Il posto della grazia e del soprannaturale nel travaglio della teologia cattolica più recente
C’è un pericolo incombente sopra qualsiasi teologia contemporanea, e specialmente sopra quella cristiana e cattolica; un pericolo difficile da combattere perché viene sovente presentato non come tale, ma come un giusto e doveroso adeguamento allo “spirito dei tempi”, vale a dire della modernità: una tendenza sempre più marcata e sempre più diffusa verso una concezione naturalistica del mondo e, implicitamente, della religione stessa.
In altre parole: non si adora più il Creatore, ma le creature; non si ripone più ogni fiducia nella Provvidenza, ma nella ragione umana; non ci si attende il riscatto dalla grazia, ma dall’azione dell’uomo; non ci affida più allo Spirito, ma alla tecnica; non ci si riconosce peccatori e bisognosi di redenzione, perché ci si vuol redimere da sé: e, del resto, che cose ci sarà mai da redimere, se l’uomo è una creatura così autosufficiente, da non aver bisogno di Dio, anzi, se è vero che l’uomo diventa adulto – come dicono, appunto, alcuni teologi, specialmente protestanti, del XX secolo – nel momento in cui sa vivere come se Dio non ci fosse?
Insomma: la religione sta diventando un fatto per bambini e per vecchiette, di cui i teologi contemporanei non hanno più bisogno, se non per misurare il “progresso” da essi compiuto rispetto ai loro goffi e insicuri predecessori, pesatori timidi e complessati come San Tommaso d’Aquino; ma ora sono arrivati loro, che si sono liberati da ogni complesso di inferiorità e che vogliono far vedere agli “altri”, ai non credenti, che essi sono aggiornati e moderni quanto loro; che possono fare a meno della Provvidenza, della grazia e di Dio stesso, quanto e più di loro; che sono più evoluzionisti di Darwin e più psicanalisti di Freud; che, insomma, non hanno niente da invidiare allo spirito della modernità, che vi si trovano benissimo come a casa loro, e che sono solo vili calunnie quelle secondo le quali la parola di Cristo sarebbe incompatibile col “mondo”.
Più di ogni altra cosa, di conseguenza, essi prendono di mira il soprannaturale: non frontalmente, non apertamente, perché perfino loro, nonostante tutto, intuiscono l’enormità della cosa e si rendono conto, e sia pure in maniera confusa, che, così facendo, si scalzerebbero le basi stesse della religione; ma in maniera obliqua, prudente, e, come sempre, con l’aria di voler “riformare” credenze ormai superate e tradizioni che non hanno più aggancio con la realtà presente. Dunque, essi non lanciano il loro attacco partendo dal soprannaturale in se stesso, che, a parole, non negano affatto, anche se lo respingono in regioni così lontane e rarefatte, da divenire evanescente; ma se la prendono con le manifestazioni particolari del soprannaturale, con i miracoli, con le visioni e le estasi dei santi, con le profezie, insomma con i “segni” del soprannaturale che irrompono nella vita ordinaria, scuotendo il tranquillo filisteismo di tanti credenti della domenica.
Ed ecco spiegata la loro diffidenza, o, per dir meglio, la loro franca avversione e la loro decisa antipatia per tutto ciò che “sa” di soprannaturale, a cominciare dalla interpretazione stessa della Scrittura, che essi vorrebbero ridurre alle proporzioni di un esercizio di logica naturalistica, purgandola da ogni residuo di “mentalità mitologica”, da ogni “simbologia poetica”, da ogni “ingenua” forma di letteralismo. Nemmeno il Nuovo Testamento, nemmeno il Vangelo sfuggono a questa puntigliosa, testarda, intransigente opera di de-mitizzazione e di “purificazione” alla luce della mentalità moderna, positiva e scientista. Gesù cammina sulle acque? Un effetto ottico dovuto alla bassa marea, vista in controluce. Placa la tempesta sul lago? Una fortunata coincidenza. Moltiplica i pani e i pesci, sfamando migliaia di persone? Una allegoria. Resuscita la figlia di Giairo? Niente affatto, la fanciulla non era morta. Libera gli indemoniati? No, restituisce la pace a dei poveri lunatici, rasserena dei nevrotici e dei depressi. Viene tentato dal Demonio? Ma il Demonio è solo la figura del male, il simbolo del nostro lato oscuro. Trasforma l’acqua in vino alle nozze di Cana? Chissà: forse utilizza qualche polverina da prestigiatore. Muore sulla croce e poi risorge? Ma sì, certo che risorge, come risorgeremo tutti: non siamo forse tutti figli di Dio, e non ci è stato promesso il Regno dei Cieli? Dunque, anche Lui è risorto. Ma sale al Cielo con il corpo glorificato? Difficile dirlo, i suoi discepoli erano un po’ confusi, quelle ultime vicende non sono tanto chiare. Ritornerà? Senza dubbio: ma chissà quando. Noi, intanto, andiamo avanti con i nostri affari: inutile rompersi il capo almanaccando sulla data. E lo Spirito Santo, è sceso nel cenacolo nel giorno della Pentecoste? Sicuro: lo Spirito Santo è presente sempre e ovunque; solo, bisogna distinguere il racconto figurato del Vangelo dalla sostanza teologica, che non ha bisogno di simili spettacolari manifestazioni.
