La decadenza della musica sacra: prima e dopo il Concilio
Nella
festa di Santa Cecilia, Mattia Rossi, esperto e studioso di musica
sacra, collaboratore de “Il Foglio”, inizia a scrivere anche per Radio
Spada. Gli porgiamo il nostro più caloroso benvenuto.
Cercherò di essere il più “tagliente ma puntuale” possibile:
pensare che il canto gregoriano stia vivendo la sua stagione di
dannazione esclusivamente dal 1969 ad oggi, mentre prima, nel
pre-Concilio, era tutto un germogliare di melismi, di pes subbipunctis, torculus ritorti e salicus quilismatici
in una pura e intatta tradizione risalente a Carlo Magno, ecco, a
credere questo ci si sbaglia di grosso. E’ un discorso, forse, non molto
gradito in ambiente “tradifriendly”, ma affinché la critica dell’“oggi”
possa risultare costruttiva occorre, per forza, voltarsi indietro e
osservare il passato per trarne qualche proficua lezione.
Certo, è innegabile che l’oblio che il gregoriano e la musica liturgica hanno subìto
a partire dalla riforma di Paolo VI in avanti rappresenti qualcosa di
mai visto (lungi da me il ritenere ciò, anzi!), ma il credere – come
avviene in una certa forma di grezzo tradizionalismo esteta – che la
musica liturgica nell’età dell’oro preconciliare fosse scevra di
disordini e porcherie è, quantomeno, difficilmente sostenibile. Per
giungere a comprendere quale era lo stato della “coscienza” ecclesiale
in merito al canto gregoriano – etichetta, a dire il vero, alquanto
generica, ma che per ora prendiamo per valida – alla vigilia del
Vaticano II, occorre fare un salto all’indietro di quasi tre secoli e
mezzo.
Eh sì, perché il gregoriano è stato vittima di un primo letale stupro
(e ci riferiamo, qui, solamente all’epoca moderna) non grazie alla mano
fatata della “pastoralità” postconciliare, che ne ha, casomai,
decretato il trapasso, ma in piena epoca post-tridentina. Nel 1614,
infatti, venne pubblicata la cosiddetta “Editio Medicea” del Graduale
con l’imprimatur di Paolo V: gli esteti rinascimentali, rifacendosi alla
metrica quantitativa del latino classico, decretarono che anche il
canto gregoriano dovesse rispondere a simili requisiti. Così, le melodie
vennero arbitrariamente “corrette” e i melismi su sillaba finale quasi
totalmente tagliati. Ne risultò un canto “costruito a tavolino”,
artificioso, e tanto monotono da poter esser davvero un cantus planus.
Quest’edizione, che inizialmente si spacciò falsamente come curata da Palestrina,
venne ristampata ancora nel 1870 a Ratisbona e su tale edizione la
Santa Sede pose un privilegio editoriale. Fu così che l’opera di
restaurazione dei monaci di Solesmes, in corso proprio in quegl’anni,
avvenne quasi “illegalmente” in quanto furono impossibilitati a
pubblicare ufficialmente le loro scoperte con il patrocinio di Roma,
custode del canto fiorito all’ombra delle cattedrali.
Fu dom Prosper Guéranger (1805-1875)
a inaugurare la stagione di rinascita del gregoriano. Egli, dopo
l’interruzione risalente alla Rivoluzione francese, ristabilì la vita
del proprio monastero sotto la Regola di san Benedetto all’insegna di un
semplice “manifesto”: «Cercare dovunque ciò che si pensava, ciò che si
faceva, ciò che si amava nella Chiesa nelle età della fede». Questo lo
spinse a concentrarsi quasi esclusivamente sulla liturgia e,
inevitabilmente, sul canto gregoriano.
