Nicolás. Il perché dell'assenza di un presule africano è una domanda proposta da più parti che però non ha avuto una risposta ufficiale.
Si tratta di un documento cruciale perché gli estensori debbono offrire ai padri sinodali una sintesi organica e completa, articolata e profonda, delle tante questioni trattate nel corso della prima settimana e non si deve proporre solo un'elencazione di argomenti. Il testo atteso deve essere un riflesso fedele e esauriente delle discussioni e dunque raccogliere spirito, stile e contenuti dei 265 interventi della prima settimana. Da questo confronto verrà fuori il testo finale: la "Relatio Synodi" che sarà presentata nella 14ª Congregazione generale, sabato 18 ottobre, insieme con il Messaggio al Popolo di Dio (Nuntius), e questi due documenti dovranno essere approvati probabilmente con delle votazioni.
È ben noto che sulla quasi totalità delle questioni importanti il consenso dei padri sinodali è fuori discussione. L'interesse e la curiosità, e se ne parlerà molto, riguardano invece alcuni punti delicati e sensibili anche perché toccano direttamente la sfera dottrinaria. Sono in molti a porsi il problema dell'autonomia della pastorale rispetto alla dottrina e perciò crescono le domande, sulla stampa, su cosa può dire il Sinodo che sia pastoralmente innovativo senza entrare in conflitto con la dottrina. In particolare si cita la questione dell'indissolubilità del matrimonio e la comunione per divorziati risposati. Altre riguardano la morale sessuale, la misericordia e "legge" evangelica.
Benedetto XVI, riecheggiando la Familiaris consortio del 22 novembre 1981 diceva: "Ai divorziati risposati dobbiamo dire che la Chiesa li ama, devono vederlo e sentire che realmente facciamo il possibile per aiutarli. Non sono fuori della Chiesa e anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia, vivono pienamente nella Chiesa" (1 – 3 giugno 2012, Milano). Torniamo a riproporre la questione poiché non c'è ombra di dubbio che sarà il centro delle letture mediatiche della conclusione dell'Assemblea sinodale anche se - come sanno tutti - si tratta di un aspetto importante della questione famigliare che non esaurisce la vasta e complessa problematica.
Il Segretario speciale del Sinodo, mons. Bruno Forte, conclude oggi la sua riflessione settimanale su Il Sole 24 Ore con queste parole: "Quali che saranno i risultati del cammino sinodale - che per la prima volta abbraccia due assemblee, una straordinaria questo ottobre e una ordinaria l’ottobre prossimo e un intero anno di maturazione e riflessione aperta in tutte le diocesi del mondo - la novità di questa apertura e di questo stile è rilevante, e dimostra come la volontà di Francesco di promuovere una Chiesa più collegiale e partecipe nelle sue decisioni ai vari livelli stia prendendo corpo in maniera articolata e profonda. Una Chiesa vicina alla gente, più credibile e capace di trasmettere la gioia del Vangelo: un “ospedale da campo” pronto al servizio lì dove batte il cuore della storia, e le gioie e i dolori degli uomini si incontrano nella loro più profonda autenticità. “Se così non fosse, - ha detto il Papa - il nostro edificio resterebbe solo un castello di carte e i pastori si ridurrebbero a chierici di stato, sulle cui labbra il popolo cercherebbe invano la freschezza e il profumo del Vangelo”.
Stando così le cose resta un'ultima domanda prevedibile: sarebbe sufficiente un Sinodo che con le sue conclusioni soddisfa la comunità ecclesiale che però non viene percepito "fuori" come capace di dare le risposte attese in modo chiaro, univoco e lineare e che invece affida tutto al linguaggio incomprensibile e astratto? In molti si attendono che l'esortazione di Papa Francesco a parlare chiaro e con piena libertà (parresia) sia una caratteristica centrale delle conclusioni sinodali.
(Luis Badilla)
Cari padri sinodali, è
proprio perché siamo peccatori che abbiamo bisogno di avere chiaro cosa è
male e cosa è bene. Stabilire per principio che nella situazione di
peccato si può permanere essendo contemporaneamente in stato di grazia,
non è un atto di misericordia, è l’assassinio della speranza.
di Riccardo Cascioli
Cari padri sinodali,
in questi giorni sono stati diversi gli interventi dentro e fuori l’aula del Sinodo che hanno dipinto coloro che sono contrari alla comunione per i divorziati risposati come persone che vogliono una “Chiesa dei puri”, “dei perfetti”, perciò una Chiesa elitaria, mentre Gesù è venuto per i peccatori e la Chiesa deve essere aperta a tutti. Ovviamente questa descrizione fa la gioia di tanti giornalisti e intellettuali, che già di loro tendono a dividere la Chiesa in buoni e cattivi.
