Nello scontro tra Germania e Africa la chiave di interpretazione del Sinodo
Il 19 novembre 1964, la bozza del testo della Dichiarazione sulla Libertà di Religione, del Consiglio Vaticano II, venne improvvisamente eliminata dall’agenda e un voto su di essa rimandato per un anno. L’annuncio di questa decisione inaspettata, causata dalla richiesta di vescovi italiani e spagnoli, che si pensava fossero contrari alla Dichiarazione, portò a una situazione caotica. Una petizione a Papa Paolo VI venne rapidamente redatta e firmata da centinaia di padri conciliari, che chiedevano al papa di permettere un voto sulla Dichiarazione prima che il concilio si aggiornasse nel suo terzo periodo, nel giro di due giorni. Paolo VI decise che, nonostante le proteste della maggioranza, le procedure non dovessero essere violate e che il voto dovesse essere rimandato fino al quarto periodo conciliare, nell’autunno del 1965. A quel punto, promise Paolo VI, la Dichiarazione sarebbe stata inserita al primo punto in agenda.
Non si verificò più nulla di simile a questo Giovedì Nero (che un raffinato latinista quale John Courtney –Murray preferì chiamare come il diaes irae, il giorno dell’ira) in cinquant’anni di storia della Chiesa cattolica, almeno fino a un altro giovedì: il 16 ottobre 2014, verso la fine del Sinodo Straordinario sulla Famiglia, convocato da Papa Francesco per preparare un’agenda del Sinodo Ordinario sulla Famiglia, previsto per l’ottobre 2015.
(Il Sinodo 2015 sarà “ordinario” perché è uno dei sinodi regolarmente programmati, convocato ogni tre o quattro anni). Il sinodo riunitosi lo scorso ottobre, che includeva i presidenti delle conferenze episcopali di tutto il mondo e altri alti prelati cattolici, fu effettivamente “straordinario” nel senso comune del termine, se non altro perché i padri sinodali, il 16 ottobre, hanno inscenato una sorta di sollevazione nell’aula sinodale. In quell’occasione, fra tante scene melodrammatiche e voci concitate, vi sono stati padri sinodali costretti a pubblicare le relazioni integrali dei loro gruppi di discussione (organizzati su basi linguistiche), molti dei quali erano fortemente critici nei confronti della relazione intermedia pubblicata dopo la prima settimana di dibattito plenario. Quella rivolta della maggioranza, a sua volta, ha messo in moto un processo che ha portato alla pubblicazione di una relazione finale del Sinodo 2014, molto modificata rispetto a quella intermedia e notevolmente ampliata.
In entrambe le circostanze, lo scoppio improvviso di tumulti ben poco consoni ai vescovi cattolici romani, ha indicato che qualcosa di veramente serio fosse in ballo, qualcosa che riguardava l’identità stessa della Chiesa cattolica. Nel 1964 l’argomento era la libertà di religione, ma la causa più profonda era la natura della persona umana, il rapporto fra i diritti di libertà di coscienza e l’affermazione della Verità, il rapporto storico fra la Chiesa e il potere dello Stato, oltre che l’evoluzione dell’atteggiamento del cattolicesimo nei confronti della modernità politica. Nel 2014, l’argomento era la famiglia e la risposta pastorale della Chiesa alla rivoluzione sessuale, ma la causa sottostante era, quasi esattamente, la stessa. Solo che, questa volta, coinvolge il rapporto della Chiesa con la cultura post-moderna, più che il suo rapporto con la democrazia e la separazione fra Stato e Chiesa.
Tuttavia, questa dimensione profonda del dibattito è emersa molto poco nei reportage e negli editoriali sul Sinodo 2014, che troppo spesso sono stati filtrati attraverso la narrativa del “Papa umano e progressista, con i suoi alleati, contro i residui del partito degli intransigenti oppositori del Concilio Vaticano II”. Questa vulgata, comunque, parte da una cattiva interpretazione di Papa Francesco e un fraintendimento delle vere questioni discusse, una falsa descrizione della maggioranza del sinodo, una tendenza a negare le manipolazioni che hanno segnato il processo sinodale e una rappresentazione caricaturale di coloro che giocavano il ruolo dei “cattivi”. Peggio ancora, ci si è distratti dalle questioni più importanti che Papa Francesco ha giustamente portato alla luce: la crisi del matrimonio e della famiglia in tutto l’Occidente, la sfida di legare la verità alla misericordia nella cura pastorale di coloro che restano feriti, in tutti i modi, da questa crisi.