E, se questo tipo di lettura è adoperato per il Vangelo, non parliamo delle apparizioni mariane; non parliamo di Lourdes o di Fatima; non parliamo nemmeno della Sindone; e lasciano perdere le stimmate di san Francesco o di san Pio da Pietrelcina. Queste cose possono andar bene per i poveri di spirito (tralasciando il piccolo dettaglio che Gesù li aveva portati ad esempio di perfetti credenti), ma non sono più “politicamente corrette” oggi, in quei nostri tempi meravigliosamente razionali e tecnologici. Lasciamo che le plebi cafone e sanfediste vivano nell’eterna attesa del miracolo: noi, che siamo adulti e vaccinati, abbiamo ben altri strumenti per accostarci alla verità divina. Siamo o non siamo diplomati e laureati, mentre i nostri nonni avevano frequentato la scuola, al massimo, fino alla quinta elementare? E dunque: non avremo mica sgobbato su quei banchi e su quei libri per niente, cioè per accontentarci del catechismo di Pio X?
Una volta circoscritte, limitate e smantellate tutte queste circostanze soprannaturali, dunque, ciò che resta è una immagine del mondo puramente galileiana: un meccanismo che si può decodificare solo leggendolo in caratteri matematici, cioè solo isolando i singoli fatti e considerandoli dal punto di vista della scienza strumentale e calcolante. Non c’è più posto per la contemplazione, se ne è persa la necessità. Il soprannaturale è stato relegato chissà dove, forse tra le pagine ammuffite di qualche vecchio libro di teologia tomista. Certo, nessuno osa negare la grazia, lo Spirito, la necessità della redenzione: però, via, forse non aveva tutti i torti nemmeno Pelagio, quando diceva che l’uomo non è poi così cattivo, e che il peccato di Adamo ed Eva non può aver fatto un danno così grave. Forse non aveva tutti i torti nemmeno Ario, quando insisteva sulla natura umana di Cristo: se siamo tutti figli di Dio, allora questo deve valere anche per Lui (abbiamo o no la fortuna di vivere in un’epoca dalla fortissima sensibilità democratica?). E forse non avevano del tutto torto neppure gli gnostici: non si può ridurre la verità a una fiaba per fanciulli e per vecchiette, bisogna restituire i suoi diritti alla ragione, bisogna rivendicare i meriti dell’intelligenza: non è cosa degna dell’uomo aspettare la salvezza dall’esterno, egli deve agguantarla con le sue stesse mani, costringendola a svelare i suoi segreti…
A questi ultimi indirizzi molto hanno contribuito, in maniera indiretta, le nuove tendenze diffuse dalla sensibilità New Age, con il suo implicito panteismo e con la sua divinizzazione della natura, vista come buone e bella, oltre che perfetta, quasi una rinascita del mito del Buon selvaggio e del ciarpame filosofico deista del XVIII secolo. Molto di più, tuttavia – non bisogna nasconderselo – hanno contribuito delle tendenze interne al cristianesimo stesso e, nel caso del cattolicesimo, una spregiudicata e nefasta interpretazione delle deliberazioni del Concilio Vaticano II, presentato come il momento in cui la Chiesa si è risvegliata da un sonno plurisecolare e ha deciso, per la prima volta, di parlare con animo aperto allo spirito moderno, di impostare e sollecitare un dialogo adottando, in via preliminare, gran parte dei punti di vista del “mondo”, primi fra tutti il razionalismo, il laicismo, l’evoluzionismo darwinista, la psicanalisi freudiana, la lotta di classe di ascendenza marxista e, soprattutto, un secolarismo che fa proprio il relativismo etico, travestito da pluralismo culturale e sfociante, non di rado, in un agnosticismo programmatico e ostentato, quando non in un vero e proprio scetticismo radicale.
