Breve esame critico del Novus Ordo Missæ presentato al Pontefice Paolo VI dai Cardinali Ottaviani e Bacci
Breve esame critico del
Novus Ordo Missæ
presentato al Pontefice Paolo VI
dai Cardinali Ottaviani e Bacci
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Lettera di presentazione a Paolo VI
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Beatissimo Padre,esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo [Nuovo Ordinario della Messa] preparato dagli esperti del Consilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia [Consilio per l’applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia], dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato – opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime – il Novus Ordo Missæ [Nuovo Ordinario della Messa], considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i canoni del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
2) La ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura – anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere – non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ (per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova) potrebbe dar forza di certezza al dubbio – già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti – che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno.
Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze.
3) Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre cosí profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, piú che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere – in un momento di cosí dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune – la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra cosí altamente lodato e dall’intero mondo cattolico cosí profondamente venerato ed amato.
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A. Card. Ottaviani A. Card. Bacci
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Breve esame critico del Novus Ordo Missae
I
Nell’ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta messa normativa, ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet [non è gradito]), moltissime e sostanziali riserve (62 juxta modum [con riserva]) e 4 astensioni, su 187 votanti.
La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto» da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito: «[vi]si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa».
Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica si afferma che l’antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor piú remota antichità[1] fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo… copiosus aluerunt» [numerosi santissimi uomini, attinto da esso con abbondanza … alimentarono il loro spirito di devozione verso Dio].
E tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium» [dal momento in cui iniziò a crescere e diffondersi sempre più tra il popolo cristiano lo studio della sacra liturgia].
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando – soprattutto per merito del grande S. Pio X – esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.
Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l’uso di esso, con l’opportuna catechesi, potesse impedire una piú piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.
Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa “messa normativa” oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce.
Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico.
Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant» [in modo da render ancor più chiara l’intrinseca ragione delle singole parti e la loro mutua connessione].
Vedremo subito come l’Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria. Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti piú modernisti.
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II
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Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ» [La struttura della Messa]:
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum[2]. Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi ‘Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum’ (Mt. 18, 20)». [La Cena del Signore, ossia la Messa è la sacra sinassi, ovvero l’assemblea del popolo di Dio riunito sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore. Perciò s’applica in modo speciale alla riunione della santa chiesa locale la promessa di Cristo: ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro’].
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di cena, il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale cena è inoltre caratterizzata dall’assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedí Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell’assemblea[3]. Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione.
Qui l’omissione volontaria equivale al loro ‘superamento’, quindi, almeno in pratica, alla loro negazione[4].
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma – aggravando il già gravissimo equivoco – che vale “eminenter” [in modo speciale] per questa assemblea la promessa del Cristo: “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18,20) [Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro].
Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l’affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli “instituantur et reficiantur” [siano istruiti e nutriti]: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.
Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et liturgia eucharistica, ecc. [Azione di Cristo e del popolo di Dio, Cena del Signore ossia Messa, Convito Pasquale, Partecipazione comunitaria alla mensa del Signore, Preghiera eucaristica, Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica ecc.]
Come è fin troppo evidente, l’accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale, anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula “Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini” [Memoriale della Passione e Resurrezione del Signore] è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente[5].
Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e ribaditi.
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III
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E veniamo alle finalità della Messa.
1) Finalità ultima. È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo l’esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: “Ingrediens mundum dicit: Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi»(Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5) [Entrando nel mondo dice: non hai voluto sacrificio, né offerta, ma mi preparasti un corpo].
Questa finalità è scomparsa:
- dall’Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancte Pater [Accetta, Padre Santo],
- dalla conclusione della Messa con il Placeat tibi, Sancta Trinitas [Ti piaccia, o Santissima Trinità],
- e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sarà piú quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l’anno.
2) Finalità ordinaria.
È il Sacrificio propiziatorio. Anch’essa è deviata, perché anziché mettere l’accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituí il Sacramento nell’ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente[6].
3) Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l’offerta in una specie di scambio di doni tra l’uomo e Dio; l’uomo porta il pane e Dio lo cambia in ‘pane di vita’; l’uomo porta il vino e Dio lo cambia in ‘bevanda spirituale’:
“Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)” [Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’universo che dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane (o il vino) che ti offriamo, frutto della terra (della vite) e del lavoro dell’uomo, perché diventi per noi pane di vita (o bevanda spirituale)][7].
Superfluo notare l’assoluta indeterminatezza delle due formule “panis vitæ” [pane di vita]; e “potus spiritualis” [bevanda di salvezza], che possono significare qualunque cosa. Ritroviamo qui l’identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino ‘spiritualmente’ (e non sostanzialmente) mutati[8].
Nella preparazione dell’offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il “Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti“, [O Dio, che in modo meravigliso creasti la nobile natura dell’uomo, e ancor più meravigliosamente la riformasti] era un richiamo all’antica condizione di innocenza dell’uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e rapida di tutta l’economia del Sacrificio, da Adamo all’attimo presente.
La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse “cum odore suavitatis” [come soave profumo] al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è piú distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.
Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero sottolineare l’unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all’offerta dell’Ostia da immolare.
L’unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.
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IV
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Passiamo all’essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo[9].
Eccone le ragioni:
(1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta “Prex eucharistica” [preghiera eucaristica] è: “ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii” [che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca a Cristo nella proclamazione delle grandezze divine e nell’offerta del sacrificio] (n. 54, fine).
Di quale sacrificio si tratta? Chi è l’offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.
La definizione in limine della “Prex eucharistica” è questa: “Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis” [Ora ha inizio il centro e il culmine di tutta la celebrazione, ovvera la preghiera eucaristica, preghiera d’azione di grazie e di santificazione] (n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe [Accogli], non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
(2) La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né piú né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, cosí lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione – unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento – ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63).
Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator [Vieni santificatore]), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
L’eliminazione poi:
- delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione);
- della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
- della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
- della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
- della palla a protezione del calice;
- della doratura interna dei vasi sacri;
- della consacrazione dell’altare mobile;
- della pietra sacra e delle reliquie nell’altare mobile e sulla mensa, quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle cene eucaristiche in case private);
- delle tre tovaglie d’altare, ridotte a una sola;
- del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
- di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell’Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico “reverenter accipiatur” [si raccolga con riverenza] (n. 239); tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l’implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
3) La funzione assegnata all’altare (n. 262).
L’altare è quasi costantemente chiamato mensa[10]. “Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ” [altare, o mensa del Signore, che è il centro della liturgia eucaristica] n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l’altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli cosí che l’attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).
Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un’unica presenza[11].
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà piú il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni[12], cosí che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate[13].
(4) Le formule consacratorie. L’antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: narratio institutionis [racconto della istituzione della Messa] (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che Ecclesia memoriam ipsius Christi agit [La Chiesa compie il memoriale di Cristo] (n. 55c).
In breve: la teoria proposta per l’epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell’anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi [significato] delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: Hoc est Corpus meum [questo è il mio corpo] (e non: Hoc est Corpus Christi [questo è il corpo di Cristo])[15].