Ma non è questo il problema. Lo è invece il fatto che personalmente non mi ritrovo affatto in questo giudizio. Per quanto mi riguarda sono ben cosciente di essere un povero peccatore e di avere un estremo bisogno della Misericordia del Signore. Non potrei per questo vagheggiare una “Chiesa dei puri”, perché ne sarei irrimediabilmente escluso. Eppure sono contrario alla Comunione per i divorziati risposati, o comunque per chi vive in situazioni irregolari. Anzi, è proprio perché sono cosciente di essere un peccatore che sono contrario.
Provo a spiegarmi: la consapevolezza del mio peccato mi fa desiderare che qualcuno venga a salvarmi. E salvare vuol dire che qualcuno mi liberi da questa situazione, non che metta in pace la coscienza dicendomi che va bene così. È come quando uno è in mare aperto e sa di non sapere nuotare fino a riva: spera che passi una nave, una barca, andrebbe bene anche un gommone o una tavola di legno, qualcosa insomma che possa dare la possibilità di arrivare sano e salvo a riva, che faccia uscire dall’acqua. Che aiuto sarebbe se passasse un peschereccio e invece di trarre in salvo il naufrago i pescatori lo valorizzassero lodandolo per come sa stare bene a galla? Nell’immediato magari darebbe sollievo psicologico, ma sarebbe la condanna a morte.
Ecco, la speranza che mi è nata incontrando Cristo si fonda proprio nella certezza che un’altra vita è possibile; una certezza che nasce dallo sperimentare la misericordia di Dio ogni volta che cado, ma dove anche «propongo di non farlo mai più». È proprio questo proposito che mi rilancia nella vita. Per non stancarsi mai di chiedere perdono, come tante volte ci ha invitato papa Francesco, c’è bisogno di sapere che dalla mia condizione posso uscire. Concretamente, non metaforicamente. «Anch’io non ti condanno, Va’ e non peccare più». Se la frase di Gesù si fermasse a «..Va’» non ci sarebbe speranza, perché l’esperienza del peccato è davvero l’esperienza della morte; e bisogna sapere che c’è la vita per poter sperare.
Come nella parabola del padre misericordioso (o del figliol prodigo): il figlio si rende conto di aver sbagliato e abbandona il peccato per tornare alla casa del padre. Non ci torna con prostitute e maiali («nel senso del purcel», direbbe Jannacci), né il padre gli dice di andarli a prendere che tanto gli vuole bene lo stesso.
Se non fosse chiaro cosa è bene e cosa è male, e non fosse chiaro il confine da superare per passare da una condizione all’altra non ci sarebbe più neanche la speranza del bene.
Mi rendo conto che ci sono situazioni davvero difficili, di sofferenza, ma l’appartenenza alla Chiesa non coincide con l’accostarsi alla comunione. Perché non guardare e non ascoltare quelle tante coppie, tante famiglie che vivono quotidianamente la stessa o altre sofferenze seguendo le indicazioni della Chiesa e proprio per questo vi sperimentano un’appartenenza più profonda? Non possono queste essere un esempio anche per le altre coppie che si sentono frustrate? Se davvero siete pastori che sentono l’odore delle pecore non potete non conoscere esempi meravigliosi di coppie che si santificano nel seguire il magistero della Chiesa. Perché di queste coppie non v’è traccia al Sinodo?
Stabilire per principio (e ribadisco per principio) che nella situazione di peccato si può permanere essendo contemporaneamente in stato di grazia (condizione necessaria per accostarsi alla comunione), non è un atto di misericordia, è l’assassinio della speranza. Mantenere con chiarezza il confine tra il bene e il male non è la condanna di noi peccatori, ma la nostra speranza.
Papa Francesco tante volte ci ha invitato a «non lasciarci rubare la speranza».
Ecco, per questo cari padri sinodali, vi chiedo: a noi peccatori non rubate la speranza.
© La Nuova Bussola Quotidiana (13/10/2014)
di Riccardo Cascioli
Cari padri sinodali,
in questi giorni sono stati diversi gli interventi dentro e fuori l’aula del Sinodo che hanno dipinto coloro che sono contrari alla comunione per i divorziati risposati come persone che vogliono una “Chiesa dei puri”, “dei perfetti”, perciò una Chiesa elitaria, mentre Gesù è venuto per i peccatori e la Chiesa deve essere aperta a tutti. Ovviamente questa descrizione fa la gioia di tanti giornalisti e intellettuali, che già di loro tendono a dividere la Chiesa in buoni e cattivi.