Grazie alle passioni scoppiate attorno a questo straordinario sinodo e ai commenti, confusi quanto distorti, che ne sono seguiti, nell’anno che verrà si prevedono notevoli turbolenze nella Chiesa cattolica. Queste turbolenze possono essere mitigate e si può conseguire qualche progresso nella pastorale, se si considerano per quel che sono veramente le questioni che sono alla base (e all’origine dei turbamenti) della lotta della Chiesa con la cultura post-moderna, in particolar modo la sua normalizzazione e giustificazione ideologica della rivoluzione sessuale. Solo allora si può discutere con uno spirito più sereno rispetto a quello che è prevalso a Roma e altrove a metà ottobre 2014 e nelle settimane immediatamente successive.
Il problema tedesco
Papa Francesco è perfettamente consapevole che vi sia una crisi globale del matrimonio, lo ha fatto capire molto chiaramente nel suo appassionato discorso al movimento Schoenstatt, la settimana dopo la conclusione del Sinodo. In quell’occasione ha constatato che il matrimonio e la famiglia non siano mai stati così attaccati in passato come lo sono ai giorni nostri, da una “cultura dello scarto” che riduce il patto del matrimonio a una mera “associazione”. Una concezione contro la quale la Chiesa deve proporre “molto chiaramente” la verità sul matrimonio. Era sempre intenzione del Papa che il Sinodo Straordinario 2014 fosse un’ampia discussione sulla crisi del matrimonio e della famiglia. Perché crede che solo una volta compresa appieno la natura della crisi, la Chiesa possa procedere a proporre una spiegazione del matrimonio elaborata in un linguaggio comprensibile all’attuale cultura gnostica. Questa ampia disanima della crisi e la celebrazione del matrimonio cristiano, quale risposta ad essa, non è avvenuta come si poteva sperare. E ciò è dovuto, in non minima parte, all’azione dei vescovi tedeschi, guidati dal cardinale Walter Kasper, alleato con il segretario generale del sinodo, il cardinal Lorenzo Baldisseri, che sembrava determinato a spingere, ai vertici dell’agenda, la questione dell’accostamento alla Comunione dei divorziati e risposati cattolici.
L’ossessione tedesca su tale questione è, in un certo senso, espressione auto-referenziale dei problemi pastorali di una sclerotizzata Chiesa tedesca, un problema indubbiamente grave. Per altro, comunque, il “divieto alla Comunione” (così come è stato superficialmente descritto dalla stampa) è la punta dell’iceberg di un argomento molto più vasto, sulla natura della Dottrina e il suo sviluppo. E questo tema, a sua volta, riprende il lunghissimo dibattito sul significato del Concilio Vaticano II e il suo rapporto con la Tradizione cattolica. Dibattito che Kasper e i suoi alleati sembrano decisi a riaprire.
Dieci mesi prima che il sinodo si riunisse, avevo chiesto a un ben informato osservatore degli affari cattolici tedeschi perché il vertice della Chiesa tedesca insistesse sulla riforma dell’accostamento ai Sacramenti dei divorziati e risposati con matrimonio civile. Tema che era già stato ampiamente trattato dalla Chiesa, nel resto del mondo, nel sinodo del 1980 sulla famiglia, e che sembrava risolto con la riaffermazione dell’insegnamento e della pratica tradizionali da parte di San Giovanni Paolo II, con l’esortazione apostolica Familiaris Consortio e poi ancora nella legge canonica del 1983. Ebbene, da questo osservatore della Chiesa tedesca ho ricevuto una risposta composta da una sola parola: “soldi”.
La Chiesa tedesca è finanziata dalla Kirchensteuer, la “tassa della Chiesa” raccolta dalla Repubblica Federale da ogni cittadino che non abbia deciso di rinunciarvi esplicitamente. I fondi di cui si parla sono notevoli. Nel 2011 la Kirchensteuer ha fruttato alla Chiesa cattolica tedesca 5 miliardi e 180 milioni di euro. Recentemente, però, sempre più cattolici tedeschi hanno scelto di rinunciarvi. Nel goffo tentativo di far fronte a questa emorragia, i vescovi cattolici avevano emesso un decreto nel 2012, nel quale si stabiliva che chiunque si fosse sottratto al pagamento della tassa, avrebbe “abbandonato la Chiesa” e che questi “apostati di fatto” sarebbero stati esclusi dai Sacramenti, salvo i casi in pericolo di morte. Questo decreto era stato fortemente criticato e i canonisti tedeschi avevano escluso che potesse costituire un punto di partenza, perché ci vuole ben altro per “abbandonare la Chiesa” rispetto alla firma su una dichiarazione civile. In ogni caso, il pagamento della Kirchensteuer continuava a diminuire.