Vale la pena di rileggersi una pagina, esemplare per chiarezza espositiva e concettuale, di un “vecchio” e robusto manuale di teologia cattolica – preconciliare, per intenderci -, «La sintesi tomistica» del p. Garrigou-Lagrange» (titolo originale: «La Synthèse Thomiste», Paris, Desclée De Brouwer, 1950; traduzione dal francese di Ignazio Paci, Brescia, Queriniana, 1953, pp. 479-82):
«…La grazia non è soprannaturale solo come la vista resa soprannaturalmente a un cieco, poiché questa p soprannaturale solo per il modo con cui viene restituita e per la sua causa, ma IN SÉ è vista naturale; mentre invece la grazia è una VITA ESSENZIALMENTE SOPRANNATURALE, come anche le virtù teologali son soprannaturali a causa del’oggetto da cui sono specificate. Parimenti Dio non avrebbe potuto darci la visione beatifica come una proprietà della nostra natura; e così la grazia è una partecipazione gratuita della divina natura, della vita intima di Dio, della Deità come è in se stessa. Questa è la dottrina tradizionale fondata chiaramente sulla Rivelazione.
Le obbiezioni dimostrano quanto sia necessario farsi una giusta idea del “soprannaturale” e della immutabilità del dogma per non rigettare con leggerezza quanto vi è di certo e di più elevato nella concezione tradizionale che ne conserva la Chiesa.
Nasce quindi una questione: Verrebbe mantenuta l’immutabilità del dogma come la concepisce la Chiesa se ci si contentasse di dire: Nella conoscenza analogica e sempre imperfetta che abbiamo di Dio, l’”adaequatio rei et intellectus”, l’adeguazione della formula dogmatica con la divina realtà, ossia LA VERITÀ DOGMATICA, È SOLTANTO UN LIMITE AL QUALE SI TENDE, MA CHE NON SI RAGGIUNGE MAI SULLA TERRA, poiché per raggiungerlo bisognerebbe avere la visione immediata della divina essenza che solo i beati possiedono? Basta dire che laVERITÀ IMMUTABILE del dogma è un LIMITE verso il quale la Chiesa tende continuamente senza raggiungerlo mai sulla terra? Questo nel secolo XIX l’ammetteva Guenther nel suo relativismo, ma al Concilio Vaticano [il primo, ovviamente] non è parso che questo bastasse.
È vero che i nostri concetti analogici son sempre inadeguati e incapaci di esprimere la divina realtàCOME È IN SÉ. Ma non dobbiamo dimenticare che LA VERITÀ NON È FORMALMENTE nei concetti, ma nei giudizi. La verità consiste nell’affermare ciò che è e nel negare ciò che non è. In questo senso “veritas judicii” è “adaequatio ipsius judicii cum ipsa judicata”.
Si tratta allora di sapere (cosa molto semplice e molto profonda come il “Pater”) se la verità dei giudizi, dei dogmi proposti infallibilmente dalla Chiesa come rivelati da Dio, è UNA VERITÀ ASSOLUTAMENTE CERTA E IMMUTABILE, e non soltanto UN LIMITE A CUI SI TENDE e al quale l’intelligenza del credente non giungerà mai sulla terra. Si tratta di sapere se i giudizi o proposizioni dogmatiche, nonostante l’imperfezione dei nostri concetti analogici, SIANO CERTAMENTE CONFORMIfin da orsa alla realtà divina secondo una certezza infallibile, “propter auctoritatem Dei revelantis”
Siamo o no in presenza d’una verità immutabile e irreformabile quando il Salvatore ci dice: “Ego sum via, veritas et vita” (Giov., XVI, 16), e “Caelum et terra transibunt, verba autem mea non praeteribunt” (Matt., XXIV, 35; Marc., XIII, 31; Luc., XXI, 33)? Siamo o no in presenza d’una verità certa, immutabile e irreformabile, quando la hiesa ci dice infallibilmente che Dio è l’Essere infinito, l’Essere stesso, la Verità, la Sapienza, l’Amore infinito, che Dio è Trino ed Uno, che il suo Unigenito si è incarnato ed è morto per la nostra eterna salvezza, che in Lui c’è la natura umana, la natura divina e una sola persona, cioè quella del Verbo, come ha definito il Concilio di Efeso?