L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: (Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias [Annunciamo la tua morte, Signore … in attesa della tua venuta]) introduce, travestita di escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta. Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias [Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo questo calice, annunciamo la tua morte, Signore, in attesa della tua venuta], dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità[16].
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V
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Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell’ordine:
1) il Cristo.
2) il sacerdote;
3) la Chiesa;
4) i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta [letteralmente: sciolta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: “Missa est sacra synaxis seu congregatio populi” [La Messa è la sacra sinassi o assemblea del popolo], al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la “presenza” del Signore (n. 28): “Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium” [Con il saluto del quale e la risposta del popolo si manifesta il mistero della chiesa in asemblea]. Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza. Ciò si ripete ovunque:
- il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
- l’inaudita distinzione tra “Missa cum populo” [messa col popolo]e “Missa sine populo” [messa senza popolo] (nn. 203-231);
- la definizione dell’“oratio universalis seu fidelium” [preghiera universale o dei fedeli] (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta l’“ufficio sacerdotale” del popolo (“populus sui sacerdotii munus exercens” [il popolo che esercita il suo ufficio sacerdotale]) presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto piú che questi si fa interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei due Memento.
Nella “Prex eucharistica III” [preghiera eucaristica III] (“Vere sanctus” [veramente santo], p. 123) è addirittura detto al Signore: “populum tibi congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo” [non cessi di radunare un popolo per te, affinché dal sorgere del sole fino al tramonto offra un’offerta senza macchia al tuo nome]: ove l’affinché fa pensare che l’elemento indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui chi sia l’offerente[17] il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi. Di questo passo non stupirebbe l’autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo piú come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi [come rappresentante di Cristo].
Poi in funzione della Chiesa come un quidam de populo [una persona qualsiasi]. Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto. Nel Confiteor [Confesso a Dio…] divenuto collettivo egli non è piú giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú dato di impartire l’assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è integrato ai fratres [fratelli]. Persino il chierichetto lo chiama cosí nel Confiteor [Confesso] della Missa sine populo [Messa senza popolo]. Già prima di quest’ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote – il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del Sacrificio) – e quella dei fedeli. Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro protestante.
La sparizione o l’uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano – n. 298) vanificano ancor piú l’originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è piú rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice “graduato” che uno o due segni distinguono appena dalla massa[18]: “un po’ piú uomo degli altri” per citare la formula involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]. Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l’unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso, quello della “Missa sine populo” [Messa senza popolo] ci si degna di ammettere che la Messa è “Actio Christi et Ecclesiæ” [Azione di Cristo e della Chiesa] (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della Missa cum populo [Messa col popolo] non si accenna che allo scopo di “far memoria di Cristo” e santificare i presenti. “Presbyter celebrans… populum… sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri” [il sacerdote celebrante si associa il popolo nell’offrire a Dio Padre il sacrificio per Cristo nello Spirito Santo] (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso “per Spiritum Sanctum Deo Patri” [a Dio Padre per mezzo dello Spirito Santo].
S’inseriscono in questo contesto:
- la gravissima omissione delle clausole “Per Christum Dominum nostrum” [Per Cristo Signor nostro], garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15,16; 16, 23-24);
- l’ossessivo “paschalismo”: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
- l’escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante – non piú militante, si badi, contro la Potestas tenebrarum [il potere delle tenebre] – verso un futuro che non è piú vincolato all’eterno (quindi anche all’eterno presente) ma a un vero e proprio avvenire temporale.
La Chiesa – Una, Santa, Cattolica, Apostolica – è umiliata come tale nella formula che, nella Prex eucharistica IV [Prece eucaristica IV], ha sostituito la preghiera del Canone romano “pro omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus” [e per tutti i cultori osservanti e cattolici dell’apostolica e cattolica fede]. Ora essi sono, né piú né meno: “omnium qui te quærunt corde sincero” [tutti coloro che ti cercano con cuore sincero].
Cosí, nel Memento [Ricordati] dei morti, questi non sono piú trapassati “cum signo fidei et dormiunt in somno pacis” [col segno della fede e dormono il sonno della pace] ma semplicemente “obierunt in pace Christi tui” [morirono nella pace del tuo Cristo]; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di “omnium defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti” [di tutti i defunti di cui tu solo conosci la fede].
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento [Ricordati] particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio[20].
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
- Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti all’anonimato nella seconda parte del Confiteor [Confesso] collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di S. Michele, dalla prima[21].
- Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della Prex II [Secondo canone].
- Soppressa nel Communicantes [Uniti in comunione] la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa romana.
- Soppressa, nel Libera nos [Liberaci], la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi piú chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L’unità della Chiesa è compromessa fino all’intollerabile omissione, nell’intero Ordo, comprese le tre nuove Preces (e con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
- Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes [preghiere di commiato] e della benedizione finale; dell’Ite Missa est [Andate. La Messa è finita][22], poi, persino nella messa celebrata con l’inserviente.
- Il doppio Confiteor [Confesso] mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi indegno dell’alta missione, del “tremendum mysterium” [tremendo mistero] che andava a celebrare, e addirittura (nell’Aufer a nobis [Cancella, o Signore]) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell’Oramus te, Domine [Ti preghiamo, o Signore]) i meriti dei martiri di cui l’altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo sacro nel qual caso l’altare può essere sostituito da una semplice “mensa” senza pietra consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del “convivium” [banchetto] e sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell’offerta;
- l’accenno al pane anziché all’azimo;
- la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie [sotto entrambe le specie, sia il pane che il vino]) di toccare i vasi sacri (n.244d);
- l’inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com’è a “spiegare” ciò che sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della “mulier idonea” [donna idonea] che, per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri “ministeria quae extra presbyterium peraguntur” [che si richiedono fuori dal presbiterio] (n. 70).
- Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti[23].
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VI
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Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo[24] ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante. [Il secondo canone, detto di S. Ippolito, è quello ora in uso comunemente nelle celebrazioni. N.d.c.].
Il nuovo Messale fu presentato a Roma come “ampio materiale pastorale”, “testo piú pastorale che giuridico” su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà responsabile “dell’edizione e della costante revisione dei libri liturgici”.
Scrive l’ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria[25]: “i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile «romano» dovrà essere adattato all’individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni”.
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che “in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio… quovis ture fragrantior ascendat” [in tanta varietà di lingue un’unica e medesima (?) preghiera … ascenda al cielo più fragrante dell’incenso].
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio riconobbe “liturgiæ romanæ proprium” [proprio della liturgia romana] (Sacros. Conc. n. 116), ordinando che “principem locum obtineat” [tenga il luogo principale] (ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l’altro, dei testi dell’Introito e del Graduale.
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo. Spezzata cosí per sempre l’unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell’unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
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VII
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La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente.
Il risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura opposto. A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
- alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
- alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie [sotto entrambe le specie].
