Divorziati risposati, le ambigue soluzioni dei “pietisti”
Si usano le situazioni difficili per proporre cambiamenti pastorali che in realtà cambiano o ignorano la dottrina. E sui media è gioco facile l’annuncio dell’arrivo una nuova Chiesa non più sottomessa ai vincoli del dogma e della morale, aperta alle istanze della “base” e pronta a cancellare gli “storici steccati” che separano i cattolici da protestanti e ortodossi.
di monsignor Antonio Livi
A margine delle discussioni che hanno preceduto e tuttora accompagnano il Sinodo straordinario sulla famiglia (5–19 ottobre 2014) va osservato il continuo e crescente avvicendarsi di “cattivi maestri” e di “falsi profeti” che annunciano come già in arrivo una nuova Chiesa non più sottomessa ai vincoli del dogma e della morale, aperta alle istanze della “base” e pronta a cancellare gli “storici steccati” che separano i cattolici dai protestanti e dagli ortodossi.
I cardinali Muller e Kasper.
Molti studiosi italiani hanno messo in evidenza la deriva “anti-dogmatica”, o meglio “a-dogmatica” di questi discorsi, recepiti con entusiasmo (naturalmente!) dai media laicisti, dallaRepubblica al Sole24Ore e alla Stampa (qui scrive tra gli altri Gianni Vattimo, il filosofo del «pensiero debole», che già vent’anni fa chiedeva a gran voce un «cristianesimo senza papa e senza dogmi»). Io ne ho parlato approfonditamente nel mio trattato su Vera e falsa teologia(2012) e più recentemente pubblicando una raccolta di scritti del cardinale Giuseppe Siri che ho intitolato Dogma e liturgia (2014). Ma anche papa Benedetto XVI aveva sapientemente precisato che «pastorale e dogma s’intrecciano in modo indissolubile; è la verità di Colui che è a un tempo “Logos” e “Pastore”, come ha profondamente compreso la primitiva arte cristiana, che raffigurava il Logos come Pastore e nel Pastore scorgeva il Verbo eterno che è per l’uomo la vera indicazione della vita».
Sull’argomento è poi tornato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In un libro-intervista che è uscito un mese fa contemporaneamente in Italia, in Spagna e negli Stati Uniti (l’edizione italiana, a cura dell’Ares, si intitola La speranza della famiglia), il porporato tedesco ha messo molto bene in evidenza il carattere a-dogmatico delle proposte di cambiamento della prassi ecclesiastica a riguardo del matrimonio e della famiglia.
Nel denunciare l’impossibilità di accettare quelle proposte – che, secondo Walter Kasper e tanti altri, sarebbero giustificate dai mutamenti sociali in atto e dall’insofferenza di molti fedeli alla morale cattolica – il cardinale Müller ha detto con grande precisione teologica: «Un semplice “adattamento” della realtà del matrimonio alle attese del mondo non dà alcun frutto, anzi risulta controproducente: la Chiesa non può rispondere alle sfide del mondo attuale con un adattamento pragmatico. Opponendoci a un facile adattamento pragmatico, siamo chiamati a scegliere l’audacia profetica del martirio. Con essa, potremo testimoniare il Vangelo della santità del matrimonio. Un profeta tiepido, mediante un adeguamento allo spirito dell’epoca, cercherebbe la propria salvezza, non la salvezza che solamente Dio può dare».
Sono stati tanti i cardinali (oltre al già citato Gerhard Ludwig Müller, ricordo Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, Walter Brandmüller, Thomas Collins e Raymond L. Burke) che hanno voluto pubblicare degli scritti per opporsi, con argomentazioni serene e soprattutto pertinenti, al tentativo di fare pressione sul Sinodo nella speranza di ottenere un pronunciamento della maggioranza dei centonovantuno padri sinodali e addirittura di papa Francesco a favore del cambiamento della prassi pastorale della Chiesa.
Ciò peraltro non è possibile che accada, perché costituirebbe un sostanziale cambiamento della Chiesa stessa, ossia l’avvento di quella nuova Chiesa a-dogmatica che da anni tanti cattivi maestri come Hans Küng e tanti falsi profeti come Enzo Bianchi vanno annunciando e preparando (preparando con l’annunciarla), senza peritarsi di attribuire allo stesso papa Francesco i loro disegni rivoluzionari. L’attuazione di tali disegni, per quanto riguarda la pastorale del matrimonio e della famiglia, comporterebbe l’abolizione dell’enciclica Humane vitae (Paolo VI) e dell’esortazione apostolica Familiaris consortio (Giovanni Paolo II), oltre naturalmente ai canoni del Concilio ecumenico di Trento sui sacramenti del Matrimonio, dell’Eucaristia e della Penitenza.