Ma non è questo il problema. Lo è invece il fatto che personalmente non mi ritrovo affatto in questo giudizio. Per quanto mi riguarda sono ben cosciente di essere un povero peccatore e di avere un estremo bisogno della Misericordia del Signore. Non potrei per questo vagheggiare una “Chiesa dei puri”, perché ne sarei irrimediabilmente escluso. Eppure sono contrario alla Comunione per i divorziati risposati, o comunque per chi vive in situazioni irregolari. Anzi, è proprio perché sono cosciente di essere un peccatore che sono contrario.
Provo a spiegarmi: la consapevolezza del mio peccato mi fa desiderare che qualcuno venga a salvarmi. E salvare vuol dire che qualcuno mi liberi da questa situazione, non che metta in pace la coscienza dicendomi che va bene così. È come quando uno è in mare aperto e sa di non sapere nuotare fino a riva: spera che passi una nave, una barca, andrebbe bene anche un gommone o una tavola di legno, qualcosa insomma che possa dare la possibilità di arrivare sano e salvo a riva, che faccia uscire dall’acqua. Che aiuto sarebbe se passasse un peschereccio e invece di trarre in salvo il naufrago i pescatori lo valorizzassero lodandolo per come sa stare bene a galla? Nell’immediato magari darebbe sollievo psicologico, ma sarebbe la condanna a morte.
Ecco, la speranza che mi è nata incontrando Cristo si fonda proprio nella certezza che un’altra vita è possibile; una certezza che nasce dallo sperimentare la misericordia di Dio ogni volta che cado, ma dove anche «propongo di non farlo mai più». È proprio questo proposito che mi rilancia nella vita. Per non stancarsi mai di chiedere perdono, come tante volte ci ha invitato papa Francesco, c’è bisogno di sapere che dalla mia condizione posso uscire. Concretamente, non metaforicamente. «Anch’io non ti condanno, Va’ e non peccare più». Se la frase di Gesù si fermasse a «..Va’» non ci sarebbe speranza, perché l’esperienza del peccato è davvero l’esperienza della morte; e bisogna sapere che c’è la vita per poter sperare.
Come nella parabola del padre misericordioso (o del figliol prodigo): il figlio si rende conto di aver sbagliato e abbandona il peccato per tornare alla casa del padre. Non ci torna con prostitute e maiali («nel senso del purcel», direbbe Jannacci), né il padre gli dice di andarli a prendere che tanto gli vuole bene lo stesso.
Se non fosse chiaro cosa è bene e cosa è male, e non fosse chiaro il confine da superare per passare da una condizione all’altra non ci sarebbe più neanche la speranza del bene.
Mi rendo conto che ci sono situazioni davvero difficili, di sofferenza, ma l’appartenenza alla Chiesa non coincide con l’accostarsi alla comunione. Perché non guardare e non ascoltare quelle tante coppie, tante famiglie che vivono quotidianamente la stessa o altre sofferenze seguendo le indicazioni della Chiesa e proprio per questo vi sperimentano un’appartenenza più profonda? Non possono queste essere un esempio anche per le altre coppie che si sentono frustrate? Se davvero siete pastori che sentono l’odore delle pecore non potete non conoscere esempi meravigliosi di coppie che si santificano nel seguire il magistero della Chiesa. Perché di queste coppie non v’è traccia al Sinodo?
Stabilire per principio (e ribadisco per principio) che nella situazione di peccato si può permanere essendo contemporaneamente in stato di grazia (condizione necessaria per accostarsi alla comunione), non è un atto di misericordia, è l’assassinio della speranza. Mantenere con chiarezza il confine tra il bene e il male non è la condanna di noi peccatori, ma la nostra speranza.
Papa Francesco tante volte ci ha invitato a «non lasciarci rubare la speranza».
Ecco, per questo cari padri sinodali, vi chiedo: a noi peccatori non rubate la speranza.
© La Nuova Bussola Quotidiana (13/10/2014)
Due parole sul sinodo della famiglia
“Va’, e non peccare più”
(Gv 8,11)
“Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei”.
(Purg. III, 120-122)
.
di Carla D’Agostino Ungaretti
.
Vorrei dire anche io due parole da cattolica “bambina” sull’evento cardine del momento storico che sta vivendo la Chiesa universale: il Sinodo della famiglia. E dico subito che, secondo me la confusione regna sovrana e rafforza le idee sbagliate che allignano nelle menti di tanti, anche cattolici.
Anzitutto si sente ripetere come un mantra quella che io non esito a definire una stupida frase che non viene smentita o corretta da chi ha il potere e il dovere di farlo, e cioè “I tempi sono cambiati e finalmente la Chiesa se ne sta accorgendo, sia pure (come dicono i maligni) in ritardo“. Ma chi li ha cambiati? E sono cambiati in meglio o in peggio? Io sostengo che non è stato certo Cristo a stabilire che, dopo duemila anni dalla sua Incarnazione, l’uomo (compreso il Papa) avrebbe avuto il permesso di modificare la Parola di Dio a suo piacimento. Inoltre la condizione in cui oggi versa la famiglia non fa certo propendere per un miglioramento del suo stato di salute spirituale.