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era piú prossimo all’orientale[26] e, rinnegando l’inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso.
Lo si è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiú ne allontaneranno l’Oriente, come l’hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l’organismo, intaccandone l’unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.
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VIII
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Volere ad ogni costo riportare questo culto all’antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità primigenia, secondo quell’insano archeologismo cosí tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII[28], significa – come purtroppo si è visto – smantellarlo di tutte le sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli[29], e proprio in uno dei momenti piú critici, forse il piú critico che la storia della Chiesa ricordi.
Oggi, non piú all’esterno, ma all’interno stesso della cattolicità l’esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta[30]; l’unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata ma già tragicamente compromessa[31] e gli errori contro la fede s’impongono, piú che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute[32].
L’abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un’altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo piú mite, un incalcolabile errore.
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Corpus Domini 1969
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NOTE
[1] “Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) … La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla piú antica liturgia comune. Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr.Pl.jr., Ep. 96] … Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa” (A. Fortescue). “Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai piú la vera Chiesa Cattolica” (P. Louis Bouyer).
[2] In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del ConcilioVaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che giustifichi tale definizione. Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona cosí: “…I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo, in modo che … nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia … E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo.” Ed ecco l’altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 33): “Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l’assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti”. Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione. Notiamo poi l’alterazione radicale, in questa definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): Est ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium… [L’assemblea eucaristica è il centro della riunione dei fedeli]. Fatto sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto.
[3] Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri [In primo luogo il Santo Concilio insegna e apertamente e semplicemente professa che nell’almo sacramento della santa eucarestia dopo la consacrazione del pane e del vino, sotto quelle specie sensibili si contiene veramente, realmente e sostanzialmente il Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo] (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio [Il Santissimo Sacrificio della Messa]), la dottrina sancita (Denz, nn. 937 fino a 956) è chiaramente sintetizzata in nove canoni:
[5] Si dovrebbe aggiungere anche l’Ascensione ove si volesse riprendere l’Unde et memores [Per cui, anche noi memori], che d’altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: ….tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis [sia della sua beata Passione, della sua Resurrezione dagli Inferi, ma anche della sua gloriosa Ascensione in cielo].
[6] Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento [Ricordati] dei morti e della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato.
[7]Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della ‘transignificazione’ e ‘transfinalizzazione’. …aut ratione signi… ita instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento… aut transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua loquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola «transignificatione» et «transfinalizatione», ut aiunt, consistant [… o insistere a tal punto sulla natura di ‘segno’ come se l’elemento simbolico, di cui nessuno nega la presenza nella Santissima Eucarestia, esprima tutta quanta ed esaurisca l’essenza della presenza di Cristo in questo Sacramento … o trattare del mistero della transustanziazione come se la mirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta quella del vino nel sangue di Cristo, di cui parla il Tridentino, possa essere ridotta alla sola ‘transignificazione’ o ‘transfinalizzazione’ come alcuni sostengono] (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).
[8] L’introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es. spiritualis alimonia, cibus spiritualis, potus spiritualis, ecc.[nutrimento spirituale, cibo spirituale, bevanda spirituale]) è ampiamente denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide altissimarum rerum suboriantur opiniones [fatta salva l’integrità della Fede, bisogna conservare anche un modo appropriato d’esprimersi, affinchè, impiegando termini inappropriati, non insorgano false opinioni – il che mai avvenga – sui misteri profondissimi della nostra Fede]; cita Sant’Agostino: Nobis tamen ad certam regulam loqui fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem [Dobbiamo esprimerci tuttavia con precisione per non generare con un uso improprio delle parole empie opinioni sulle cose che significano] (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41,300); continua: Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro libitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat… Eodem modo ferendus non est quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit [Si conservino dunque scrupolosamente le norme linguistiche che la Chiesa confermò con un’applicazione secolare e non senza l’influsso dello Spirito Santo e l’autorità dei Concilii, che spesso si son rivelate segno di riconoscimento e vessillo della Fede ortodossa, e nessuno a suo talento e per qualsiasi pretesto di nuova scienza presuma mutarle … Parimenti non è accettabile voler derogare a proprio piacimento alle formule con cui il Concilio di Trento propose a credere il Mistero Eucaristico] (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
[9] In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc.,n. 48) il Vaticano II.
[10] Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur [Altare, su cui si fa presente sotto le specie sacramentali il sacrificio della croce]. Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell’altra costante denominazione.
[11] Separare il Tabernacolo dall’altare equivale a separare due cose che in forza della loro natura debbono restare unite (Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi – Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
[12] Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola hostia [vittima] tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato di vittima. Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di cena e di cibo.
[13] Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l’altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt’altra natura perché non ha realtà che in usu [nel momento stesso che se ne fa uso] mentre quella è in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento. Tipicamente protestanti le formule: Deus populum suum alloquitur… Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest [Dio parla al suo popolo … Cristo per mezzo della parola è presente in mezzo ai suoi fedeli] (n. 33, cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell’individuo e limitata nel tempo. L’errore non è senza la piú tragica conseguenza: l’affermazione, o l’insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all’usus[uso limitato alla celebrazione] e finisca insieme con esso.
[14] L’azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli ‘a mangiare’ il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II – Il Culto Eucaristico – della Mediator Dei).
[15] Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtú dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum [per la forza stessa delle parole] o piú precisamente in virtú del modus significandi [significato inteso] che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo alfine di ‘fare ciò che fa la Chiesa’consacreranno validamente? È lecito dubitarne.
[16] Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste espressioni appartengono a quello stesso contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi esprimono.
[17] Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est quidem principalis minister.Fideles mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt. [Propriamente parlando, tutti i sacerdoti e loro soltanto sono i ministri secondari del sacrificio della Messa. Cristo infatti ne è il principale. I fedeli poi offrono il sacrificio, ma non in senso stretto, mediatamente per mezzo dei sacerdoti] (Cfr. Cons. Trid. Sess.XXII, Can. 2).
[18]Notiamo un’innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. MediatorDei, I, 5 (v. p. 36, nota 28).
[19] P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
[20] In alcune traduzioni del Canone romano, il locus refrigerii, lucis et pacis [luogo di refrigerio, luce e pace] veniva reso come un semplice stato (beatitudine, luce, pace). Che dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
[21] In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l’omissione, menzionata nell’accusa dei peccati al Confiteor…
[22] Alla conferenza stampa in cui fu presentato ‘Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in Dominus tecum, Ora, frater, [Il Signore sia con te, Prega, fratello…] etc. le salutationes [salutazioni] nella Missa sine populo [messa privata senza i fedeli], … perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità.
[23] A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie [sotto entrambe le specie] durante questa.
[24] Che si è voluto presentare come ‘canone di Ippolito’ mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza verbale.
[25] Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
[26] Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell’Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel Cherubicon; alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo; alla consacrazione celata, evidente simbolo dell’Inconoscibile a cui l’intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum [rivolto verso Dio] e mai versus ad populum [rivolto verso il popolo]; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all’atteggiamento essenzialmente contemplativo del popolo. Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino piú di un’ora, e le costanti definizioni che vi si trovano (“tremenda e inenarrabile liturgia”, “tremendi, celesti, vivificanti misteri”, ecc.) bastino a dir tutto. Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di “cena”o di “banchetto” appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era nella Messa romana.