Molti vescovi tedeschi sembravano essere giunti alla conclusione che la defezione dal pagamento della tassa ecclesiale fosse meglio spiegabile con la percezione che la gente ha della Chiesa, vista come un ente chiuso, avaro e crudele, i cui valori – fra cui l’indissolubilità del matrimonio – non possono più essere accettati da nessun rispettabile europeo del Ventunesimo Secolo. Che la gente abbia smesso di pagare la Kirchensteuer perché non crede più che Gesù sia il Signore e che la Chiesa cattolica sia il suo Corpo Mistico, può apparire come una spiegazione più lineare. Ma adottare questa interpretazione richiederebbe anche il riconoscere che la crisi della fede e della pratica del cattolicesimo in Germania sia semmai spiegabile, almeno in parte, con i visibili fallimenti della teologia tedesca, oltre che della sua catechesi, della sua capacità di trasmettere l’insegnamento del Vangelo nelle condizioni difficili della società tardo moderna e post-moderna. Ma riconoscere questi fallimenti, per prendere a prestito un’immagine da un’altra battaglia (quella di Arnhem), è difficile come la conquista dell’ultimo ponte.
Prima del sinodo, erano state pubblicate sul trimestrale di teologia Nova et Vetera e nella raccolta di saggi Restando nella Verità: Matrimonio e Comunione nella Chiesa Cattolica, ampie critiche alla proposta del cardinal Kasper sulla piena riammissione alla Comunione di coppie risposate con matrimonio civile. Critiche i cui autori includevano anche cinque cardinali studiosi della materia. In entrambe le pubblicazioni, le risposte alle proposte di Kasper erano serie da un punto di vista accademico e rispettose nei toni. Ma Kasper, nel rispondere ai suoi critici (soprattutto con interviste rilasciate alla stampa), non ha sostenuto il dibattito con la serietà che avrebbe meritato, liquidando come “fondamentalisti della Scrittura” tutti coloro che avevano trovato, nelle sue argomentazioni, gravi problemi biblici, teologici, canonici e pastorali.
Durante il sinodo, il cardinal Kasper ha tenuto una lezione a Vienna, in cui ha spiegato la sua posizione su famiglia e matrimonio nell’ambito della sua interpretazione del Concilio Vaticano II, un concilio che, a suo avviso, avrebbe aperto una nuova era nella vita cattolica, un’era in cui tutte le antiche verità sono aperte a un riesame, forse addirittura a una riconsiderazione. Anche qui ci si potrebbe chiedere quali informazioni siano giunte in Germania negli ultimi decenni. Perché i settori più vitali del cattolicesimo, nel mondo sviluppato, sono quelli che hanno vissuto la dinamica ortodossia originata dagli insegnamenti di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI; al contrario, i settori più fragili del cattolicesimo europeo – che includono la maggior parte del cattolicesimo europeo occidentale, c’è da dire – sono quelli che si sono fatti trascinare dai venti della cultura dominante e hanno cercato di aggirare i confini della Dottrina e della morale della Chiesa, immaginando di farlo nel nome dello “spirito del Concilio”. E poi è arrivato Kasper, alleato con il segretario generale del sinodo Baldisseri, a incoraggiare un ulteriore aggiramento dei confini, facendolo in modo che alla maggioranza dei padri sinodali (indipendentemente da quel che hanno detto i media) è apparso in piena contraddizione con gli insegnamenti stessi del Signore.
Tredici anni fa, il cardinal Joachim Meisner, allora arcivescovo di Colonia, mi aveva detto che la più grande risorsa per ricostruire il cattolicesimo tedesco nel Ventunesimo Secolo fosse la testimonianza dei suoi martiri del Ventesimo Secolo. Il potere spirituale di una resistenza di principio è un qualcosa che i teologi, i vescovi e i vescovi teologi potrebbero valutare nei mesi che precedono il Sinodo 2015. La condiscendenza, seguita dalla resa, a sua volta seguita dalla collaborazione: questa è stata l’inquietante sequenza di azioni seguite da troppa parte del cattolicesimo europeo nel confronto della Chiesa con i totalitarismi della metà del secolo scorso, in Germania, in Italia e fra i loro alleati in Francia. I martiri hanno scelto un percorso diverso. La scelta della loro testimonianza contro-culturale deve essere certamente presa in seria considerazione, se si vuole mettere in pratica la visione di Papa Francesco di una “Chiesa in missione permanente” che fronteggia un laicismo aggressivo e la sua erosione del matrimonio e della famiglia.