Poi, i giornali e i mass-media non fanno che ripetere e mettere in primo piano ciò che la Chiesa afferma da sempre e cioè che essa accoglie tutti, divorziati rimasti single o risposatisi civilmente, omosessuali, transessuali e similia. Se ne parla come se fosse una novità; ma quando mai la Chiesa ha detto o fatto il contrario? Semmai è stato sempre il mondo, in passato, a emarginare i conviventi (tranne quelli di alta posizione sociale) e a dileggiare e demonizzare gli omosessuali e i transessuali usando, per loro, epiteti e parole volgari – che, come tutti sanno, esistono in ogni dialetto d’Italia – e infierendo soprattutto su quelli di umile condizione, perché quelli di alto rango sociale, culturale o economico sono sempre stati blanditi e corteggiati: basti pensare ai molti intellettuali, scrittori, artisti o registi che tutti conosciamo. Non nascondiamoci dietro un dito: la Chiesa non ha mai respinto i peccatori, ma è sempre andata alla loro ricerca per illuminarli e riaccoglierli nel suo seno, come Gesù faceva con i peccatori ma – e qui, secondo me, risiede l’equivoco – non lo fa buonisticamente (come non lo faceva Gesù, che non ha mai detto “chi ha avuto, ha avuto; chi ha dato, ha dato” ) perché richiede da essi la conversione del cuore, il riconoscimento che lo stile di vita osservato fino a quel momento era sbagliato e la promessa di cambiarlo. Il problema che maggiormente sembra intrigare i mass-media – relativamente a questo Sinodo che dovrebbe ribadire con forza la concezione cristiana della famiglia – non è quello del sostegno materiale e spirituale o dell’assistenza ai nuclei familiari, sia sereni che in crisi, bisognosi entrambi (come sappiamo tutti) di aiuto da parte dell’ordinamento giuridico ma, quasi inspiegabilmente, quello dell’ammissione al Sacramento dell’Eucaristia dei divorziati risposatisi civilmente che sentano il bisogno spirituale di riaccostarsi a Dio. La Chiesa non fa che ripetere, per bocca di Vescovi e Parroci, che questi nostri fratelli sono parte integrante del popolo cristiano e infatti li invita continuamente a partecipare alla vita della Parrocchia, alle celebrazioni liturgiche, a compiere opere di carità, ma c’è un punto sul quale ci si arena o meglio non si fa la chiarezza dovuta e quindi eccomi giunta a cercare di chiarire l’equivoco fuorviante di cui parlavo poc’anzi.
I divorziati, risposatisi civilmente che si professano cattolici, sanno da sempre che il loro secondo legame (o terzo, o quarto, come nel mondo avviene sempre più frequentemente) da essi coscientemente contratto, non è conforme al Vangelo (Mt 19, 3 ss; Mc 10, 9ss). Matteo, però, dal canto suo, sembra inserire un’eccezione all’indissolubità matrimoniale ribadita con forza da Gesù che si richiama alla volontà iniziale del Creatore: “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato(πορνεία) commette adulterio“. Il dizionario greco – italiano di Lorenzo Rocci, croce e delizia di tanti studenti del nostrano Liceo Classico, traduce il termine greco πορνεία, usato dai Settanta nella loro traduzione in lingua greca del Vangelo secondo Matteo, con prostituzione, fornicazione, lussuria, termini il cui significato non si discosta poi molto da concubinato. In altri casi, sempre nel Nuovo Testamento, lo traduce con idolatria, apostasia, ma non sono questi i casi che ci interessano . Quindi, stando a Matteo, sarebbe lecito pensare che solo l’adulterio giustificherebbe la separazione dei coniugi (e chi potrebbe negare che esso ha un effetto devastante sul matrimonio?) ma duemila anni di ermeneutica cristiana, hanno sempre escluso la possibilità di un nuovo matrimonio.