[27] Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione “ut stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo… in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.) … quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit [per strappare dalle radici la zizzania degli abominevoli errori e degli scismi che il nemico in questi nostri tempi ha sovraseminato sulla dottrina della fede, sull’uso e sul culto della sacrosanta eucaristia, che, d’altra parte, il nostro Salvatore ha lasciato nella sua Chiesa come segno d’unità e d’amore, con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti ed uniti fra loro] (DB, 873).
[28] “Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus est, cruciatus… Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat «fidei depositi» custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit” [È certamente cosa saggia e lodevolissima risalira con la mente e con l’anima alle fonti della sacra liturgia, perché il suo studio, riportandoci alle origini, aiuta non poco a comprendere il significato delle feste e a indagare con maggiore profondità e accuratezza il senso delle cerimonie, ma non è certamente cosa altrettanto saggia e lodevole ridurre tutto e in ogni modo all’antico. Così, per fare un esempio, è fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti … Questo modo di pensare e d’agire infatti fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono, con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del ‘deposito della fede’ affidatole dal suo Divin Fondatore a buon diritto condannò] (Mediator Dei, I, 5).
[29] “…Non ci illuda il criterio di ridurre l’edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone…” (Paolo VI, Ecclesiam suam).
[30] Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
[31] Vi sono anche tra noi quegli “schismata” [scismi], quelle “scissuræ” [dissensioni] che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia (cfr. Paolo VI, ibid.).
[32] È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro che – mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla – ne partirono decisi a ‘farne esplodere’ il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, [Consiglio per l’applicazione della Costituzione sulla sacra liturgia] una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino, gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora piú catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica.
presentato al Pontefice Paolo VI
dai Cardinali Ottaviani e Bacci
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Lettera di presentazione a Paolo VI
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Beatissimo Padre,esaminato e fatto esaminare il Novus Ordo [Nuovo Ordinario della Messa] preparato dagli esperti del Consilium ad exquendam Constitutionem de Sacra Liturgia [Consilio per l’applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia], dopo una lunga riflessione e preghiera sentiamo il dovere, dinanzi a Dio ed alla Santità Vostra, di esprimere le considerazioni seguenti:
1) Come dimostra sufficientemente il pur breve esame critico allegato – opera di uno scelto gruppo di teologi, liturgisti e pastori d’anime – il Novus Ordo Missæ [Nuovo Ordinario della Messa], considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i canoni del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero.
2) La ragioni pastorali addotte a sostegno di tale gravissima frattura – anche se di fronte alle ragioni dottrinali avessero diritto di sussistere – non appaiono sufficienti. Quanto di nuovo appare nel Novus Ordo Missæ (per contro, quanto di perenne vi trova soltanto un posto minore o diverso, se pure ancora ve lo trova) potrebbe dar forza di certezza al dubbio – già serpeggiante purtroppo in numerosi ambienti – che verità sempre credute dal popolo cristiano possano mutarsi o tacersi senza infedeltà al sacro deposito dottrinale cui la fede cattolica è vincolata in eterno.
Le recenti riforme hanno dimostrato a sufficienza che nuovi mutamenti nella liturgia non porterebbero se non al totale disorientamento dei fedeli che già danno segni di insofferenza e di inequivocabile diminuzione di fede. Nella parte migliore del Clero ciò si concreta in una torturante crisi di coscienza di cui abbiamo innumerevoli e quotidiane testimonianze.
3) Siamo certi che questa considerazioni, che possono giungere soltanto dalla viva voce dei pastori e del gregge, non potranno non trovare un’eco nel cuore paterno di Vostra Santità, sempre cosí profondamente sollecito dei bisogni spirituali dei figli della Chiesa. Sempre i sudditi, al cui bene è intesa una legge, laddove questa si dimostri viceversa nociva, hanno avuto, piú che il diritto, il dovere di chiedere con filiale fiducia al legislatore l’abrogazione della legge stessa.
Supplichiamo perciò istantemente la Santità Vostra di non volerci togliere – in un momento di cosí dolorose lacerazioni e di sempre maggiori pericoli per la purezza della Fede e l’unità della Chiesa, che trovano eco quotidiana e dolente nella voce del Padre comune – la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V dalla Santità Vostra cosí altamente lodato e dall’intero mondo cattolico cosí profondamente venerato ed amato.
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A. Card. Ottaviani A. Card. Bacci
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Breve esame critico del Novus Ordo Missae
I
Nell’ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta messa normativa, ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.
Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet [non è gradito]), moltissime e sostanziali riserve (62 juxta modum [con riserva]) e 4 astensioni, su 187 votanti.
La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto» da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito: «[vi]si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa».
Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo.
Nella Costituzione Apostolica si afferma che l’antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor piú remota antichità[1] fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo… copiosus aluerunt» [numerosi santissimi uomini, attinto da esso con abbondanza … alimentarono il loro spirito di devozione verso Dio].
E tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium» [dal momento in cui iniziò a crescere e diffondersi sempre più tra il popolo cristiano lo studio della sacra liturgia].
Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando – soprattutto per merito del grande S. Pio X – esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.
Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l’uso di esso, con l’opportuna catechesi, potesse impedire una piú piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.
Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa “messa normativa” oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce.
Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico.
Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant» [in modo da render ancor più chiara l’intrinseca ragione delle singole parti e la loro mutua connessione].
Vedremo subito come l’Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria. Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti piú modernisti.
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II
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Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ» [La struttura della Messa]:
«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum[2]. Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi ‘Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum’ (Mt. 18, 20)». [La Cena del Signore, ossia la Messa è la sacra sinassi, ovvero l’assemblea del popolo di Dio riunito sotto la presidenza del sacerdote per celebrare il memoriale del Signore. Perciò s’applica in modo speciale alla riunione della santa chiesa locale la promessa di Cristo: ‘Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro’].
La definizione di Messa è dunque limitata a quella di cena, il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale cena è inoltre caratterizzata dall’assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedí Santo.
Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell’assemblea[3]. Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione.
Qui l’omissione volontaria equivale al loro ‘superamento’, quindi, almeno in pratica, alla loro negazione[4].
Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma – aggravando il già gravissimo equivoco – che vale “eminenter” [in modo speciale] per questa assemblea la promessa del Cristo: “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18,20) [Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro].
Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.
Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l’affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli “instituantur et reficiantur” [siano istruiti e nutriti]: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.
Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et liturgia eucharistica, ecc. [Azione di Cristo e del popolo di Dio, Cena del Signore ossia Messa, Convito Pasquale, Partecipazione comunitaria alla mensa del Signore, Preghiera eucaristica, Liturgia della Parola e Liturgia Eucaristica ecc.]