Il momento dell’Africa
Non sorprende che le proposte su cui premevano maggiormente i tedeschi e i loro alleati nel Sinodo 2014 siano state presentate dai maggiori media come qualcosa di coraggioso, fresco e innovativo, quando, di fatto, erano stagnanti, sciupate vestigia di una visione del cattolicesimo “progressista” che aveva, sotto ogni aspetto evangelico, fallito visibilmente in Europa e nel resto del mondo. Ciò che di nuovo è avvenuto nel sinodo straordinario – e ciò che ha contribuito a renderlo “straordinario” nel senso letterale del termine – è stato semmai il ruolo emergente del cattolicesimo africano, quale fattore fondamentale nel plasmare il futuro del cattolicesimo globale. I padri sinodali africani erano fra i primi a sfidare le proposte di Kasper, argomentando con forza che l’idea cristiana del matrimonio sia giunta nelle loro culture come una forza di liberazione, soprattutto delle donne. Hanno suggerito, implicitamente, quando non esplicitamente, che i vescovi che rappresentano chiese locali morenti, non debbano esportare la decadenza occidentale nel Sud globale, dove il cattolicesimo sta crescendo esponenzialmente, predicando le verità del Vangelo con compassione ma anche senza scendere a compromessi.
Questa presa di posizione ha richiesto molto coraggio, non solo perché ha esposto gli africani all’accusa di essere culturalmente arretrati (o come il cardinal Kasper ha poco elegantemente detto, legati ai loro tabù). Ha richiesto coraggio perché buona parte della Chiesa in Africa è pagata dalle agenzie di sviluppo tedesche, che godono di ottima salute e sono molto generose proprio grazie alla Kirchensteuer. Così, a uomini come il cardinal Wilfrid Fox Napier, l’arcivescovo francescano di Durban, spesso associato al cattolicesimo di sinistra, è parso che qualcosa di eccezionale fosse in gioco nel dibattito sinodale, sia sul matrimonio, sia sulla cura pastorale di coloro che hanno attrazione per uomini e donne del loro stesso sesso. Napier e altri hanno pensato che fosse giunto il momento di parlare francamente, cosa che Napier ha puntualmente fatto con la sua notevole denuncia della relazione intermedia del sinodo e della sua pubblicazione sui giornali, un coraggioso appello che ha effettivamente permesso ad altri di esprimere quello che realmente pensavano sulla manipolazione del dibattito nel sinodo, chiaramente visibile in quella relazione.
Il processo
Durante il Sinodo, l’idea che il processo sinodale potesse essere stato manipolato dal segretario generale, Cardinal Baldisseri, d’accordo con l’arcivescovo Bruno Forte, il teologo italiano segretario speciale del Sinodo, era stata regolarmente smentita, liquidata come una teoria cospirativa dei conservatori, anche dai più sensibili vaticanisti (e qualcuno ce n’è). Questa, però, non era la storia raccontata da numerosi padri sinodali, ed è stato chiaramente il loro disaccordo con il modo di condurre il processo a provocare l’esplosione del 16 ottobre, e la successiva pubblicazione delle relazioni dei dibattiti dei gruppi di discussione sinodali, che rivelavano un ampio e chiaro dissenso con la linea della relazione intermedia preparata da Forte.
Cosa non funzionava nel processo? Parecchie cose. Il papa aveva chiesto un dibattito aperto e libero, cosa che non è sempre caratteristica dell’esperienza cattolica dei sinodi, fin dal Concilio Vaticano II. Ma il segretario del Sinodo ha evitato di pubblicare i testi degli interventi dei padri sinodali durante la prima settimana, quando i padri, gli auditori e gli osservatori parlavano all’intera assemblea. I sommari dei dibattiti pubblicati dal Servizio Informazioni del Vaticano (presumibilmente sotto la direzione del segretariato del Sinodo) e gran parte del contenuto delle conferenze stampa quotidiane sono state contestate perché erano più degli esercizi di pubbliche relazioni che non accurati rendiconti delle discussioni, in tutta la loro profondità. Coloro che suggerivano un’informazione più corretta e trasparente venivano tacitati e molti dei padri sinodali sono giunti alla conclusione che le manipolazioni del processo fossero così ovvie da essere notate da chiunque.