Gesù perdonò l’adultera, raccomandandole di non peccare più. Invece pare che la soluzione più accreditata nel Sinodo sia la salvaguardia assoluta della dottrina, ma con la valutazione dei singoli casi da affidarsi ai Vescovi diocesani, i quali potrebbero così ammettere al Sacramento i divorziati risposati dopo averli assoggettati a un cammino penitenziale. Ma che significa, nel caso specifico, “cammino penitenziale” se non ci si richiama espressamente all’osservanza della castità? Non ci si rende conto della falla che si aprirebbe così nella dottrina complicando le cose? Non dovrebbe bastare la promessa – fatta durante il Sacramento della Riconciliazione al confessore, che in quel momento E’ CRISTO – di vivere da quel momento in poi con il proprio partner astenendosi da qualunque intimità? La Chiesa, a queste condizioni, concede l’assoluzione e l’ammissione all’Eucaristia perché si fida delle promesse dei suoi figli, ben sapendo che essi possono ingannare il confessore, ma non ingannano certo Dio.
Sarà stata capace di obbedire a Gesù la povera adultera? Non lo sappiamo, ma dall’episodio narrato da Giovanni apprendiamo che la misericordia divina è sempre pronta a riaccogliere mille volte il peccatore pentito che accetti con cuore sincero di cambiare vita, anche se non ci sono garanzie che non peccherà più.
Castità, quindi, ma che cosa sarà mai questa benedetta castità, che non viene mai nominata in questo frangente, e perché il mondo la disprezza tanto? Essa è la virtù per mezzo della quale l’uomo domina e regola il desiderio sessuale secondo le esigenze della ragione e allora è facile capire perché non goda oggi di molto credito: essa richiede il dominio di sé, la formazione del carattere e lo spirito di sacrificio, doti che oggi il mondo disprezza, teso com’è a perseguire il proprio piacere o tornaconto, di qualunque natura esso sia. L’essere umano casto “si costruisce giorno per giorno con le sue libere scelte : per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita”[1]. Tutti i cristiani sono chiamati a condurre una vita casta, ma il modo di vivere la castità varia a seconda dei diversi stati di vita. Per i coniugi essa consiste nel dare ai rapporti sessuali la pienezza dei diversi significati della sessualità e nel superare ogni forma di banalizzazione e strumentalizzazione dell’altro. Alle persone non sposate la castità impone la sublimazione della sessualità, ossia il suo orientamento in senso puramente affettivo e spirituale. Perché ciò possa avvenire è necessaria, anche se non sufficiente, la coscienza realistica delle dinamiche dell’eros che non vanno rimosse , ma sviluppate correttamente attraverso un rapporto autentico con le persone dell’altro sesso, in modo da favorire una vera integrazione dell’alterità sessuale.
L’attuazione pratica della castità richiede attenzione alla diversità delle situazioni umane e disponibilità ad accettare le tappe di un cammino di crescita che non è uguale per tutti e che deve essere sorretto dall’azione della Grazia divina.
Con queste mie umili parole di cattolica “bambina” non ho detto niente di nuovo o di speciale: la Chiesa conosce queste cose da duemila anni – perché ne hanno parlato esaurientemente i grandi Padri della Chiesa a cominciare da S. Agostino – e da duemila anni le insegna. Eppure, per rammentarle al mondo edonista del XXI secolo, si è ritenuto necessario addirittura un Sinodo. Speriamo e preghiamo lo Spirito perché ispirino i Vescovi a non lasciarsi affascinare dalle proposte del mondo!
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[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica “Familiaris consortio“, n. 34.
“Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei”.
(Purg. III, 120-122)
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di Carla D’Agostino Ungaretti
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Vorrei dire anche io due parole da cattolica “bambina” sull’evento cardine del momento storico che sta vivendo la Chiesa universale: il Sinodo della famiglia. E dico subito che, secondo me la confusione regna sovrana e rafforza le idee sbagliate che allignano nelle menti di tanti, anche cattolici.
Anzitutto si sente ripetere come un mantra quella che io non esito a definire una stupida frase che non viene smentita o corretta da chi ha il potere e il dovere di farlo, e cioè “I tempi sono cambiati e finalmente la Chiesa se ne sta accorgendo, sia pure (come dicono i maligni) in ritardo“. Ma chi li ha cambiati? E sono cambiati in meglio o in peggio? Io sostengo che non è stato certo Cristo a stabilire che, dopo duemila anni dalla sua Incarnazione, l’uomo (compreso il Papa) avrebbe avuto il permesso di modificare la Parola di Dio a suo piacimento. Inoltre la condizione in cui oggi versa la famiglia non fa certo propendere per un miglioramento del suo stato di salute spirituale.