Come è fin troppo evidente, l’accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale, anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula “Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini” [Memoriale della Passione e Resurrezione del Signore] è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente[5].
Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e ribaditi.
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III
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E veniamo alle finalità della Messa.
1) Finalità ultima. È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo l’esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: “Ingrediens mundum dicit: Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi»(Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5) [Entrando nel mondo dice: non hai voluto sacrificio, né offerta, ma mi preparasti un corpo].
Questa finalità è scomparsa:
- dall’Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancte Pater [Accetta, Padre Santo],
- dalla conclusione della Messa con il Placeat tibi, Sancta Trinitas [Ti piaccia, o Santissima Trinità],
- e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sarà piú quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l’anno.
2) Finalità ordinaria.
È il Sacrificio propiziatorio. Anch’essa è deviata, perché anziché mettere l’accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituí il Sacramento nell’ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente[6].
3) Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l’offerta in una specie di scambio di doni tra l’uomo e Dio; l’uomo porta il pane e Dio lo cambia in ‘pane di vita’; l’uomo porta il vino e Dio lo cambia in ‘bevanda spirituale’:
“Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)” [Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’universo che dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane (o il vino) che ti offriamo, frutto della terra (della vite) e del lavoro dell’uomo, perché diventi per noi pane di vita (o bevanda spirituale)][7].
Superfluo notare l’assoluta indeterminatezza delle due formule “panis vitæ” [pane di vita]; e “potus spiritualis” [bevanda di salvezza], che possono significare qualunque cosa. Ritroviamo qui l’identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino ‘spiritualmente’ (e non sostanzialmente) mutati[8].
Nella preparazione dell’offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il “Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti“, [O Dio, che in modo meravigliso creasti la nobile natura dell’uomo, e ancor più meravigliosamente la riformasti] era un richiamo all’antica condizione di innocenza dell’uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e rapida di tutta l’economia del Sacrificio, da Adamo all’attimo presente.
La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse “cum odore suavitatis” [come soave profumo] al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è piú distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.
Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero sottolineare l’unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all’offerta dell’Ostia da immolare.
L’unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.
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IV
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Passiamo all’essenza del Sacrificio.
Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo[9].
Eccone le ragioni:
(1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta “Prex eucharistica” [preghiera eucaristica] è: “ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii” [che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca a Cristo nella proclamazione delle grandezze divine e nell’offerta del sacrificio] (n. 54, fine).
Di quale sacrificio si tratta? Chi è l’offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.
La definizione in limine della “Prex eucharistica” è questa: “Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis” [Ora ha inizio il centro e il culmine di tutta la celebrazione, ovvera la preghiera eucaristica, preghiera d’azione di grazie e di santificazione] (n. 54, pr.).
Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe [Accogli], non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.
(2) La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né piú né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, cosí lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione – unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento – ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63).
Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.
La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator [Vieni santificatore]), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.
L’eliminazione poi:
- delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione);
- della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
- della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
- della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
- della palla a protezione del calice;
- della doratura interna dei vasi sacri;
- della consacrazione dell’altare mobile;
- della pietra sacra e delle reliquie nell’altare mobile e sulla mensa, quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle cene eucaristiche in case private);
- delle tre tovaglie d’altare, ridotte a una sola;
- del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
- di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell’Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico “reverenter accipiatur” [si raccolga con riverenza] (n. 239); tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l’implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.
3) La funzione assegnata all’altare (n. 262).
L’altare è quasi costantemente chiamato mensa[10]. “Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ” [altare, o mensa del Signore, che è il centro della liturgia eucaristica] n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l’altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli cosí che l’attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).
Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un’unica presenza[11].
Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà piú il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.
Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni[12], cosí che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate[13].
(4) Le formule consacratorie. L’antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:
- a) il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l’inserto paolino “mysterium fidei”[mistero della fede] era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
- b) la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
- c) l’anamnesi (Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis, [Ogniqualvolta farete questo, lo farete in memoria di me] che in greco suona: “eisten emou anamnesin”:volti alla mia memoria). Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice memoria di lui o dell’evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece (hæc … in mei memoriam facietis[queste cose … le farete in memoria di me]) e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: narratio institutionis [racconto della istituzione della Messa] (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che Ecclesia memoriam ipsius Christi agit [La Chiesa compie il memoriale di Cristo] (n. 55c).
In breve: la teoria proposta per l’epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell’anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi [significato] delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: Hoc est Corpus meum [questo è il mio corpo] (e non: Hoc est Corpus Christi [questo è il corpo di Cristo])[15].
L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: (Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias [Annunciamo la tua morte, Signore … in attesa della tua venuta]) introduce, travestita di escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta. Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias [Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo questo calice, annunciamo la tua morte, Signore, in attesa della tua venuta], dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambiguità[16].
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V
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Veniamo ora alla realizzazione del Sacrificio.
I quattro elementi di esso erano, nell’ordine:
1) il Cristo.
2) il sacerdote;
3) la Chiesa;
4) i fedeli.
1) Nel Novus Ordo, la posizione attribuita ai fedeli è autonoma (ab-soluta [letteralmente: sciolta), quindi totalmente falsa: dalla definizione iniziale: “Missa est sacra synaxis seu congregatio populi” [La Messa è la sacra sinassi o assemblea del popolo], al saluto del sacerdote al popolo, che esprimerebbe alla comunità riunita la “presenza” del Signore (n. 28): “Qua salutatione et populi responsione manifestatur ecclesiæ congregatæ mysterium” [Con il saluto del quale e la risposta del popolo si manifesta il mistero della chiesa in asemblea]. Dunque vera presenza di Cristo, ma solo spirituale, e mistero della Chiesa, ma come pura assemblea che manifesta e sollecita tale presenza. Ciò si ripete ovunque:
- il carattere comunitario della Messa ossessivamente ribadito (nn. 74-152);
- l’inaudita distinzione tra “Missa cum populo” [messa col popolo]e “Missa sine populo” [messa senza popolo] (nn. 203-231);
- la definizione dell’“oratio universalis seu fidelium” [preghiera universale o dei fedeli] (n. 45), ove si sottolinea ancora una volta l’“ufficio sacerdotale” del popolo (“populus sui sacerdotii munus exercens” [il popolo che esercita il suo ufficio sacerdotale]) presentato in modo equivoco perché ne viene taciuta la subordinazione a quello del sacerdote; tanto piú che questi si fa interprete, nella sua qualità di mediatore consacrato, di tutte le intenzioni del popolo nel Te igitur e nei due Memento.
Nella “Prex eucharistica III” [preghiera eucaristica III] (“Vere sanctus” [veramente santo], p. 123) è addirittura detto al Signore: “populum tibi congregare non desinis, ut a solis ortu usque ad occasum oblatio munda offeratur nomini tuo” [non cessi di radunare un popolo per te, affinché dal sorgere del sole fino al tramonto offra un’offerta senza macchia al tuo nome]: ove l’affinché fa pensare che l’elemento indispensabile alla celebrazione sia il popolo anziché il sacerdote; e poiché non è precisato neppure qui chi sia l’offerente[17] il popolo stesso appare investito di poteri sacerdotali autonomi. Di questo passo non stupirebbe l’autorizzazione al popolo, tra qualche tempo, di congiungersi al sacerdote nella pronuncia delle formule consacratorie (ciò che del resto sembra già accada, qua e là).