È chiaro che per noi credenti il porre la questione è già risolverla affermativamente. È necessario che leNOZIONI analogiche le quali esprimono l’immutabilità della verità dogmatica abbiano un valore reale (ontologico e trascendentale) e che siano immutabili e non soltanto provvisorie.
Ma il relativismo non la intende così.
Nel secolo XIX in Germania Guenther, il quale, dopo d’aver tentato di approfondire gli scritti di Kant e di Hegel, volle dare la giusta interpretazione dei dogmi del Cristianesimo, insegnò che la Chiesa è certamente infallibile nel definire un dogma, ma è questa unaINFALLIBILITÀ RELATIVA ALLO STATO DELLA SCIENZA E DELLA FILOSOFIA AL MOMENTO DELLA DEFINIZIONE, e quindi una infallibilità soltanto PROVVISORIA. Secondo Guenther anche il Concilio di Trento nelle sue definizioni era provvisorio e non si sarebbe potuto affermare se sarebbe stato sostituito da qualche cosa di definitivo. Secondo questa teoria, l’unità della persona in Cristo non si può intendere come l’ha definita il Concilio di Efeso, perché nella filosofia moderna la personalità non è concepita come una volta. Oggi la personalità viene così definita: La coscienza di sé; ora in Cristo ci sono due coscienze. Risponde la teologia che in Cristo ci sono due coscienze DELLO STESSO IO ONTOLOGICO che è quello del Verbo Incarnato. Guenther negò anche la distinzione fra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale e volle ridurre i misteri soprannaturali a verità filosofiche.
Il Concilio Vaticano condannò il relativismo e il semi-razionalismo di Guenther, e più tardi l’enciclica “Pascendi” condannò il relativismo dei modernisti che somigliava a quello ed era anche più grave. Ma poiché quegli errori derivavano necessariamente da sistemi filosofici (positivismo e kantismo) che hanno anche oggi un forte influsso, non fa meraviglia che compaiano di nuovo quasi sotto la stessa forma.»
Si noti come agisce in maniera subdola questa mentalità modernizzante nell’ambito della teologia contemporanea. Essa afferma che la Verità, certamente, è una ed è immutabile ed eterna; ma che il modo in cui essa si esprime e si manifesta, varia di tempo in tempo (e di luogo in luogo): dunque, perché mai fossilizzarsi nelle vecchie forme della tradizione? In altre parole, basta leggere il Vangelo applicando ad esso i nostri schemi mentali, basta ”tradurlo” nel linguaggio della modernità, e tutto diventa chiaro: i passi che creavano difficoltà per la nostra mentalità scientista e ipercritica scompaiono addirittura, e tutto diventa semplice e chiaro, tutto fila via liscio come bere un bicchier d’acqua.
Avremo, così, un cristianesimo “ragionevole” (come lo voleva Toland) per gli illuministi; un cristianesimo aggiornato e positivista (come lo voleva Tyrell); un cristianesimo evoluzionista (come lo voleva Teilhard de Chardn); un cristianesimo esistenzialista; un cristianesimo laicista; un cristianesimo secolarizzato; un cristianesimo marxista e neo-marxista; un cristianesimo razionalista e scientista; un cristianesimo relativista (la tua verità è uguale alla mia e tutti abbiamo ragione, purché siamo in buona fede); e, infine, un cristianesimo ateo. Cioè, un cristianesimo in cui Dio diventa un’ipotesi, la vita eterna diventa un’altra ipotesi, e tutto viene messo fra parentesi, perché, dopotutto, non si vive d’ipotesi, ma di certezze. È il cristianesimo di Hans Küng e di Vito Mancuso, il cristianesimo aggiornato e confezionato a misura dei nostri tempi, che, con una bella dose di disinvoltura, viene ancora spacciato come una legittima, anzi, come la più interessante interpretazione della Verità eterna.
Magari con la “v” minuscola…
di Francesco Lamendola - 17/03/2015
Fonte: Arianna editrice
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