Poi, i giornali e i mass-media non fanno che ripetere e mettere in primo piano ciò che la Chiesa afferma da sempre e cioè che essa accoglie tutti, divorziati rimasti single o risposatisi civilmente, omosessuali, transessuali e similia. Se ne parla come se fosse una novità; ma quando mai la Chiesa ha detto o fatto il contrario? Semmai è stato sempre il mondo, in passato, a emarginare i conviventi (tranne quelli di alta posizione sociale) e a dileggiare e demonizzare gli omosessuali e i transessuali usando, per loro, epiteti e parole volgari – che, come tutti sanno, esistono in ogni dialetto d’Italia – e infierendo soprattutto su quelli di umile condizione, perché quelli di alto rango sociale, culturale o economico sono sempre stati blanditi e corteggiati: basti pensare ai molti intellettuali, scrittori, artisti o registi che tutti conosciamo. Non nascondiamoci dietro un dito: la Chiesa non ha mai respinto i peccatori, ma è sempre andata alla loro ricerca per illuminarli e riaccoglierli nel suo seno, come Gesù faceva con i peccatori ma – e qui, secondo me, risiede l’equivoco – non lo fa buonisticamente (come non lo faceva Gesù, che non ha mai detto “chi ha avuto, ha avuto; chi ha dato, ha dato” ) perché richiede da essi la conversione del cuore, il riconoscimento che lo stile di vita osservato fino a quel momento era sbagliato e la promessa di cambiarlo. Il problema che maggiormente sembra intrigare i mass-media – relativamente a questo Sinodo che dovrebbe ribadire con forza la concezione cristiana della famiglia – non è quello del sostegno materiale e spirituale o dell’assistenza ai nuclei familiari, sia sereni che in crisi, bisognosi entrambi (come sappiamo tutti) di aiuto da parte dell’ordinamento giuridico ma, quasi inspiegabilmente, quello dell’ammissione al Sacramento dell’Eucaristia dei divorziati risposatisi civilmente che sentano il bisogno spirituale di riaccostarsi a Dio. La Chiesa non fa che ripetere, per bocca di Vescovi e Parroci, che questi nostri fratelli sono parte integrante del popolo cristiano e infatti li invita continuamente a partecipare alla vita della Parrocchia, alle celebrazioni liturgiche, a compiere opere di carità, ma c’è un punto sul quale ci si arena o meglio non si fa la chiarezza dovuta e quindi eccomi giunta a cercare di chiarire l’equivoco fuorviante di cui parlavo poc’anzi.
I divorziati, risposatisi civilmente che si professano cattolici, sanno da sempre che il loro secondo legame (o terzo, o quarto, come nel mondo avviene sempre più frequentemente) da essi coscientemente contratto, non è conforme al Vangelo (Mt 19, 3 ss; Mc 10, 9ss). Matteo, però, dal canto suo, sembra inserire un’eccezione all’indissolubità matrimoniale ribadita con forza da Gesù che si richiama alla volontà iniziale del Creatore: “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato(πορνεία) commette adulterio“. Il dizionario greco – italiano di Lorenzo Rocci, croce e delizia di tanti studenti del nostrano Liceo Classico, traduce il termine greco πορνεία, usato dai Settanta nella loro traduzione in lingua greca del Vangelo secondo Matteo, con prostituzione, fornicazione, lussuria, termini il cui significato non si discosta poi molto da concubinato. In altri casi, sempre nel Nuovo Testamento, lo traduce con idolatria, apostasia, ma non sono questi i casi che ci interessano . Quindi, stando a Matteo, sarebbe lecito pensare che solo l’adulterio giustificherebbe la separazione dei coniugi (e chi potrebbe negare che esso ha un effetto devastante sul matrimonio?) ma duemila anni di ermeneutica cristiana, hanno sempre escluso la possibilità di un nuovo matrimonio.
- Paolo, poi, è ancora più icastico:”Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore … mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 27 – 28). C’era bisogno di aggiungere qualcos’altro, per essere ancora più chiari? Gesù e Paolo sono lapalissiani, le loro parole o si accettano in toto, o in toto si respingono, perché è un problema di fede, la quale c’è o non c’è: tertium non datur. Eppure il mondo moderno, che ha perso il senso del peccato e non si confessa più, pretende di ricevere la S. Comunione senza accostarsi prima al Sacramento della Riconciliazione; esso si sente in diritto di ricevere comunque il Corpo del Signore e preme perché il Sinodo gli riconosca questo diritto, anche se vive in condizione di “pornèia.
Gesù perdonò l’adultera, raccomandandole di non peccare più. Invece pare che la soluzione più accreditata nel Sinodo sia la salvaguardia assoluta della dottrina, ma con la valutazione dei singoli casi da affidarsi ai Vescovi diocesani, i quali potrebbero così ammettere al Sacramento i divorziati risposati dopo averli assoggettati a un cammino penitenziale. Ma che significa, nel caso specifico, “cammino penitenziale” se non ci si richiama espressamente all’osservanza della castità? Non ci si rende conto della falla che si aprirebbe così nella dottrina complicando le cose? Non dovrebbe bastare la promessa – fatta durante il Sacramento della Riconciliazione al confessore, che in quel momento E’ CRISTO – di vivere da quel momento in poi con il proprio partner astenendosi da qualunque intimità? La Chiesa, a queste condizioni, concede l’assoluzione e l’ammissione all’Eucaristia perché si fida delle promesse dei suoi figli, ben sapendo che essi possono ingannare il confessore, ma non ingannano certo Dio.