2) La posizione del sacerdote è minimizzata, alterata, falsata.
Prima in funzione del popolo di cui egli è caratterizzato per lo piú come mero presidente o fratello anziché come ministro consacrato che celebra in persona Christi [come rappresentante di Cristo].
Poi in funzione della Chiesa come un quidam de populo [una persona qualsiasi]. Nella definizione della epiclesi (n. 55c) le invocazioni sono attribuite anonimamente alla Chiesa: il ruolo del sacerdote è dissolto. Nel Confiteor [Confesso a Dio…] divenuto collettivo egli non è piú giudice, testimone e intercessore presso Dio; è logico dunque che non gli sia piú dato di impartire l’assoluzione, che è stata infatti soppressa. Egli è integrato ai fratres [fratelli]. Persino il chierichetto lo chiama cosí nel Confiteor [Confesso] della Missa sine populo [Messa senza popolo]. Già prima di quest’ultima riforma era stata soppressa la significativa distinzione tra la Comunione del sacerdote – il momento in cui, per cosí dire, il Sommo ed Eterno Sacerdote e colui che agiva in sua persona si fondevano in intimissima unione (nella quale era il compimento del Sacrificio) – e quella dei fedeli. Non piú una parola ormai sul suo potere di sacrificatore, sul suo atto consacratorio, sulla realizzazione per suo mezzo della Presenza eucaristica. Egli appare nulla piú che un ministro protestante.
La sparizione o l’uso facoltativo di molti paramenti (in certi casi alba e stola bastano – n. 298) vanificano ancor piú l’originale conformazione al Cristo: il sacerdote non è piú rivestito di tutte le virtú di Lui; egli è un semplice “graduato” che uno o due segni distinguono appena dalla massa[18]: “un po’ piú uomo degli altri” per citare la formula involontariamente umoristica di un moderno predicatore[19]. Di nuovo, come nella opposizione degli altari, si separa ciò che Dio ha unito: l’unico Sacerdozio del Verbo di Dio.
3) Infine la posizione della Chiesa di fronte al Cristo.
In un solo caso, quello della “Missa sine populo” [Messa senza popolo] ci si degna di ammettere che la Messa è “Actio Christi et Ecclesiæ” [Azione di Cristo e della Chiesa] (n. 4, cfr. Presb. Ord. n. 13), mentre nel caso della Missa cum populo [Messa col popolo] non si accenna che allo scopo di “far memoria di Cristo” e santificare i presenti. “Presbyter celebrans… populum… sibi sociat in offerendo sacrificio per Christum in Spiritu Sancto Deo Patri” [il sacerdote celebrante si associa il popolo nell’offrire a Dio Padre il sacrificio per Cristo nello Spirito Santo] (n. 60), anziché associare il popolo a Cristo che offre sé stesso “per Spiritum Sanctum Deo Patri” [a Dio Padre per mezzo dello Spirito Santo].
S’inseriscono in questo contesto:
- la gravissima omissione delle clausole “Per Christum Dominum nostrum” [Per Cristo Signor nostro], garanzia di esaudimento data alla Chiesa di tutti i tempi (Io. 14, 13-14,. 15,16; 16, 23-24);
- l’ossessivo “paschalismo”: quasi che la comunicazione della grazia non presentasse altri aspetti altrettanto importanti;
- l’escatologismo dubbio e maniaco, in cui la comunicazione di una realtà, la grazia, che è permanente ed eterna, è ricondotta alla dimensione del tempo: popolo in marcia, chiesa peregrinante – non piú militante, si badi, contro la Potestas tenebrarum [il potere delle tenebre] – verso un futuro che non è piú vincolato all’eterno (quindi anche all’eterno presente) ma a un vero e proprio avvenire temporale.
La Chiesa – Una, Santa, Cattolica, Apostolica – è umiliata come tale nella formula che, nella Prex eucharistica IV [Prece eucaristica IV], ha sostituito la preghiera del Canone romano “pro omnibus orthodoxis atque catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus” [e per tutti i cultori osservanti e cattolici dell’apostolica e cattolica fede]. Ora essi sono, né piú né meno: “omnium qui te quærunt corde sincero” [tutti coloro che ti cercano con cuore sincero].
Cosí, nel Memento [Ricordati] dei morti, questi non sono piú trapassati “cum signo fidei et dormiunt in somno pacis” [col segno della fede e dormono il sonno della pace] ma semplicemente “obierunt in pace Christi tui” [morirono nella pace del tuo Cristo]; ad essi si aggiunge, con nuovo e patente scapito del concetto di unitarietà e visibilità, la turba di “omnium defunctorum quorum fidem tu solus cognovisti” [di tutti i defunti di cui tu solo conosci la fede].
In nessuna delle tre nuove preci, poi, vi è il minimo cenno, come già si è detto, allo stato di sofferenza dei trapassati, in nessuna la possibilità di un Memento [Ricordati] particolare: il che, ancora una volta, snerva la fede nella natura propiziatoria e redentiva del Sacrificio[20].
Omissioni dissacranti avviliscono ovunque il Mistero della Chiesa.
- Esso è misconosciuto innanzi tutto come gerarchia sacra: Angeli e Santi sono ridotti all’anonimato nella seconda parte del Confiteor [Confesso] collettivo: sono scomparsi come testimoni e giudici, nella persona di S. Michele, dalla prima[21].
- Scomparse anche le varie Gerarchie Angeliche (e ciò è senza precedenti) dal nuovo Prefazio della Prex II [Secondo canone].
- Soppressa nel Communicantes [Uniti in comunione] la memoria dei Pontefici e dei Santi Martiri su cui la Chiesa di Roma è fondata, che furono senza dubbio i trasmettitori delle tradizioni apostoliche e le completarono in ciò che divenne, con S. Gregorio, la Messa romana.
- Soppressa, nel Libera nos [Liberaci], la menzione della B. Vergine, degli Apostoli e di tutti i Santi: la sua e loro intercessione non è quindi piú chiesta neppure nel momento del pericolo.
- L’unità della Chiesa è compromessa fino all’intollerabile omissione, nell’intero Ordo, comprese le tre nuove Preces (e con la sola eccezione del Communicantes del Canone romano), dei nomi degli Apostoli Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa di Roma, nonché dei nomi degli altri Apostoli, fondamento e segno della Chiesa unica e universale.
- Chiaro attentato al dogma della Comunione dei Santi: la soppressione, quando il sacerdote celebri senza inserviente, di tutte le salutationes [preghiere di commiato] e della benedizione finale; dell’Ite Missa est [Andate. La Messa è finita][22], poi, persino nella messa celebrata con l’inserviente.