Insomma, ci sono solide ed evidenti ragioni per rassicurare quei fedeli che possono essere stati turbati da tante estemporanee e imprudenti esternazioni di alcuni teologi, sia veri (come Dionigi Tettamanzi) che presunti (come Gianfranco Ravasi), i quali si sono dichiarati convinti delle argomentazioni di Walter Kasper sulla necessità di riformare la pastorale. Io vado ripetendo a tutti di stare tranquilli, perché la fede e la speranza teologali ci assicurano dell’indefettibilità della Chiesa, garantita da Cristo stesso, e ciò vuol dire che nessuna maggioranza sinodale (e tanto meno una minoranza, per quanto vociante) finirà per imporre al papa l’autodistruzione della Chiesa, che Cristo gli ha affidato per governarla in suo nome, come suo Vicario.
Ma prima, oltre a queste considerazioni propriamente teologiche, ho voluto citare una frase del cardinale Gerhard Ludwig Müller perché serve a integrare il discorso con l’opportuno richiamo alla categoria logico-retorica del “pragmatismo”. Il pragmatismo è infatti la versione “performativa” (ossia, operativa) del relativismo, sotto la cui dittatura viviamo ufficialmente dai tempi di papa Benedetto XVI, che la denunciò vigorosamente. L’«adattamento pragmatico» di cui parla Müller consiste nell’adattare la Chiesa alle (presunte) nuove istanze dei fedeli, e anche degli infedeli, ai quali si vuol apparire dialoganti sempre e a ogni costo. Ciò implica la decisione di mettere in soffitta il dogma, appellandosi alle sole (presunte) esigenze di azione pastorale nella liturgia, nella catechesi, nell’amministrazione dei sacramenti. Si dice infatti e si ripete che «la dottrina non viene toccata ma si affrontano le sfide della società di oggi». In altri termini, la dottrina da una parte e la pastorale dall’altra. Qualcosa come “i commenti separati dalle notizie”, come dicevano i settimanali politici di un tempo.
Ma che cosa vuol dire in concreto, che «la dottrina resta immutata mentre la pastorale deve cambiare per adeguarsi ai tempi»? Prima ancora di discutere se questa affermazione è ortodossa, bisogna chiedersi se ha senso. La risposta che io, come studioso di logica e di filosofia del linguaggio, ritengo che si debba dare è che frasi di questo genere non hanno di per sé alcun senso.
In effetti, la pastorale è un insieme di decisioni, di iniziative, di scelte, insomma di azioni, i cui soggetti sono persone consapevoli e (si spera) responsabili. Ora, qualunque azione umana, sia di un singolo come privato sia di un singolo come rappresentante di un’istituzione, è regolata intrinsecamente – a rigor di logica, e dalla logica non si scappa – da un’intenzione, da un criterio, quindi in definitiva da dei principi, dunque da una dottrina. Di conseguenza, quando certi teologi e anche certi ecclesiastici con autorità episcopale dicono che cercano soluzioni “pastorali” diverse da quelle che la Chiesa ha adottato finora, e aggiungono che però non intendono cambiare la dottrina, dicono una cosa assolutamente illogica, una cosa che essi vorrebbero fosse presa per buona (ossia, come un’ipotesi plausibile) da parte del pubblico al quale si rivolgono, ma che loro per primi sanno che non ha alcun senso. In realtà quelle frasi sono mera retorica, una cortina fumogena che serva a nascondere i veri obiettivi, i fini reali dei cambiamenti che si vogliono attuare.
Non posso certamente sapere che cosa costoro hanno in mente e nella coscienza, ma – stando alla logica dei fatti (e i discorsi sono anch’essi dei fatti) – le possibilità sono solo due: o quelle frasi nascondono l’intenzione di cambiare davvero la dottrina, ma senza dirlo esplicitamente (il che sarebbe proprio da ipocriti, e quindi certamente non è il caso delle persone cui mi riferisco); oppure nascondono un’intenzione che in astratto può apparire meno eterodossa ma in pratica costituisce una minaccia grave per la fede cattolica: l’intenzione di lasciare la dottrina della Chiesa così com’è, senza introdurre cambiamenti formali ma senza nemmeno applicarla alla vita della Chiesa, il che significa cominciare (o continuare) ad agire nella prassi pastorale secondo altri principi e altri criteri: altri principi e altri criteri, che allora sarebbero non-dottrinali, estranei cioè al dogma, quindi indipendenti da quello che Dio ha rivelato come verità salvifiche e che ogni fedele è tenuto a credere nel proprio cuore, a professare esteriormente e a vivere personalmente. Quindi non si tratterebbe di criteri teologici ma di criteri umani, sostanzialmente politici, come si deduce dal linguaggio usato nei loro messaggi e dai mezzi adoperati per diffonderlo nell’opinione pubblica.
