Vaticano: lo spartito dell'arcivescovo Gallagher, amante dei Beatles e nuovo ministro degli esteri di Papa Francesco
Let it be: così sia. Quando nel 1970 i Beatles pubblicavano “Let it be”, ultimo disco e amen di una folgorante carriera, il nuovo ministro degli esteri vaticano Richard Gallagher, primo inglese a dirigere il “Foreign Office” del Palazzo Apostolico, era un teenager di Liverpool cresciuto nel mito della band - nata peraltro in una parrocchia - senza immaginare che quelle parole, un giorno, sarebbero diventate il manifesto geopolitico di un Papa.
“And when the broken hearted people living in the world agree, there will be an answer, let it be”. L’auspicio che i “cuori spezzati” e i feriti della terra si mettano insieme, per far saltare il tavolo e ricomporre su basi egalitarie il mosaico globale, esprime sonoramente, gagliardamente lo spirito ribelle di Bergoglio. Un Papa descamisado e senza mozzetta, che al di là di una fanciullesca curiosità personale soffre manifestamente i meeting con i potenti e alla tribuna di Strasburgo preferisce il molo di Lampedusa, i campesinos veri ai peones caricaturali di una democrazia “sequestrata” dai poteri forti, agitando la fionda di Davide contro i santuari del dio denaro.
Tuttavia i suddetti, e sovrastanti, poteri nel frattempo continuano a governare il pianeta e c’è bisogno di un interlocutore in grado di dialogare con loro. Pena la irrilevanza di una potenza quale la Santa Sede nei cenacoli dove si decide il destino dei popoli. O peggio ancora si decide di non decidere, come in Medio Oriente.
Né può bastare per quanto suggestivo il raduno dell’8 giugno, sera di Pentecoste, sul “monte della trasfigurazione” dei Giardini Vaticani, con Peres e Abu Mazen, sotto le luci della mondovisione, rimbalzando world-wide l’abbaglio di un nuovo inizio. Poiché all’indomani accade che la nube splendente si ritragga e il paesaggio della regione, anziché trasformarsi nell’oasi di pace dei due stati, ebraico e palestinese, materializzi in sequenza la Terza Guerra di Gaza e la Terza Intifada.
Sulla Chiesa, come abbiamo scritto con paragone irriverente ma suadente, incombe il paradosso del cavallino rampante. Alla stregua della Ferrari, che primeggia sui mercati e tra i marchi aziendali, ma non taglia i traguardi del mondiale, il pontificato di Francesco avanza e guadagna posizioni tra la gente, spinto dalla benzina che il Papa inietta nei cuori, mentre la macchina diplomatica, di converso, segna il passo sui circuiti geopolitici. Dalle terre di Abramo e di Gesù, dove il “brand” è sorto e perde terreno, fino al “gran premio” di Cina, il più ambito, in cui è fermo ai box dopo una serie di false partenze.
Gallagher eredita la bacchetta dell’orchestra considerata un tempo la migliore, succedendo sul podio al francese Dominique Mamberti. Questi, nominato nel 2006 da Benedetto XVI, ha cercato con modesti risultati di tradurre in azione politica l’effervescenza del cardinale Bertone, tra lo scetticismo dei nunzi apostolici, gli ambasciatori pontifici, che imputavano al Segretario di Stato salesiano, estraneo ai loro ranghi, un peccato originale di goliardia e improvvisazione.
Con l’avvento di Pietro Parolin, Bergoglio ha restituito ai nunzi la guida del governo, ma non la supremazia preponderante di cui godevano, restringendone la sfera d’influenza nei confini professionali degli affari esteri e ponendo robusti paletti agli sconfinamenti. Con la riforma del 24 febbraio quello vaticano è divenuto infatti uno dei pochi, forse l’unico sistema costituzionale in cui un ministro dell’economia, nella persona dell’australiano George Pell, assurge a pari grado del “premier” Parolin e, seppure tenuto a collaborare con lui, riporta direttamente al Papa.