Nel filone di ricerca inaugurato da dom Guéranger si inserirono,
successivamente, due monaci, dom Joseph Pothier (1835-1923) e dom André
Mocquereau (1849-1930), i quali riuscirono ulteriormente nell’intento
di restituire le melodie corrotte della “Medicea” ad una versione molto
più vicina all’originale: il primo con la stampa, nel 1883, di un nuovo Graduale, il secondo, nel 1889, con l’inizio della pubblicazione della Paléographie Musicale,
opera tuttora in corso che riproduce anastaticamente i più importanti
manoscritti musicali medievali. Ma l’opera di restaurazione, come
dicevo, doveva fare i conti con un impensabile ostacolo: l’edizione
ratisbonense. Anzi, in taluni casi, anche in questi anni, la Chiesa non
esitò ad agire in maniera drastica nei confronti di coloro che si
occupavano “scomodamente” del gregoriano: padre Angelo De Santi, un
gesuita che cominciò ben presto ad accorgersi quanto l’edizione Pothier
fosse sicura, venne allontanato da Roma e la Santa Sede continuò ad
imporre ai vescovi l’edizione ufficiale ratisbonense.
Ma a
questo punto – ed è qui che si innesta una basilare differenza con la
Chiesa conciliarista che avalla ogni scempio senza intervenire e
sanzionare – si inserì l’elezione al Soglio di Pio X.
L’operato dei monaci solesmensi, dopo anni di opposizione, conobbe un
vitale impulso – e, in un certo senso, ne fu l’approvazione – dalla
Santa Sede: il 22 novembre 1903, Papa Sarto promulgò il motu proprio Inter sollicitudines
nel quale, contemporaneamente alla messa al bando del melodramma e
della musica operistica in chiesa, riconosceva nel canto gregoriano il
«supremo modello» (n. 3). Fu, dunque, istituita un’apposita Commissione
Pontificia con il compito di curare nuove edizioni rivedute del
repertorio gregoriano: il Graduale Romanum, contenete il repertorio della messa, uscì nel 1908, e l’Antiphonale Romanum,
con il repertorio dell’Ufficio, nel 1912. Il gregoriano, e con esso la
musica liturgica, vivendo una situazione di “esilio” nella Chiesa
ottocentesca, ma, grazie all’intervento della stessa Chiesa, ritornò ad
avere piena cittadinanza e la ricerca scientifica piena legittimazione.
La ricerca gregoriana è proseguita
sino ad arrivare negli anni immediatamente postconciliari (non scevri,
occorrerà dire anche questo, da un certo dilagamento di facili
musichette dal sapore troppo ceciliano). Infatti, per la mancanza degli
strumenti e delle conoscenze necessari, la ricerca solesmense, una volta
riconsegnato il patrimonio originale di melodie, si era arrestata di
fronte al significato preciso della notazione dei manoscritti: quale
senso avevano tutti quei segni (i neumi) che costellavano i manoscritti?
E perché per identici movimenti melodici corrispondevano, a volte,
anche cinque o sei segni?
E’ negli
anni conciliari, dunque, che si inserisce l’operato di dom Eugène
Cardine (1905-1988). Egli, docente al Pontificio Istituto di Musica
Sacra di Roma dal 1952 e membro della Commissione preparatoria liturgica
del Vaticano II, negli anni Sessanta chiarì il preciso significato di
ogni forma neumatica pubblicando i suoi appunti nel 1968 nella Semiologia gregoriana:
la lettura dei neumi (semiologia) mostrò come essa sfociava
direttamente sull’interpretazione ritmica della Parola cantata. In quei
segni, fino ad allora incomprensibili, è invece racchiuso tutto il
pensiero gregoriano. La situazione, dunque, è paradossale:
proprio negli anni in cui la ricerca gregoriana arrivava a compimento e
la mente di dom Cardine offriva alla Chiesa la piena interpretazione
della Scrittura veicolata dal suo canto, essa lo stava per tradire condannandolo ad un’eclissi pressoché totale.
In
conclusione della presente riflessione, possiamo notare come il panorama
liturgico-musicale preconciliare non fosse del tutto esemplare, ma era
esemplare, per contro, l’atteggiamento della Chiesa di Pio X che in tale
campo che non ha mai cessato di intervenire. E invece, proprio quando
poteva vantare tra le mani, sul finire degli anni Sessanta, proprio in
concomitanza della promulgazione del nuovo Missale Romanum, un suo tesoro ritrovato dopo anni e anni di occultamento, la
Chiesa ha preferito gettare alle ortiche la sua Tradizione musicale
rinunciando, ed è sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere, alla sua
autorità e al suo munus di Madre e Maestra.
Mattia Rossi
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