Ma è stata la relazione intermedia di Forte a gettare realmente benzina sul fuoco per molti padri sinodali. Quella relazione era intesa come un punto della situazione sulle principali tematiche del dibattito avvenuto nella prima settimana nell’assemblea sinodale, quelle stesse che sarebbero state ulteriormente esplorate e rifinite dai gruppi di discussione durante la seconda settimana. Ma Forte l’ha presentata come se fosse la bozza del documento finale del sinodo, mettendo in evidenza questioni che sarebbero state di grande interesse per i media internazionali, in spasmodica attesa della Grande Adesione Cattolica alla rivoluzione sessuale. E così si è visto praticamente smentire, lui e la sua relazione intermedia, dal cardinal Péter Erdő, il relatore del sinodo, nel corso della conferenza stampa in cui la relazione intermedia era presentata.
Quando un gruppo di discussione iniziava le sue delibere, un membro chiedeva agli altri, riguardo al linguaggio usato nella relazione di Forte sull’approccio pastorale alle persone attratte dallo stesso sesso, “Avete udito qualcosa di questa, la settimana scorsa?” e riceveva un’unanime risposta negativa. L’adozione del linguaggio della rivoluzione Lgbt nella relazione intermedia ha subito anche serie critiche, con padri sinodali che insistevano sul fatto che la Chiesa cattolica non descriva l’essere umano in base ai suoi desideri, qualunque essi siano, e così facendo si contraddica la ricca antropologia cattolica della persona umana, più recentemente articolata da Giovanni Paolo II nella sua enciclica inaugurale Redemptor Hominis e nella sua teologia del corpo.
Cosa che a sua volta solleva un’altra questione sul processo sinodale: perché non c’erano membri del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, che avrebbero potuto essere invitati come auditori o osservatori del Sinodo? La sede centrale dell’istituto è nella stessa università pontificia a Roma, la Lateranense; ha facoltà in tutto il mondo; Stanisław Grygiel, il padre fondatore dell’istituto, sua moglie Ludmilla, hanno redatto magnifici studi sull’idea cristiana del matrimonio presentati nel corso di una conferenza europea in materia familiare, proprio prima del Sinodo. Ma i Grygiel non erano stati invitati al Sinodo, né lo era l’insigne teologo morale che è attualmente il direttore dell’istituto a Roma, Monsignor Livio Melina. Considerando i metodi del Vaticano, questa non poteva essere un’omissione accidentale. Sembrava, più che altro, una decisione deliberatamente presa dal segretario generale del Sinodo, il cardinal Baldisseri, che presumibilmente non era interessato a veder contestare l’approccio e le tesi di Kasper, proposte contestate dal magistero di Giovanni Paolo II - benché proprio quel magistero avesse dimostrato negli ultimi due decenni, di essere stata la più efficace risposta della Chiesa alla rivoluzione sessuale e ai gravi danni collaterale che il suo dilagare aveva provocato al matrimonio e alla famiglia.
Questo errore può essere facilmente riparato nel corso della preparazione al Sinodo Ordinario del 2015. Le delibere di quella più estesa assemblea (che comprenderà più vescovi rispetto al Sinodo Straordinario) potrebbero trarre un grande beneficio dall’esperienza dei docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II. Perché loro (e altri non invitati al Sinodo 2014) hanno sviluppato un’antropologia cattolica integrale che affronta gli assalti della rivoluzione sessuale, non assecondandola, ma sfidandola a un dibattito in cui si prenda più sul serio la sessualità umana: l’amore nel matrimonio, fedele e fecondo, quale icona della vita interiore della Trinità, o il sesso ridotto a uno dei tanti sport di contatto?
Ciò che non sarà facile riparare, e probabilmente non sarà neppure riparabile, come teme il cardinal Napier, è piuttosto il danno provocato dalla relazione intermedia dell’arcivescovo Forte. I tentativi del cardinal Baldisseri e altri di spiegare la relazione come un mero sommario dei temi in discussione, sono stati smentiti da due fatti. Primo, la relazione intermedia è stata criticata severamente da almeno sette dei dieci gruppi di discussione nella seconda settimana del Sinodo, in cui è stata giudicata come una relazione inaccurata del dibattito sinodale. Secondo, poco di ciò che i cattolici di sinistra e i media trovano rivoluzionario e apprezzabile nella relazione intermedia può essere ritrovato anche nella relazione finale, quella che Papa Francesco ha dichiarato essere il documento di preparazione dell’agenda del sinodo 2015, o nel Messaggio del sinodo al mondo, un documento ben redatto che celebra il matrimonio e la famiglia.