Si tratta di un fenomeno (negativo) di comunicazione sociale che sto studiando da anni nel linguaggio di coloro che parlano di filosofia. Anche tra i filosofi la retorica (l’ambiguità del linguaggio, la sollecitazione dei sentimenti più superficiali e degli ideali utopici, la restrizione mentale) sostituisce troppo spesso l’argomentazione razionale, l’onesta manifestazione dei principi dai quali si parte e dei fini che ci si prefigge. E sempre, quando si agisce con fini politici, l’arma della propaganda si basa sulla suggestione delle parole che ipostatizzano concetti astratti (la Storia, il Futuro, il Cambiamento, il Progresso, l’Apertura), nella speranza che il pubblico non si accorga che manca qualsiasi forma di coerenza logica tra questi termini e il “senso comune”, ossia l’esperienza esistenziale, concreta, di tutti gli uomini.
Analogamente, molti all’interno della Chiesa si servono della retorica per attuare i loro fini politici, e così facendo uniscono le loro forze alle forze politiche che dall’esterno combattono la vera Chiesa di Cristo. So benissimo che la retorica può essere anche finalizzata a veicolare idee buone (lo insegnava Aristotele molti secoli or sono), così come può essere buona anche la politica. Ma quando la retorica è l’arma che si adopera per trionfare in una discussione teologica come quella che riguarda i problemi della pastorale che il Sinodo sta affrontando, allora la politica (i fini) non può essere buona, perché la missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di “fare politica” ma di evangelizzare, santificare, governare in nome di Cristo stesso e con la sua grazia. Nemmeno sarà buona la retorica (i mezzi) perché gli insegnamenti della Chiesa non sono efficaci, non evangelizzano veramente, se non sono semplici, chiari e basati più sulla conoscenza (teologale) della volontà salvifica di Dio che sulla conoscenza (sociologica) della volontà di quei fedeli e di quei Pastori che esprimono le loro personali opinioni umane, di minoranza o di maggioranza che siano.
© La Nuova Bussola Quotidiana (10/10/2014)
RINO FISICHELLA AL “SINODO”: GESÙ UN LEGALISTA, LA CHIESA PRECONCILIARE NON POSSEDEVA LA VERITÀ
I cardinali Muller e Kasper. |
Molti studiosi italiani hanno messo in evidenza la deriva “anti-dogmatica”, o meglio “a-dogmatica” di questi discorsi, recepiti con entusiasmo (naturalmente!) dai media laicisti, dallaRepubblica al Sole24Ore e alla Stampa (qui scrive tra gli altri Gianni Vattimo, il filosofo del «pensiero debole», che già vent’anni fa chiedeva a gran voce un «cristianesimo senza papa e senza dogmi»). Io ne ho parlato approfonditamente nel mio trattato su Vera e falsa teologia(2012) e più recentemente pubblicando una raccolta di scritti del cardinale Giuseppe Siri che ho intitolato Dogma e liturgia (2014). Ma anche papa Benedetto XVI aveva sapientemente precisato che «pastorale e dogma s’intrecciano in modo indissolubile; è la verità di Colui che è a un tempo “Logos” e “Pastore”, come ha profondamente compreso la primitiva arte cristiana, che raffigurava il Logos come Pastore e nel Pastore scorgeva il Verbo eterno che è per l’uomo la vera indicazione della vita».
Sull’argomento è poi tornato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. In un libro-intervista che è uscito un mese fa contemporaneamente in Italia, in Spagna e negli Stati Uniti (l’edizione italiana, a cura dell’Ares, si intitola La speranza della famiglia), il porporato tedesco ha messo molto bene in evidenza il carattere a-dogmatico delle proposte di cambiamento della prassi ecclesiastica a riguardo del matrimonio e della famiglia.
Nel denunciare l’impossibilità di accettare quelle proposte – che, secondo Walter Kasper e tanti altri, sarebbero giustificate dai mutamenti sociali in atto e dall’insofferenza di molti fedeli alla morale cattolica – il cardinale Müller ha detto con grande precisione teologica: «Un semplice “adattamento” della realtà del matrimonio alle attese del mondo non dà alcun frutto, anzi risulta controproducente: la Chiesa non può rispondere alle sfide del mondo attuale con un adattamento pragmatico. Opponendoci a un facile adattamento pragmatico, siamo chiamati a scegliere l’audacia profetica del martirio. Con essa, potremo testimoniare il Vangelo della santità del matrimonio. Un profeta tiepido, mediante un adeguamento allo spirito dell’epoca, cercherebbe la propria salvezza, non la salvezza che solamente Dio può dare».
Sono stati tanti i cardinali (oltre al già citato Gerhard Ludwig Müller, ricordo Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, Walter Brandmüller, Thomas Collins e Raymond L. Burke) che hanno voluto pubblicare degli scritti per opporsi, con argomentazioni serene e soprattutto pertinenti, al tentativo di fare pressione sul Sinodo nella speranza di ottenere un pronunciamento della maggioranza dei centonovantuno padri sinodali e addirittura di papa Francesco a favore del cambiamento della prassi pastorale della Chiesa.