Sarà stata capace di obbedire a Gesù la povera adultera? Non lo sappiamo, ma dall’episodio narrato da Giovanni apprendiamo che la misericordia divina è sempre pronta a riaccogliere mille volte il peccatore pentito che accetti con cuore sincero di cambiare vita, anche se non ci sono garanzie che non peccherà più.
Castità, quindi, ma che cosa sarà mai questa benedetta castità, che non viene mai nominata in questo frangente, e perché il mondo la disprezza tanto? Essa è la virtù per mezzo della quale l’uomo domina e regola il desiderio sessuale secondo le esigenze della ragione e allora è facile capire perché non goda oggi di molto credito: essa richiede il dominio di sé, la formazione del carattere e lo spirito di sacrificio, doti che oggi il mondo disprezza, teso com’è a perseguire il proprio piacere o tornaconto, di qualunque natura esso sia. L’essere umano casto “si costruisce giorno per giorno con le sue libere scelte : per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita”[1]. Tutti i cristiani sono chiamati a condurre una vita casta, ma il modo di vivere la castità varia a seconda dei diversi stati di vita. Per i coniugi essa consiste nel dare ai rapporti sessuali la pienezza dei diversi significati della sessualità e nel superare ogni forma di banalizzazione e strumentalizzazione dell’altro. Alle persone non sposate la castità impone la sublimazione della sessualità, ossia il suo orientamento in senso puramente affettivo e spirituale. Perché ciò possa avvenire è necessaria, anche se non sufficiente, la coscienza realistica delle dinamiche dell’eros che non vanno rimosse , ma sviluppate correttamente attraverso un rapporto autentico con le persone dell’altro sesso, in modo da favorire una vera integrazione dell’alterità sessuale.
L’attuazione pratica della castità richiede attenzione alla diversità delle situazioni umane e disponibilità ad accettare le tappe di un cammino di crescita che non è uguale per tutti e che deve essere sorretto dall’azione della Grazia divina.
Con queste mie umili parole di cattolica “bambina” non ho detto niente di nuovo o di speciale: la Chiesa conosce queste cose da duemila anni – perché ne hanno parlato esaurientemente i grandi Padri della Chiesa a cominciare da S. Agostino – e da duemila anni le insegna. Eppure, per rammentarle al mondo edonista del XXI secolo, si è ritenuto necessario addirittura un Sinodo. Speriamo e preghiamo lo Spirito perché ispirino i Vescovi a non lasciarsi affascinare dalle proposte del mondo!
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[1] Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica “Familiaris consortio“, n. 34.
http://www.riscossacristiana.it/due-parole-sul-sinodo-della-famiglia-di-carla-dagostino-ungaretti/
SINODO: SASSOLINI NEGLI INGRANAGGI DELLA GIOIOSA MACCHINA - di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 14 ottobre 2014
Dopo la ‘Relatio post-disceptationem’ si sono registrati 41 interventi, diversi dei quali molto critici nei confronti di punti particolari del documento. In conferenza-stampa il relatore generale card. Peter Erdoe ammette l’emergere delle critiche, misconosce almeno in parte la paternità della ‘Relatio’ e chiede all’arcivescovo Bruno Forte di rispondere a una domanda sulle convivenze omosessuali, poiché il paragrafo l’aveva redatto lui.
Può darsi che ieri abbiamo assistito e compartecipato a una conferenza-stampa vaticana immaginaria. Difatti di quello che è emerso di significativo del clima sinodale non abbiamo trovato fin qui che scarsa eco nei resoconti prodotti in lingua italiana per i maggiori quotidiani e agenzie. Che si occupano in gran parte dei contenuti innovativi della Relatio post disceptationem, insistendo nell’evidenziare che essa è opera del cardinale Peter Erdoe, relatore generale del Sinodo ( conosciuto a giusta ragione come giurista esperto, moderato e saggio). Per chi ha seguito la conferenza-stampa con orecchie e occhi ben aperti, l’affermazione appare invero assai discutibile. Perché diciamo questo?
Il cardinale Erdoe ha tenuto ieri mattina nell’Aula sinodale la Relatio post disceptationem, che contiene tra l’altro aperture non da poco sia sul tema dell’accesso alla comunione per i divorziati risposati che su quello dell’accoglienza per le persone omosessuali, il che comporta logicamente un’attenzione ‘misericordiosa’ verso le ‘unioni omosessuali’ (che anch’esse contengono, è stato detto più volte in questo Sinodo, “elementi di santificazione”).