- Il doppio Confiteor [Confesso] mostrava come il prete, in veste di ministro di Cristo e in profonda inclinazione, riconoscendosi indegno dell’alta missione, del “tremendum mysterium” [tremendo mistero] che andava a celebrare, e addirittura (nell’Aufer a nobis [Cancella, o Signore]) di entrare nel Santo dei Santi, invocava ad intercessione (nell’Oramus te, Domine [Ti preghiamo, o Signore]) i meriti dei martiri di cui l’altare racchiudeva le reliquie. Entrambe le preghiere sono state soppresse. Vale qui ciò che già è stato detto per il doppio Confiteor e la doppia Comunione.
- Sono profanate le condizioni del Sacrificio come segno di una cosa sacra: vedi ad esempio la celebrazione fuori del luogo sacro nel qual caso l’altare può essere sostituito da una semplice “mensa” senza pietra consacrata né reliquie, con una sola tovaglia (nn. 260, 265). Anche qui vale quanto già detto a proposito della Presenza Reale: dissociazione del “convivium” [banchetto] e sacrificio della cena, dalla stessa Presenza Reale.
La desacralizzazione è perfezionata grazie alle nuove, grottesche modalità dell’offerta;
- l’accenno al pane anziché all’azimo;
- la facoltà, data persino ai chierichetti (nonché ai laici nella comunione sub utraque specie [sotto entrambe le specie, sia il pane che il vino]) di toccare i vasi sacri (n.244d);
- l’inverosimile atmosfera che si creerà nella chiesa ove si alterneranno senza tregua sacerdote, diacono, suddiacono, salmista, commentatore (il sacerdote stesso par divenuto tale, continuamente incoraggiato com’è a “spiegare” ciò che sta per compiere), lettori (uomini e donne) chierici o laici che accolgono i fedeli alla porta e li accompagnano ai loro posti, fanno la colletta, portano e smistano offerte;
- e, in tanto delirio scritturistico, la presenza antiveterotestamentaria, antipaolina della “mulier idonea” [donna idonea] che, per la prima volta nella tradizione della Chiesa, sarà autorizzata a leggere le lezioni e adempiere anche ad altri “ministeria quae extra presbyterium peraguntur” [che si richiedono fuori dal presbiterio] (n. 70).
- Infine la mania concelebratoria, che finirà di distruggere la pietà eucaristica del sacerdote e di obnubilare la figura centrale del Cristo, unico Sacerdote e Vittima, e dissolverla nella presenza collettiva dei concelebranti[23].
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VI
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Ci siamo limitati ad un sommario esame del Novus Ordo, nelle sue deviazioni piú gravi dalla teologia della Messa cattolica. Le osservazioni fatte sono soltanto quelle che hanno un carattere tipico. Una valutazione completa delle insidie, dei pericoli, degli elementi spiritualmente e psicologicamente distruttivi che il documento contiene, sia nei testi come nelle rubriche e nelle istruzioni, richiederebbe ben altra mole di lavoro.
Poiché furono criticati ripetutamente e autorevolmente nella loro forma e sostanza, abbiamo sorvolato sui nuovi canoni, di cui il secondo[24] ha immediatamente scandalizzato i fedeli per la sua brevità. Di esso si è potuto scrivere, tra molte altre cose, che può essere celebrato in piena tranquillità di coscienza da un prete che non creda piú né alla transustanziazione né alla natura sacrificale della Messa, e che quindi si presterebbe benissimo anche alla celebrazione da parte di un ministro protestante. [Il secondo canone, detto di S. Ippolito, è quello ora in uso comunemente nelle celebrazioni. N.d.c.].
Il nuovo Messale fu presentato a Roma come “ampio materiale pastorale”, “testo piú pastorale che giuridico” su cui le Conferenze Episcopali avrebbero potuto operare secondo le circostanze e il genio dei vari popoli. Del resto, la I sezione della nuova Congregazione per il Culto Divino sarà responsabile “dell’edizione e della costante revisione dei libri liturgici”.
Scrive l’ultimo bollettino ufficiale degli Istituti Liturgici di Germania, Svizzera, Austria[25]: “i testi latini dovranno ora esser tradotti nelle lingue dei vari popoli; lo stile «romano» dovrà essere adattato all’individualità delle Chiese locali; ciò che fu concepito al di fuori del tempo deve essere trasposto nel mutevole contesto di situazioni concrete, nel flusso costante della Chiesa universale e delle sue miriadi di congregazioni”.
La Costituzione Apostolica stessa dà il colpo di grazia alla lingua universale (in contrasto con la volontà espressa nel Concilio Vaticano II) affermando senza equivoci che “in tot varietate linguarum una (?) eademque cunctorum precatio… quovis ture fragrantior ascendat” [in tanta varietà di lingue un’unica e medesima (?) preghiera … ascenda al cielo più fragrante dell’incenso].
La morte del latino è data dunque per scontata; quella del gregoriano, che pure il Concilio riconobbe “liturgiæ romanæ proprium” [proprio della liturgia romana] (Sacros. Conc. n. 116), ordinando che “principem locum obtineat” [tenga il luogo principale] (ibid.), ne consegue logicamente, con la libera scelta, tra l’altro, dei testi dell’Introito e del Graduale.
Il nuovo rito è dato quindi in partenza come pluralistico e sperimentale, legato al tempo e al luogo. Spezzata cosí per sempre l’unità di culto, in che cosa consisterà ormai quell’unità di fede che ne conseguiva e di cui sempre si parla come della sostanza da difendere senza compromissioni?
È evidente che il Novus Ordo non vuole piú rappresentare la fede di Trento.
A questa fede, nondimeno, la coscienza cattolica è vincolata in eterno. Il vero cattolico è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione.
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VII
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La Costituzione accenna esplicitamente a una ricchezza di pietà e di dottrina mutuata nel Novus Ordo dalle Chiese di Oriente.
Il risultato appare tale da respingere inorridito il fedele di rito orientale, tanto lo spirito ne è, piú che remoto, addirittura opposto. A che si riducono queste scelte ecumeniche?
In sostanza
- alla molteplicità delle anafore (non certo alla loro bellezza e complessità),
- alla presenza del diacono e alla comunione sub utraque specie [sotto entrambe le specie].
Per contro, pare si sia voluto eliminare deliberatamente tutto quanto, nella liturgia romana, era piú prossimo all’orientale[26] e, rinnegando l’inconfondibile ed immemorabile carattere romano, abdicare a ciò che piú gli era proprio e spiritualmente prezioso.
Lo si è sostituito con elementi che soltanto a certi riti riformati (e nemmeno a quelli piú prossimi al cattolicesimo) lo avvicinano degradandolo, mentre vieppiú ne allontaneranno l’Oriente, come l’hanno già allontanato le ultime riforme.
In compenso, esso piacerà sommamente a tutti quei gruppi, vicini alla apostasia, che devastano la Chiesa inquinandone l’organismo, intaccandone l’unità dottrinale, liturgica, morale e disciplinare in una crisi spirituale senza precedenti.