Ciò peraltro non è possibile che accada, perché costituirebbe un sostanziale cambiamento della Chiesa stessa, ossia l’avvento di quella nuova Chiesa a-dogmatica che da anni tanti cattivi maestri come Hans Küng e tanti falsi profeti come Enzo Bianchi vanno annunciando e preparando (preparando con l’annunciarla), senza peritarsi di attribuire allo stesso papa Francesco i loro disegni rivoluzionari. L’attuazione di tali disegni, per quanto riguarda la pastorale del matrimonio e della famiglia, comporterebbe l’abolizione dell’enciclica Humane vitae (Paolo VI) e dell’esortazione apostolica Familiaris consortio (Giovanni Paolo II), oltre naturalmente ai canoni del Concilio ecumenico di Trento sui sacramenti del Matrimonio, dell’Eucaristia e della Penitenza.
Insomma, ci sono solide ed evidenti ragioni per rassicurare quei fedeli che possono essere stati turbati da tante estemporanee e imprudenti esternazioni di alcuni teologi, sia veri (come Dionigi Tettamanzi) che presunti (come Gianfranco Ravasi), i quali si sono dichiarati convinti delle argomentazioni di Walter Kasper sulla necessità di riformare la pastorale. Io vado ripetendo a tutti di stare tranquilli, perché la fede e la speranza teologali ci assicurano dell’indefettibilità della Chiesa, garantita da Cristo stesso, e ciò vuol dire che nessuna maggioranza sinodale (e tanto meno una minoranza, per quanto vociante) finirà per imporre al papa l’autodistruzione della Chiesa, che Cristo gli ha affidato per governarla in suo nome, come suo Vicario.
Ma prima, oltre a queste considerazioni propriamente teologiche, ho voluto citare una frase del cardinale Gerhard Ludwig Müller perché serve a integrare il discorso con l’opportuno richiamo alla categoria logico-retorica del “pragmatismo”. Il pragmatismo è infatti la versione “performativa” (ossia, operativa) del relativismo, sotto la cui dittatura viviamo ufficialmente dai tempi di papa Benedetto XVI, che la denunciò vigorosamente. L’«adattamento pragmatico» di cui parla Müller consiste nell’adattare la Chiesa alle (presunte) nuove istanze dei fedeli, e anche degli infedeli, ai quali si vuol apparire dialoganti sempre e a ogni costo. Ciò implica la decisione di mettere in soffitta il dogma, appellandosi alle sole (presunte) esigenze di azione pastorale nella liturgia, nella catechesi, nell’amministrazione dei sacramenti. Si dice infatti e si ripete che «la dottrina non viene toccata ma si affrontano le sfide della società di oggi». In altri termini, la dottrina da una parte e la pastorale dall’altra. Qualcosa come “i commenti separati dalle notizie”, come dicevano i settimanali politici di un tempo.
Ma che cosa vuol dire in concreto, che «la dottrina resta immutata mentre la pastorale deve cambiare per adeguarsi ai tempi»? Prima ancora di discutere se questa affermazione è ortodossa, bisogna chiedersi se ha senso. La risposta che io, come studioso di logica e di filosofia del linguaggio, ritengo che si debba dare è che frasi di questo genere non hanno di per sé alcun senso.
In effetti, la pastorale è un insieme di decisioni, di iniziative, di scelte, insomma di azioni, i cui soggetti sono persone consapevoli e (si spera) responsabili. Ora, qualunque azione umana, sia di un singolo come privato sia di un singolo come rappresentante di un’istituzione, è regolata intrinsecamente – a rigor di logica, e dalla logica non si scappa – da un’intenzione, da un criterio, quindi in definitiva da dei principi, dunque da una dottrina. Di conseguenza, quando certi teologi e anche certi ecclesiastici con autorità episcopale dicono che cercano soluzioni “pastorali” diverse da quelle che la Chiesa ha adottato finora, e aggiungono che però non intendono cambiare la dottrina, dicono una cosa assolutamente illogica, una cosa che essi vorrebbero fosse presa per buona (ossia, come un’ipotesi plausibile) da parte del pubblico al quale si rivolgono, ma che loro per primi sanno che non ha alcun senso. In realtà quelle frasi sono mera retorica, una cortina fumogena che serva a nascondere i veri obiettivi, i fini reali dei cambiamenti che si vogliono attuare.