Ebbene, considerando come i media hanno riportato il tutto – la relazione intermedia era stata fatta filtrare alla stampa prima che venisse presentata ufficialmente (in modo non accidentale, si presume) e così la speranza dei media era diventata concreta (“Finalmente! La Chiesa sta cambiando!”) – tutto quel che si conosce del Sinodo 2014 è soprattutto la relazione intermedia. Ciò vuol dire che la vulgata più diffusa – un Papa buono e i progressisti che combattono contro i cattivi pre-conciliari – sarà ancora condivisa da gran parte dei media. E questo andrà a distorcere e ostacolare l’importante dibattito che il papa vuole giustamente che si tenga all’interno della Chiesa, in tutto il mondo, fra il Sinodo 2014 e il Sinodo 2015.
Un successo?
Nel suo discorso finale al sinodo, Papa Francesco ha proclamato il suo successo, quello stesso successo che, anche se non precisamente negli stessi termini, è stato successivamente proclamato anche dai membri della minoranza sinodale (i sostenitori delle proposte di Kasper e della relazione intermedia di Forte). Si è tenuto un vigoroso dibattito, nonostante le difficili circostanze create dal segretario generale del sinodo. Da questo dibattito è emerso un chiaro consenso a sostegno dell’insegnamento tradizionale della Chiesa cattolica, sulla natura della persona umana, la moralità dell’amore, la natura del matrimonio e la necessità di unire la verità e la misericordia, proclamando quel che Giovanni Paolo II chiamava il Vangelo della Vita. Ai pastori che sono severi o crudeli quando hanno a che fare con coppie unite in matrimoni irregolari, o persone attratte dallo stesso sesso – e sono una piccola minoranza, stando alla mia esperienza – viene ricordato che il Buon Pastore resta il modello di carità pastorale nella Chiesa.
L’Africa è stata un centro vitale per la vita e la testimonianza cattoliche per decenni, e quella vitalità e testimonianza sono ora un fattore di rilievo fino ai massimi livelli decisionali dalla Chiesa. L’invito del papa alla trasparenza e la fiducia che i vescovi africani hanno nella verità della loro esperienza ecclesiale, hanno permesso loro di resistere ai suggerimenti di adeguarsi ai loro fratelli migliori europei. E benché molti degli articoli e degli editoriali sul sinodo ricadano nella cattiva abitudine di ritrarre tutti i dibattiti cattolici nelle trite e ritrite categorie dei buoni progressisti contro i cattivi conservatori, un più attento esame del dibattito fa luce sul fatto che il dramma della Chiesa cattolica nel Ventunesimo Secolo non si stia svolgendo secondo il solito copione (per altro, quello che si trova già in un articolo del New Yorker di mezzo secolo fa, a firma con pseudonimo di Xavier Rynne, autore di luoghi comuni in stile cowboy-contro-indiani che tuttora caratterizzano gran parte della copertura mediatica delle questioni cattoliche).
I leader della Chiesa di oggi, dinamici e ortodossi – gli uomini che con successo hanno sventato il tentativo di dirottare il Sinodo 2014 in un percorso tracciato dalla relazione intermedia, quelli i cui interventi hanno contato molto di più nella redazione della relazione finale e del Messaggio del Sinodo al mondo – sono tutti uomini del Vaticano II, non degli oppositori del Concilio. Sono coloro che hanno letto il Concilio attraverso il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, che hanno offerto un’interpretazione autorevole dei loro insegnamenti. Vogliono che quell’autorevole interpretazione sia schierata al servizio di quel che Giovanni Paolo II chiamava nuova evangelizzazione, quella che Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 2013, ha trasformato nella grande strategia del suo pontificato. Sanno che la nuova evangelizzazione non avanza con espedienti tattici, tantomeno con compromessi strategici con la cultura dominate sulla indissolubilità del matrimonio e la moralità dell’amore umano. E non sono disposti a prendere lezioni su come far avanzare la nuova evangelizzazione dai leader cattolici della Germania, dell’Italia, dell’Inghilterra, o di qualunque altro Paese in cui la missione evangelica è palesemente fallita.
Nonostante tutto c’è ancora molto lavoro da fare per rispondere all’appello di Papa Francesco all’intera Chiesa affinché continui il dibattito iniziato nell’ottobre del 2014. Le questioni chiave che dovranno essere affrontate nei prossimi mesi, mentre la Chiesa si prepara al Sinodo 2015, includono, almeno, queste che seguono.
