Matrimonio e seconde nozze. Cosa direbbe nel sinodo sant’Agostino

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Ricevo e pubblico. L’autore è diplomato all’Istituto di Scienze Religiose di Trieste e si è dedicato particolarmente allo studio della teologia di san Bonaventura da Bagnoregio. Scrive sul settimanale diocesano “Vita Nuova”. In questa nota sottopone a critica il saggio di padre Guido Innocenzo Gargano su matrimonio e seconde nozze, rilanciato giorni fa da www.chiesa:

> Per i “duri di cuore” vale sempre la legge di Mosè

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LE MAGLIE PIÙ STRETTE DELLA LEGGE COMPIUTA DA GESÙ
di Silvio Brachetta
Nel suo saggio su “Il mistero delle nozze cristiane” pubblicato in “Urbaniana University Journal“, il monaco camaldolese Guido Innocenzo Gargano, biblista e patrologo, vede nel compimento della legge mosaica, proclamato da Cristo, una sorta di alleggerimento della stessa a favore della misericordia, anche nel caso del decalogo.
L’autore, cioè, reputa il discorso della montagna di Gesù “un generosissimo programma di liberazione dalle strettoie della ‘littera’” legalistica.
Di conseguenza, pastoralmente, si dovrebbero dischiudere indicazioni “nuove e persino rivoluzionarie”, non meglio specificate. Si vuole forse rivedere la prassi di esclusione dal sacramento dell’eucaristia dei divorziati risposati? Per quanto suggestiva, esposta con discrezione e presentata come contributo alla riflessione, la tesi non sembra tuttavia essere dimostrata in modo esaustivo o supportata a sufficienza dalla teologia e dalla patristica.
Un’ipotesi debole
A fare problema, in particolare, è l’assunto per cui ci sarebbe un collegamento di misericordia tra la prassi di ripudiare la propria moglie – concessa da Mosé (cf. Mt 19, 8 ) – e l’inclusione nel regno dei cieli dei “minimi”, che Gesù indica come “trasgressori” della legge nel discorso della montagna (cf. Mt 5, 19). L’autore pare sollevato dal fatto che “in Mt 5, 19 Gesù non parla di ‘esclusione’ dal regno dei cieli, ma soltanto di situazione di ‘minimo’ o di ‘grande’ nel regno dei cieli”.
La pericope in questione è la seguente: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli”.
Successivamente – e come argomento portante – Gargano continua ad essere pienamente convinto che ci sarà una salvezza per i “minimi”, non ponendo alcun dubbio su ciò.
È difficile capire dove l’autore abbia trovato il sostegno a questa sua interpretazione, che si potrebbe considerare inclusivista, anche perché il suo testo è carente di autorità extra–bibliche a sostegno degli argomenti proposti, i quali si presentano quasi sempre come opinioni personali o interpretazioni private del testo sacro. C’è penuria di fonti, insomma. Alle volte si accenna ai Padri, ma in modo sporadico e generalizzato.
Eppure l’interpretazione di Gargano è avversata dagli autori maggiori. Quanto a Mt 5, 19 sant’Agostino, ad esempio, è nettamente contrario alla tesi inclusivista summenzionata. Nel “De civitate Dei” (XX, 9.1) il vescovo di Ippona dimostra che tanto il “grande” quanto il “minimo” evangelici sono sì nel regno dei cieli, ma come figura della “Chiesa quale è nel tempo”. Tanto più che il Signore aggiunge, subito dopo: “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5. 20). Questa volta – scrive sant’Agostino – “si ha la Chiesa quale sarà, allorché non vi sarà più il cattivo”. Pertanto, al v. 19, Gesù Cristo parla della Chiesa militante e nel verso successivo della Chiesa trionfante.
Il “minimo” è escluso dal paradiso
E il “cattivo” che fine ha fatto, nel frattempo? Semplicemente non c’è: è escluso dal regno futuro, non è incluso nella Chiesa trionfante, nel paradiso. Lo spiega meglio Agostino nel “Commento al Vangelo secondo Giovanni” (Omelia CXXII, n. 9), dove mette in relazione il discorso della montagna con la vicenda dei “centocinquantatre grossi pesci” (Gv 21, 11) e con la parabola dei “pesci buoni e cattivi” (Mt 13, 47–50). Solo il “grande” – osserva – “potrà far parte del numero dei grossi pesci”, cioè dei centocinquantatre che rappresentano i salvati. Quanto al “minimo”, che “distrugge con i fatti ciò che insegna con le parole, potrà far parte di quella Chiesa che viene raffigurata nella prima pesca, fatta di buoni e di cattivi, perché anch’essa viene chiamata regno dei cieli”. Ma, proprio come insegna la parabola di Mt 13, 47–50, i buoni e i cattivi “dovranno essere separati sulla riva, cioè alla fine del mondo”. Su questo sant’Agostino è chiaro: “chi è minimo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa del tempo presente, non entrerà nel regno dei cieli”.