Non posso certamente sapere che cosa costoro hanno in mente e nella coscienza, ma – stando alla logica dei fatti (e i discorsi sono anch’essi dei fatti) – le possibilità sono solo due: o quelle frasi nascondono l’intenzione di cambiare davvero la dottrina, ma senza dirlo esplicitamente (il che sarebbe proprio da ipocriti, e quindi certamente non è il caso delle persone cui mi riferisco); oppure nascondono un’intenzione che in astratto può apparire meno eterodossa ma in pratica costituisce una minaccia grave per la fede cattolica: l’intenzione di lasciare la dottrina della Chiesa così com’è, senza introdurre cambiamenti formali ma senza nemmeno applicarla alla vita della Chiesa, il che significa cominciare (o continuare) ad agire nella prassi pastorale secondo altri principi e altri criteri: altri principi e altri criteri, che allora sarebbero non-dottrinali, estranei cioè al dogma, quindi indipendenti da quello che Dio ha rivelato come verità salvifiche e che ogni fedele è tenuto a credere nel proprio cuore, a professare esteriormente e a vivere personalmente. Quindi non si tratterebbe di criteri teologici ma di criteri umani, sostanzialmente politici, come si deduce dal linguaggio usato nei loro messaggi e dai mezzi adoperati per diffonderlo nell’opinione pubblica.
Si tratta di un fenomeno (negativo) di comunicazione sociale che sto studiando da anni nel linguaggio di coloro che parlano di filosofia. Anche tra i filosofi la retorica (l’ambiguità del linguaggio, la sollecitazione dei sentimenti più superficiali e degli ideali utopici, la restrizione mentale) sostituisce troppo spesso l’argomentazione razionale, l’onesta manifestazione dei principi dai quali si parte e dei fini che ci si prefigge. E sempre, quando si agisce con fini politici, l’arma della propaganda si basa sulla suggestione delle parole che ipostatizzano concetti astratti (la Storia, il Futuro, il Cambiamento, il Progresso, l’Apertura), nella speranza che il pubblico non si accorga che manca qualsiasi forma di coerenza logica tra questi termini e il “senso comune”, ossia l’esperienza esistenziale, concreta, di tutti gli uomini.
Analogamente, molti all’interno della Chiesa si servono della retorica per attuare i loro fini politici, e così facendo uniscono le loro forze alle forze politiche che dall’esterno combattono la vera Chiesa di Cristo. So benissimo che la retorica può essere anche finalizzata a veicolare idee buone (lo insegnava Aristotele molti secoli or sono), così come può essere buona anche la politica. Ma quando la retorica è l’arma che si adopera per trionfare in una discussione teologica come quella che riguarda i problemi della pastorale che il Sinodo sta affrontando, allora la politica (i fini) non può essere buona, perché la missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è di “fare politica” ma di evangelizzare, santificare, governare in nome di Cristo stesso e con la sua grazia. Nemmeno sarà buona la retorica (i mezzi) perché gli insegnamenti della Chiesa non sono efficaci, non evangelizzano veramente, se non sono semplici, chiari e basati più sulla conoscenza (teologale) della volontà salvifica di Dio che sulla conoscenza (sociologica) della volontà di quei fedeli e di quei Pastori che esprimono le loro personali opinioni umane, di minoranza o di maggioranza che siano.
© La Nuova Bussola Quotidiana (10/10/2014)
RINO FISICHELLA AL “SINODO”: GESÙ UN LEGALISTA, LA CHIESA PRECONCILIARE NON POSSEDEVA LA VERITÀ
L’imbarazzante “sinodo” sforna, giorno dopo giorno, un campionario di modernismo da far arrossire perfino Martin Lutero.
Oggi è il turno di Rino Fisichella, stipendiato come presidente del fumettistico“Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione”.
«Avrei un'idea per uscire dall'impasse...», dice l’“arcivescovo teologo”.
In epoche gloriose per la Chiesa, quando un arcivescovo aveva un’idea solitamente si poteva gioire ancor prima di sentirla. Oggi non è più così, non lo è quasi sicuramente almeno dal giorno 7 dicembre 1965, data della promulgazione del documento Dignitatis Humanae (la dignità dell’uomo ed il primato della libertà di culto e di coscienza), capolavoro di modernismo; testo in odore di eresia che fu rigettato, con parere negativo, da una settantina di vescovi, i quali si rifiutarono di firmarlo (qui maggiori informazioni).
Secondo Fisichella: «I lavori si svolgono in un clima positivo, si percepisce la cattolicità della Chiesa, entrando in aula bisogna dimenticare la propria nazionalità altrimenti non ci si sintonizza con gli altri». A dire il vero la Chiesa, nelle sue note distintive che le danno riconoscibilità, una - santa - cattolica ed apostolica, sembra essere assente quasi del tutto. L'universalità è di dottrina non solo in base alla diversità dei paesi di provenienza dei presenti. Allora alle riunioni mondiali dei protestanti si respira cattolicità? Questo intende dire Fisichella. E' evidente!