L’anno prossimo il dibattito nella Chiesa e il suo rapporto con la cultura laica, sul matrimonio e la famiglia, dovrebbe essere basata più sui dati che non sull’aneddotica. Più dati – e ce n’è in abbondanza – dovrebbero dimostrare che l’idea della Chiesa su un matrimonio indissolubile e fecondo, così come gli insegnamenti della Chiesa sugli appropriati metodi naturali, rendano i matrimoni, le famiglie e i bambini più felici, le società più civili. Molto più felici e civili rispetto a quelle prodotte dalla decostruzione della famiglia che sta investendo l’Occidente come uno tsunami. Nell’insegnare la verità sul matrimonio, sull’amore, e sulla complementarietà dei sessi, la Chiesa cattolica sta proponendo la via della felicità e dell’umanità fiorente, non la via della repressione e della miseria. Si dovrebbe difendere la causa in modo brillante, basandosi sui dati, in difesa dell’insegnamento della Chiesa, che è, allo stesso tempo, la difesa della dignità della persona umana.
Allo stesso tempo, la Chiesa dovrebbe ingaggiare un dibattito molto più serio sulla “scala dell’amore”, una metafora della vita spirituale che Sant’Agostino trasse dal Simposio di Platone. Durante il sinodo si è suggerito che, come strategia pastorale, la Chiesa debba avvicinare le persone “ovunque esse si trovino” in questa scala dell’amore, non importa quanto in basso si trovino. Ciò è sicuramente vero e in effetti lo è sempre stato. Ma la Chiesa avvicina le persone, ovunque esse si trovino in questa scala dell’amore, per invitarle a scalarla sempre più in alto, con l’aiuto della grazia di Dio, attraverso la mediazione dei Sacramenti della Chiesa. Trovare elementi degni in situazioni coniugali o in relazioni sessuali irregolari, non vuol dire approvare quelle irregolarità, ma invitarli a salire nella scala. Ciò vuol dire aiutarli a comprendere la pienezza del bene e incoraggiarli a trovarla, con l’aiuto della grazia. La sfida è antica quanto lo sforzo compiuto da Paolo nell’Aeropago e non è destinata a passare. Ma il dibattito su come invitare gli uomini e le donna a scalare sempre più in alto nella scala dell’amore non può essere promosso da appelli alla compassione che, in realtà, separano la compassione dalla verità, o accettando gli scioglilingua contemporanei sulla sessualità in tutte le sue forme.
Uno dei più reiterati luoghi comuni usati dai media che coprivano il Sinodo 2014, era tratto da alcuni dei più sfortunati commenti dei padri sinodali: la differenza fra la “dottrina” e la “pastorale”. Esse, ovviamente, non sono la stessa cosa. Ma è altrettanto ovvio che certe pratiche ecclesiali, come il definire le condizioni per ricevere la (o escludere dalla) Santa Comunione, sono strettamente legate alla Dottrina: la Dottrina, dettata dal Signore stesso, secondo cui il matrimonio è indissolubile. E le implicazioni di questa Dottrina, che furono dettate da San Paolo: “Perciò, chi mangia questo pane o beve da questo calice del Signore in modo indegno, è colpevole verso il corpo e il sangue del Signore” (1 Cor, 11:27).
Ora che è molto chiaro (a tutti tranne che al cardinal Kasper, a quanto sembra) che non c’è alcun consenso possibile a favore delle proposte di Kasper per cambiare la pratica ecclesiale su questa materia (perché farlo costituirebbe un impossibile cambiamento dottrinario), il dibattito del prossimo anno dovrebbe concentrarsi sulle correzioni dei processi canonici dai quali i matrimoni possono essere giudicati nulli, e sulle verità sulla Santa Eucarestia e il sacramento della penitenza che sono alla radice dell’attuale – e futura – teoria e pratica della Chiesa sulla legittimità a ricevere la Santa Comunione. Nonostante tutti i loro errori – o proprio in forza di essi – le proposte di Kasper permettono ai pastori e ai vescovi di avere una grande opportunità di ri-catechizzare (o catechizzare per la prima volta) i loro fedeli, sul matrimonio, l’Eucarestia e la penitenza. Lettere pastorali su questi argomenti possono essere d’aiuto, ma nulla è più importante di una predicazione efficace.