Alla relazione sono seguite quasi due ore di interventi liberi, in cui si sono espressi dapprima una serie di padri sinodali favorevoli ai contenuti più delicati della relazione. E’ però seguito, molto critico della relazione, un fuoco di fila di numerosi padri anche europei (non solo dell’Europa centro-orientale, ma anche occidentale… e di gran nome) che hanno avanzato valutazioni severe, osservazioni pungenti, domande incisive. “Una vera bomba”, ha osservato qualcuno che ha ascoltato in aula gli interventi. E qualcun altro: “Un clima di battaglia, altro che da volemose bene”.
ERDOE: "LA COSIDDETTA MIA RELAZIONE"
Rispondendo a una nostra domanda sullo svolgimento del dibattito libero, il cardinale Erdoe ha esordito rilevando molto onestamente, che “sempre, e non solo oggi, ci sono state critiche”. Critiche alla “cosiddetta mia relazione” (Ndr: notare quel ‘cosiddetta’ che fa capire molto), che in realtà “è una relazione comune” (presumiamo con la segreteria del Sinodo, in particolare con il card. Baldisseri e l’arcivescovo Forte). “Sono emersi altri punti di vista – ha detto Erdoe – osservazioni circa la chiarezza del testo, che deve essere tale da non creare confusione, domande di approfondimento sopra questo o quest’altro aspetto”. Ha rilevato qui il presidente del Consiglio delle conferenze episcopali europee: “Spero proprio che durante i prossimi giorni si migliori molto il testo”. Che, si evince, così com’è non soddisfa proprio chi ufficialmente ne è l’estensore… Esempio di linguaggio fumoso al punto 51 (prima parte): “La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale”. Chi ci capisce qualcosa è bravo: può anche essere che il linguaggio sia volutamente fumoso come era quello di certi politici democristiani italiani e campani degli Anni Ottanta.
Ancora: si sa che sempre i relatori generali del Sinodo ricevono testi già preparati da integrare, ma suscettibili ancora di essere modificati dalla stessa Segreteria. Se il relatore non è d’accordo, deve faticosamente mercanteggiare il testo che appare con il proprio nome.
ERDOE A FORTE: "L'HAI REDATTO TU, RISPONDI TU!"
Non solo. Pure in occasione dell’ultima domanda sul riconoscimento delle convivenze omosessuali, il relatore generale ha ribadito che nei fatti la relazione era anche di altri (diremmo, conoscendo un poco il cardinale Erdoe: sui punti delicati fondamentali, soprattutto di altri). Infatti l’arcivescovo di Esztergom-Budapest ha invitato a rispondere alla domanda citata il segretario generale aggiunto del Sinodo, l’arcivescovo Bruno Forte, dicendogli: “Il brano (paragrafo) l’hai redatto tu, rispondi tu”. Non è finita. Dopo la risposta di mons. Forte (“Non si può escludere la codificazione di diritti per le coppie omosessuali, è un discorso di civiltà!”), ancora il card. Erdoe si è sentito in dovere di aggiungere, per “integrare” la risposta: “Il tema è emerso anche negli interventi liberi. Infatti nella relazione manca un accenno al disordine di tali convivenze. Perciò l’affermazione citata va integrata con l’accenno al disordine del comportamento”.
Scarsa camerateria da parte del Relatore generale? dicono alcuni. Ma il Sinodo non è una squadra di calcio in cui tutti assimilano gli stessi schemi per buttare la palla nella porta avversaria. Qui non siamo a Lazio-Roma. Il Sinodo è qualcosa di diverso, comporta anche una grande responsabilità dei padri sinodali verso la Chiesa e il mondo. E il senso di responsabilità non sempre coincide con la camerateria. Ma è più importante per il futuro dell’umanità.
Come chi ci legge avrà notato, il cammino della gioiosa macchina sinodale procede dunque con una fatica non del tutto prevista. La resistenza è forte. E anche i sassolini creano disturbi terribilmente seccanti. Come raccomandava Massimo D’Alema, affacciato al balcone del Bottegone di via delle Botteghe oscure alle tre della notte dei risultati delle elezioni dell’aprile 1996, davanti a una folla già esultante: “Compagni, andate a dormire, che lo spoglio ancora non è finito!” Ciò vale anche per il Sinodo sulla famiglia: le bocce non sono ancora ferme e il risultato, pur prevedibile, non è ancora del tutto scontato. Perciò, almeno per alcuni giorni, i fiati ripongano nelle custodie le loro trombe.
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