C’è di più, Fisichella denigra la Chiesa che va da san Pietro a Pio XII con questa affermazione: «La Chiesa non è estranea ai problemi che vivono uomini e donne del nostro tempo. Questo cammino è il frutto di decenni, è un atteggiamento che risale al Concilio Vaticano II, poi ripreso da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, il quale nell'enciclica "Redemptor hominis" ha detto la Chiesa nel cammino verso l'uomo non può essere fermata da niente e da nessuno. Francesco non fa che portare alle più immediate e visibili conseguenze quello che è il sentire della Chiesa». Secondo Fisichella, dunque, prima del CVII (“conciliabolo”) la Chiesa sarebbe stata estranea ai problemi che vivono uomini e donne, si sarebbe fatta fermare, avrebbe avuto un “sentire” non cattolico. La diffamazione è evidente, mi si perdoni la semplice ma automatica riflessione. Se oggi è così, prima non lo era, è chiaro cosa intende sostenere Fisichella. Menomale che sono arrivati loro adesso!
I modernisti riuniti nel “sinodo” sembrano essersi ben organizzati per occultare l’eresia con sofismi ed eleganza di stile. Dice difatti il “monsignore”: «Non ho ascoltato neanche un intervento in aula che mettesse in dubbio la dottrina sull'indissolubilità. Questo Sinodo è chiamato a dare delle prime risposte in vista del cammino che porterà al Sinodo ordinario, sullo stesso tema della famiglia, in programma per l'ottobre 2015».
A questo punto scopre le carte aprendo anch’egli alla fantomatica pastorale (eretica) che, a detta di molti, sarebbe possibile (in chiave ermeneutica) e non arrecherebbe alcun danno alla dottrina. Si legge nelle sue dichiarazioni: «La vera preoccupazione è pastorale: come dare il segno dell'accoglienza, di una Chiesa che è chiamata a camminare accompagnando gli uomini e le donne di oggi, senza escludere nessuno, rimanendo nell'insegnamento di Gesù? Questa è la vera sfida. Tutti abbiamo chiara consapevolezza dei principi fondamentali, ma dobbiamo essere capaci di trovare dei linguaggi, delle forme, delle espressioni e dei comportamenti che siano più possibile segno di vicinanza della Chiesa e non di esclusione. Tutti percepiamo il grande divario che intercorre tra la proposta culturale maggioritaria presente nel mondo globalizzato di oggi, e la proposta cristiana sul matrimonio e la famiglia».
Fisichella evidentemente non ha mai letto un documento di Magistero e/o di evangelizzazione che va da san Pietro a Pio XII. Tutti scritti chiari, con un linguaggio comprensibile, aperti alla condivisione ed appunto di grande evangelizzazione. Faccio presente al monsignore, dall’etimologia antica del termine stesso, che non è la Chiesa che esclude, bensì è chi la rigetta che si esclude volontariamente, proprio come fece Lutero l’eresiarca dopo la Exsurge Domine di Leone X.
Probabilmente auto-compiacendosi, ribadisce le sue competenze ed il suo ruolo, per di più alterando il significato delle parole di san Vincenzo: «Nella mia vita ho fatto il teologo e faccio il pastore, e cerco di coniugare la mia azione pastorale con l'intelligenza della fede. Vivo della dimensione espressa da un principio che è quello di Vincenzo da Lerίns, che nel V secolo affermava: chi potrebbe non amare la chiesa a tal punto da non vedere uno sviluppo nella sua dottrina?». Quindi Fisichella come san Vincenzo. Complimenti, si è auto canonizzato.
Prosegue negando il dogma come la Chiesa lo ha sempre insegnato, elogiando il CV2 che sarebbe alla base di questo mutamento. Afferma: «Il progresso, lo sviluppo non è l'alterazione dei contenuti della fede. Spiegava anche che bisogna preoccuparsi perché sia conservato ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto. Questo è il criterio fondamentale non per cambiare ma per creare il progresso, per non alterare ma per evidenziare lo sviluppo della dottrina. Certo se noi pensiamo al cammino compiuto dalla Chiesa sul tema della coscienza, o su quello della libertà religiosa - che ancora oggi crea non pochi problemi in alcuni settori della stessa Chiesa - è ovvio che il Concilio Vaticano II ha fatto fare un balzo in avanti».