La relazione finale del sinodo ha sollevato una forte protesta contro la “pressione” esercitata sui “pastori della Chiesa” da forze culturali, politiche e legali che promuovono l’agenda Lgbt e respingono, considerandola “totalmente inaccettabile” ogni macchinazione di “organizzazioni internazionali che vincolano l’assistenza economica ai paesi più poveri all’introduzione di leggi che istituiscono il ‘matrimonio’ fra persone dello stesso sesso”. Questa è stata una forte risposta contro il programma della Us Agency for International Development e il Dipartimento di Stato di Obama, fra gli altri. Un dibattito su queste “pressioni” prima del Sinodo 2015 darebbe ai pastori della Chiesa l’opportunità di chiarire ai fedeli la differenza essenziale fra il patto sacramentale del matrimonio, da un lato, e il contratto civile di una relazione sessuale privata, riconosciuta pubblicamente e legalmente da uno Stato, dall’altra. Questo chiarimento dovrebbe portare, a sua volta, a un profondo riesame del rapporto che la Chiesa ha con il matrimonio civile, incentrato sulla questione su come la Chiesa possa evitare ogni complicità nella frode del “matrimonio omosessuale”. Non si danneggia la credibilità degli insegnamenti della Chiesa, non si indebolisce la sua testimonianza nell’arena pubblica, quando diaconi, preti e vescovi cattolici firmano patenti di matrimonio civile che designano la “sposa 1” e la “sposa 2”? Questi eufemismi segnalano una concezione del matrimonio che, non solo è diversa, ma è radicalmente opposta a quella della Chiesa. Questi dibattiti potrebbero anche beneficiare di una ricca ecclesiologia, come quella che più volte si è manifestata nei dibattiti del Sinodo 2014, con l’antico concetto della famiglia vista come ecclesiola, la “piccola Chiesa”, al centro della riflessione sulla relazione fra la Chiesa domestica e il Corpo Mistico di Cristo.
Nessuno che abbia sofferto la noia dei sinodi precedenti può negare la determinazione con cui Papa Francesco ha deciso di rivitalizzare il processo e di promuovere una discussione aperta e franca sui temi che ne sono al centro. Questo nobile intento potrà essere compiuto nel Sinodo 2015 se lo si organizzerà in modo molto diverso rispetto al Sinodo 2014. Ciò può richiedere certe correzioni nella scelta delle persone che comporranno il segretariato generale del sinodo, ma il cambiamento più necessario e importante riguarda la sua attitudine. Il segretariato del sinodo può capire che esiste solo per servire i padri sinodali, non per manipolare il processo e guidare il dibattito su una via che porta a conclusioni predeterminate in anticipo. La grande resistenza dimostrata dai padri sinodali, il 16 ottobre, a quel tipo di manipolazione, è uno sviluppo salutare in una tradizione tutto sommato relativamente giovane, quella dei sinodi periodici della Chiesa, e dimostra come i vescovi abbiano preso sul serio l’appello del Papa alla sinodalità e alla collegialità. In altre parole, la correttezza del processo sinodale, è un valido argomento di dibattito, da adesso fino al Sinodo 2015 e questo dibattito non costituisce in alcun modo una critica a Papa Francesco. Al contrario, serva alla sua visione su come i sinodi potrebbero e dovrebbero essere.
Infine, l’intero dibattito sulla crisi del matrimonio e della famiglia nel Ventunesimo Secolo dovrebbe essere legato, più strettamente e più esplicitamente, alla nuova evangelizzazione. Uomini e donne dei molteplici corsi di preparazione al matrimonio e campus cattolici che hanno avuto veramente successo nel promuovere la teologia del corpo e altri sviluppi teologici post-conciliari, vincendo la sfida di doverlo fare in un ambiente culturale veramente ostile: tutti costoro dovrebbero essere invitati al Sinodo 2015 come auditori e osservatori. La loro esperienza di pratica pastorale può aumentare l’approfondimento teorico che i docenti dell’Istituto Giovanni Paolo II possono apportare al Sinodo 2015.
Il Sinodo Ordinario del 2015, in altre parole, dovrebbe riflettere più chiaramente i tre maggiori impegni indicati da Papa Francesco nel suo discorso conclusivo del Sinodo 2014: un impegno appassionato per la missione, un impegno appassionato per le persone in situazioni difficili e un impegno consapevole per le verità della fede della Chiesa. Tenere assieme questi tre impegni può essere difficile. Ma questa è la sfida di questo particolare momento della Chiesa. Accettarla andrà a beneficio dell’evangelizzazione di un mondo spezzato e sofferente, la principale missione della Chiesa.
*Autore e attivista cattolico statunitense, biografo di San Giovanni Paolo II. George Weigel è direttore degli studi cattolici dell'Ethics and Public Policy Center di Washington DC. Questo articolo è stato pubblicato in lingua inglese sul numero di gennaio di First Things. Traduzione di Stefano Magni
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