Traversando la Manica e transitando da Mamberti a Gallagher, la diplomazia ecclesiastica subisce una importante metamorfosi facendosi anglofona, empirica, euroscettica. Di quest’ultima attitudine avremo presto un saggio a Strasburgo il 25 novembre, nell’atteso discorso al parlamento dell’Unione, quando per la prima volta un papa guarderà l’Europa da fuori, non da dentro. Extraeuropeo non solo per provenienza, ma per la sua visione rispetto ai pontificati di Wojtyla e Ratzinger, entrambi eurocentrici anche se assai diversi, estroflesso il primo, ripiegato su se stesso il secondo.
Riguardo poi all’empirismo made in Britain, esso tornerà sicuramente utile a monsignor Gallagher quando si dovrà muovere sui carboni ardenti del Grande Medio Oriente, da Istanbul al Golfo. In primo luogo ad Ankara, nella reggia del neopresidente Erdoğan, dove sta per andare in scena un inedito della storia, con il papa che spinge un sultano alla “crociata” contro un califfo. Ma soprattutto a Teheran, nello sforzo di arruolare gli ayatollah e nella speranza, dichiarata in concistoro da Parolin, non tanto di migliorare quanto addirittura di “moltiplicare” le loro relazioni con la comunità internazionale. Insomma un reintegro a pieno titolo, che tuttavia stride con l’esecuzione brutale il 25 ottobre della giovane Reyaneh Jabbari, indignando il mondo e ignorando l’appello di Francesco, proprio all’indomani di una vibrante invettiva contro la pena di morte. A riprova delle insidie che si nascondono sotto il “tappeto persiano”, nonostante la volontà della Santa Sede di proseguire su questa strada, peraltro priva di alternative. Un’alleanza, quella con l’Iran, che preoccupa non poco Netanyahu ma che portata avanti da un inglese assume un connotato più pragmatico, scevra dal sospetto di ataviche simpatie verso l’Islam, che investiva Mamberti, nato in Marocco.
Infine la lingua. Non solo questione di accento, ma di significati. Gallagher fungerà da interprete verso le cancellerie delle nazioni anglosassoni, determinanti nell’avvento al soglio dell’arcivescovo di Buenos Aires, attraverso il sostegno dei propri porporati, ma culturalmente distanti dal vocabolario politico sudamericano, che a loro suona populista o rivoluzionario. Restie dunque a comprendere fino in fondo o a prendere sul serio talune affermazioni del Papa.
La mossa dell’argentino Bergoglio, che sceglie di affidare a un britannico il dicastero degli esteri, costituisce in tal senso un capolavoro di astuzia gesuitica, suscettibile di avviare a soluzione perfino la trentennale vicenda delle Falkland – Malvine.
Dal giorno in cui la “presidenta” Cristina Kirchner, subito all’indomani del conclave, ha invocato la mediazione di Francesco, per uno sfruttamento congiunto delle ingenti risorse petrolifere sottomarine, l’arcipelago si staglia come uno scoglio lungo il tragitto della barca di Pietro. Non fosse altro per l’omelia che il futuro pontefice aveva pronunciato appena un anno prima, definendo le isole una parte “usurpata” della patria e ricevendo a furor di popolo l’appellativo di cardinale “malvinero”.
Un rivendicazionismo che il Papa ovviamente ha deposto nella “stanza delle lacrime”, la sacrestia della Sistina, rivestendo un habitus universale, ma che a Londra non hanno dimenticato, declinando seduta stante la ipotesi di mediazione. Che oggi tuttavia potrebbe essere ripresa e rilanciata, se a condurla per suo conto fosse l’inglese Gallagher. Scenario che farebbe inorridire Margaret Thatcher, la quale mandò i sommergibili nucleari a sgombrare l’Atlantico, ma non un conservatore dal sound postmoderno come David Cameron, nato nel 1966. Giusto l’anno nel quale i Beatles cantavano di un “sottomarino giallo”, in cui ciascuno trova ciò che gli serve e, a volerlo, ci può essere posto per tutti: “We all live in a yellow submarine, yellow submarine, yellow submarine”.
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