Noi cattolici, invece, sappiamo che Pio XII nella Humani Generis, ultimo documento antimodernista che conosciamo, dice: «Si aggiunge a ciò un falso "storicismo" che si attiene solo agli eventi della vita umana e rovina le fondamenta di qualsiasi verità e legge assoluta sia nel campo della filosofia, sia in quello dei dogmi cristiani […]Noi sappiamo bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere si guardano da tali errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai tempi apostolici, coloro che, amanti più del conveniente delle novità e timorosi di essere ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest'epoca di progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro Magistero […] Si nota poi un altro pericolo, e tanto più grave, perché si copre maggiormente con l'apparenza della virtù. Molti, deplorando la discordia e la confusione che regna nelle menti umane, mossi da uno zelo imprudente e spinti da uno slancio e da un grande desiderio di rompere i confini con cui sono fra loro divisi i buoni e gli onesti; essi abbracciano perciò una specie di "irenismo" […] E come un tempo vi furono coloro che si domandavano se l'apologetica tradizionale della Chiesa costituisse più un ostacolo che un aiuto per guadagnare le anime a Cristo, cosi oggi non mancano coloro che osano arrivare fino al punto di proporre seriamente la questione […]affinché si possa propagare con più efficacia il regno di Cristo in tutto il mondo, fra gli uomini di qualsiasi cultura o di qualsiasi opinione religiosa. […] Questo Magistero viene da costoro fatto apparire come un impedimento al progresso e un ostacolo per la scienza; da alcuni acattolici poi viene considerato come un freno, ormai ingiusto […] Queste affermazioni vengono fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità [difatti] parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse».
Altro che «pastorale per evidenziare lo sviluppo della dottrina». Davanti alle questioni dogmatiche, una pastorale che si discosta dal Magistero è un’inaccettabile eresia che non può avere come autore la Chiesa (cf. Orientalis Ecclesiae, Pio XII, 9 aprile 1944). Se ne facciano una ragione sia Fisichella che i divulgatori di dottrine varie, vaghe ("concilio" pastorale non dogmatico - sic!) e di presunta ermeneutica.
Sempre noi cattolici abbiamo come punto di riferimento sulla specifica questione la cost. dogm. Dei Filiusche così termina: «La dottrina della fede che Dio rivelò non è proposta alle menti umane come una invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata consegnata alla Sposa di Cristo come divino deposito perché la custodisca fedelmente e la insegni con magistero infallibile. Quindi deve essere approvato in perpetuo quel significato dei sacri dogmi che la Santa Madre Chiesa ha dichiarato, né mai si deve recedere da quel significato con il pretesto o con le apparenze di una più completa intelligenza. Crescano dunque e gagliardamente progrediscano, lungo il corso delle età e dei secoli, l'intelligenza e la sapienza, sia dei secoli, sia degli uomini, come di tutta la Chiesa, ma nel proprio settore soltanto, cioè nel medesimo dogma, nel medesimo significato, nella medesima affermazione». (Pio IX, Concilio Vaticano, 24 aprile 1870)
Altro che «balzo in avanti» fatto dal CV2 e «criterio fondamentale non per cambiare ma per creare il progresso». Fisichella con le sue parole evidentemente vuol promanare dottrine eretiche riesumate dal modernismo (già esplicitamente condannate dalla Chiesa, es. Quanta cura, Pascendi, Mortalium animos, ecc...) e che ormai sembrano prevaricare nella mente della maggior parte dei cattolici (soggetti poco informati). Persone che con l'8x1000 continuano a stipendiare questi presunti usurpatori, i quali si accreditano perché dicono ciò che piace ad un mondo prossimo all'agnosticismo di massa.
Fisichella apre al peccato mortale legittimando ciò che è vietato da Dio: «Bisogna verificare, ad esempio, se chi vive in un'unione di fatto, la considera un punto di partenza o il punto di arrivo. Se è il punto di partenza, ovvio che c'è lo sguardo di accompagnamento e dialogo, se è solo il punto d'arrivo dobbiamo far comprendere a queste persone conviventi che questa non è la tappa finale». Pertanto l’unione civile che si accompagna normalmente con la convivenza, sarebbe un buon «punto di partenza». Egli sostiene inoltre che «oggi noi siamo dinnanzi a una tale pluralità di proposte che è difficile riportarle ad unità. Il matrimonio civile non è la convivenza, sono due realtà differenti». Si presume, leggendo le sue elucubrazioni, che esiste una convivenza buona ed una cattiva. Lui e quelli come lui dovranno decidere se tale convivenza sarà buona o cattiva. Andiamo bene! Un mio conoscente play boy ha fatto esperienza in decine di convivenze ed unioni (talvolta civili), sempre con buone intenzioni. Può stare tranquillo, pertanto, le sue intenzioni erano buone, non ha commesso alcun peccato, non c'è bisogno che si confessi, prosegua così. Scemo io che cercavo di fargli cambiare approccio alla vita coniugale.