Il santo monaco Giovanni Cassiano giunge a dire che non solo il “minimo” è nullo nella Chiesa, ma addirittura che è grande nell’inferno – “sed in gehennae supplicio maximus habeatur” (“Collationes Sanctorum Patrum”, coll. XIV). Stesso giudizio lo ritroviamo in san Tommaso d’Aquino, che riporta la riflessione di san Giovanni Crisostomo, Omelia XVI: “con le parole ‘ultimo nel regno dei cieli’ non bisogna vedere altra cosa, se non il supplizio della dannazione eterna”. In effetti – aggiunge il Crisostomo – “nel linguaggio corrente del Salvatore il regno dei cieli non significa soltanto il godimento della felicità eterna, ma il tempo della risurrezione e la terribile venuta del Cristo” (San Tommaso, “Catena Aurea in Matteo”, l. 12).
Ancora san Tommaso cita sant’Agostino nella “Summa Theologiae”, a proposito di cosa siano i precetti minimi della legge e cosa, in generale, debba intendersi per legge. Dice dunque Agostino che “i precetti della legge [antica] sono minori, mentre quelli del Vangelo sono maggiori” (S.Th. Ia IIae, q. 107, a. 3). Tommaso aggiunge che tale fatto, però, non impedisce al maggiore di essere contenuto nel minore, come l’albero è potenzialmente contenuto nel seme.
Forzatura dei passi evangelici
Più sorprendente ancora appare l’accostamento della pericope analizzata con il passo, che Gargano propone, di Mt 19, 3–9: “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: ‘È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?’. Ed egli rispose: ‘Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi’. Gli obiettarono: ‘Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via?’. Rispose loro Gesù: ‘Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio””.
Queste parole non dovrebbero porre troppi problemi interpretativi: Gesù revoca la liceità di dare l’atto di ripudio e conferma la condizione di adulterio per eventuali seconde nozze.
Gargano vi vede invece una sorta di presa d’atto da parte di Gesù della “durezza di cuore”: ovvero, l’atto di ripudio farebbe parte dei “precetti minimi” e, di conseguenza, il “minimo” che ripudia la moglie entrerà comunque in paradiso.
Ma il ragionamento così impostato sembra del tutto forzoso e, alla luce di quanto visto, contrario alle autorità dei Padri. Tanto più che, nel caso di Mt 19, 3–9, sant’Agostino sostiene l’illiceità assoluta del ripudio, ad esempio in “La dignità del matrimonio” (n. 7). Eppure l’autore del saggio conferma, in Gesù, “l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile prescrizione mosaica”, cioè l’atto di ripudio. Ma su che basi è fatta una simile affermazione? Su che fonti patristiche?
Giustizia e misericordia
È vero che, nel discorso della montagna, la legge è rivista e compiuta da Gesù in modo da introdurre la misericordia, ma non in maniera generalizzata e non con le modalità espresse da Gargano.
Quanto al decalogo, anzi, la condizione umana rispetto all’obbedienza ai precetti è aggravata: se con Mosè era illecito l’adulterio, con Gesù è illecito persino guardare una donna per desiderarla (Mt 5, 27–28). O se con Mosè era illecito uccidere, con Gesù è illecito persino adirarsi col fratello (Mt 5, 21–22). È strano come Gargano escluda che l’intero discorso della montagna possa essere “letto come una sorta di inasprimento delle prescrizioni”.
Viceversa, si tratta proprio di questo: un “inasprimento delle prescrizioni”. Se con Mosè il decalogo poteva essere applicato a fatica, con Gesù l’applicazione è impossibile. Con Gesù non c’è più il “giusto” ma, tutt’al più, il “giustificato”, perché solo il Maestro è giusto, non avendo mai peccato. Con Gesù tutti abbiamo peccato ed è solo partendo da questa verità che è pensabile la penitenza e il perdono.
Dove allora, nel discorso della montagna, si allargano le maglie della legge e, quindi, Dio concede la misericordia al peccatore? Ad esempio, in Mt 5, 38–39, dove è rovesciato il precetto “occhio per occhio e dente per dente” e s’invita a “porgere l’altra guancia”. Ma la cosiddetta “legge del taglione” non fa parte del decalogo, bensì della prassi applicativa dello stesso. Ovvero, mentre da una parte la legge è inasprita, ne è rovesciata però l’applicazione nel senso della misericordia. E tutto ciò è tramandato dalla patristica e dal magistero.
In realtà pare del tutto ambigua una sorta di liberazione dalla “littera” legalistica, come auspica Gargano, almeno per quanto riguarda il decalogo. La strada della misericordia è invece indicata con chiarezza dalla Chiesa: pentimento del delitto contro la “littera” dei santi precetti e conseguente perdono da parte di Dio.
Trieste, gennaio 2015
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