La «mia teologia», dice «non è figlia della casistica», «la ha superata». Poi la stoccata: «Io penso che il matrimonio abbia subito un eccesso di accentuazione canonistica, e quindi legale, cadendo molte volte nel legalismo, che ha adombrato invece la dimensione sacramentale. Un recupero di quest'ultima dimensione credo potrebbe favorire l'individuazione di soluzioni differenti, pur in continuità con la dottrina originaria». Pertanto il sacramento del matrimonio come noi lo conosciamo (dall’AT al NT), con Gesù, poi san Pietro e così via fino a Pio XII, avrebbe «accentuazioni canonisti che», Gesù e la Chiesa sarebbero caduti «molte volte nel legalismo», proprio come i farisei. Peccato che il matrimonio è uno dei due sacramenti che richiede necessariamente la giurisdizione (oggi supplita), proprio perché la Chiesa si fa giudice del legame, così come è sin dal principio. Proprio Pio XII avvertiva che sulla base di «un concetto vago che essi dicono preso dagli antichi», i modernisti riducendo «in tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell'immanentismo, sia dell'idealismo, sia dell'esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema» (Cf. Humani Generis).
Proprio di immanentismo si tratta, lo apprendiamo dalle successive dichiarazioni di Rino Fisichella: «allora torniamo al primato della coscienza, sulla quale niente e nessuno può intervenire».
Usa la Scrittura a suo piacimento: «Gesù dice che i peccati contro il Figlio dell'Uomo saranno perdonati […] Credo che […] si tratti dei peccati di ignoranza […] nella seconda Lettera ai Corinzi, l'apostolo ritorna sul caso [dell’incestuoso] e dice a quella comunità: voi lo dovete perdonare, lo dovete accogliere nuovamente». Dimenticandosi di avvisare i popolani che esiste un’ignoranza vincibile o colpevole ed una invincibile. Nel caso degli adulteri (oggi li chiamano “divorziati risposati”) non c’è invincibilità che tenga, poiché il dato è chiaro e chi dovesse trascurare di informarsi è ugualmente colpevole. Inoltre la Scrittura insegna che la Chiesa accoglie chi riconosce l’errore e, convertendosi, lo rigetta rimediando allo scandalo (soddisfazione). Come scrissi molti mesi fa, apprese indiscrezioni sul “sinodo”, con la logica dei “padri sinodali” si finirà col devastare 3 sacramenti: penitenza, matrimonio, eucaristia. Grazie a Dio gli scritti degli eretici non fanno Magistero e chi li promulga non è papa. La Chiesa è stata sempre molto esplicita a riguardo (cf. Pastor Aeternus, Pio IX). Se la Chiesa dovesse macchiare la sua immacolata dottrina approvando e divulgando documenti eretici, le porte degli inferi avrebbero prevalso. Possiamo quindi stare sereni: tutto ciò che è eretico, non proviene dalla Chiesa e non è promulgato da autorità in atto, bensì solo da usurpatori in attesa di giudizio canonico.
La Chiesa, secondo Fisichella, non sarebbe neanche giudice nei casi gravi di sodomia e di coppie contro natura. Sull’esperienza della coppia gay: «Non facciamo dietrologie e soprattutto non roviniamo la bellezza di una testimonianza di vita vissuta nella quotidianità […] la Chiesa accoglie tutti come una madre e non come un giudice». La penitenza, altro sacramento che richiede la giurisdizione (oggi supplita), vuole invece proprio che la Chiesa sia giudice del reo.
Contro Gesù Cristo (Via Verità Vita), contro la Chiesa (Magistero infallibile e verità immacolata da credersi) Fisichella chiude in questo modo: «nessuno tra di noi pretenda di avere la verità in tasca». Rilancia così K. Wojtyla (Fides et ratio): «la verità raggiunta è sempre una tappa che spinge oltre e quindi che ci spinge a ricercare ancora di più quello la dimensione di una coerente presenza nella Chiesa nel mondo di oggi».
Quindi Gesù sarebbe un legalista, la Chiesa non avrebbe custodito la verità per quasi 2000 anni e dovevano arrivare lui, Bergoglio e Wojtyla per farci capire che «nessuno tra di noi pretenda di avere la verità in tasca». Possiamo, secondo questa logica, stracciare tutti i costosi testi di Magistero ed i Catechismi preconciliari che abbiamo, nonché tutta la letteratura dei Santi e dei Dottori, dei teologi cattolici e così via. Quanto denaro sprecato!
Sono veramente rammaricato per il dolore che provano tanti amici che, pur comprendendo la gravità della situazione con evidenza estrema e piena consapevolezza, probabilmente per conservare alcuni privilegi o per testardo principio preso (o per altri motivi di foro interno che solo Dio e loro conoscono), si ostinano a vivere “una cum” (in comunione di fede e governo) con tali soggetti. Credo che non sia felice una vita di contraddizione.
Intervista estrapolata da Vatican Insider.
CdP Ricciotti
PASSERANNO IL CIELO E LA TERRA MA LE MIE PAROLE NON PASSERANNO MAI..............coraggio rimaniamo nella verità....e Gesù ci salverà da questi tempi di tenebra che hanno corrotto anche gli eletti !!!!!
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