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VIII
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- Pio V curò l’edizione delMissale romanumaffinché (come la stessa Costituzione ricorda) fosse strumento di unità tra i cattolici. In conformità alle prescrizioni del Concilio Tridentino esso doveva escludere ogni pericolo, nel culto, di errori contro la fede, insidiata allora dalla Riforma protestante. Cosí gravi erano i motivi del Santo Pontefice che mai come in questo caso appare giustificata, quasi profetica, la sacra formula che chiude la Bolla di promulgazione del suo Messale: “Si quis autem hoc attentare praesumpserit, indignationem Omnipotentis Dei ac beatorum Petri et Pauli Apostolorum eius se noverit incursurum” [Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo] (Quo primum, 19 luglio 1570)[27].
Volere ad ogni costo riportare questo culto all’antico, rifacendo freddamente, in vitro, quel che in antico ebbe la grazia della spontaneità primigenia, secondo quell’insano archeologismo cosí tempestivamente e lucidamente condannato da Pio XII[28], significa – come purtroppo si è visto – smantellarlo di tutte le sue difese teologiche oltre che di tutte le bellezze accumulate nei secoli[29], e proprio in uno dei momenti piú critici, forse il piú critico che la storia della Chiesa ricordi.
Oggi, non piú all’esterno, ma all’interno stesso della cattolicità l’esistenza di divisioni e scismi è ufficialmente riconosciuta[30]; l’unità della Chiesa è non piú soltanto minacciata ma già tragicamente compromessa[31] e gli errori contro la fede s’impongono, piú che insinuarsi, attraverso abusi ed aberrazioni liturgiche ugualmente riconosciute[32].
L’abbandono di una tradizione liturgica che fu per quattro secoli segno e pegno di unità di culto (per sostituirla con un’altra, che non potrà non essere segno di divisione per le licenze innumerevoli che implicitamente autorizza, e che pullula essa stessa di insinuazioni o di errori palesi contro la purezza della fede cattolica) appare, volendo definirlo nel modo piú mite, un incalcolabile errore.
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Corpus Domini 1969
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NOTE
[1] “Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) … La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla piú antica liturgia comune. Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr.Pl.jr., Ep. 96] … Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa” (A. Fortescue). “Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai piú la vera Chiesa Cattolica” (P. Louis Bouyer).
[2] In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del ConcilioVaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che giustifichi tale definizione. Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona cosí: “…I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo, in modo che … nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia … E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo.” Ed ecco l’altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 33): “Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l’assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti”. Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione. Notiamo poi l’alterazione radicale, in questa definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): Est ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium… [L’assemblea eucaristica è il centro della riunione dei fedeli]. Fatto sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto.
[3] Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri [In primo luogo il Santo Concilio insegna e apertamente e semplicemente professa che nell’almo sacramento della santa eucarestia dopo la consacrazione del pane e del vino, sotto quelle specie sensibili si contiene veramente, realmente e sostanzialmente il Nostro Signore Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo] (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio [Il Santissimo Sacrificio della Messa]), la dottrina sancita (Denz, nn. 937 fino a 956) è chiaramente sintetizzata in nove canoni:
- La Messaè vero, visibile sacrificio – non simbolica rappresentazione – quo cruentum illud semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur [con cui viene ripresentato quello cruento che si compì una sola volta sulla croce e applicata la potenza salvifica di quello in remissione dei peccati che ogni giorno commettiamo] (DB, 938).
- Gesú Cristo Nostro Signoresacerdotem secundum ordinem Melchisedech se in æternum [Ps. 109, 4] constitutum declarans, corpus et sanguinem suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: «Hoc facite in meam commemorationem» [Lc. 22, 19; I Cor.11, 24] uti semper catholica Ecclesia intellexit et docuit[affermando d’essere stato costituito sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec, offrì a Dio Padre sotto le apparenze del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue, e lo diede, perché lo prendessero, agli apostoli (che in quel momento costituiva sacerdoti del nuovo testamento) sotto i simboli delle stesse cose (del pane, cioè, e del vino), e comandò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio che l’offrissero, con queste parole: Fate questo in memoria di me, ecc., come sempre le ha intese ed ha insegnato la chiesa cattolica](DB, ibid.). Il celebrante, l’offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò consacrato, non il popolo di Dio, l’assemblea. Si quis dixerit, illis verbis: «Hoc facite» etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes, aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et sanguinem suum: anathema sit [Se qualcuno dirà che Cristo con le parole : ‘fate questo…’ non istituì gli Apostoli come sacerdoti, o non abbia loro ordinato ad essi e agli altri sacerdoti d’offrire il suo corpo e il suo sangue, sia scomunicato] (Can. 2; DB, 949).
- Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e NON una ‘nuda commemorazione’ del sacrificio compiuto sulla croce:Si quis dixerit Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis, pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri debere, a.s.[Se qualcuno dirà che il sacrificio della Messa è solo un sacrificio di lode e di ringraziamento, o la semplice commemorazione del sacrificio offerto sulla croce e non propriziatorio; o che giova solo a chi lo riceve; e che non si deve offrire per i vivi e per i morti, per i peccati, per le pene, per le soddisfazioni, e per altre necessità, sia anatema] (Can. 3; DB, 950). Si ricorda inoltre il can. 6: Si quis dixerit Canon Missæ errores continere ideoque abrogandum esse, a.s. [Se qualcuno dirà che il Canone della Messa contiene degli errori e che quindi bisogna abolirlo, sia anatema] (DB,953) e il canone 8: Si quis dixerit Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat, illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s. [Se qualcuno dirà che le messe, nelle quali solo il sacerdote si comunica sacramentalmente, sono illecite, e quindi da abrogarsi, sia anatema](DB, 955).
[5] Si dovrebbe aggiungere anche l’Ascensione ove si volesse riprendere l’Unde et memores [Per cui, anche noi memori], che d’altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: ….tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis [sia della sua beata Passione, della sua Resurrezione dagli Inferi, ma anche della sua gloriosa Ascensione in cielo].
[6] Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento [Ricordati] dei morti e della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato.
[7]Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della ‘transignificazione’ e ‘transfinalizzazione’. …aut ratione signi… ita instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento… aut transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua loquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola «transignificatione» et «transfinalizatione», ut aiunt, consistant [… o insistere a tal punto sulla natura di ‘segno’ come se l’elemento simbolico, di cui nessuno nega la presenza nella Santissima Eucarestia, esprima tutta quanta ed esaurisca l’essenza della presenza di Cristo in questo Sacramento … o trattare del mistero della transustanziazione come se la mirabile conversione di tutta la sostanza del pane nel corpo e di tutta quella del vino nel sangue di Cristo, di cui parla il Tridentino, possa essere ridotta alla sola ‘transignificazione’ o ‘transfinalizzazione’ come alcuni sostengono] (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).
[8] L’introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es. spiritualis alimonia, cibus spiritualis, potus spiritualis, ecc.[nutrimento spirituale, cibo spirituale, bevanda spirituale]) è ampiamente denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide altissimarum rerum suboriantur opiniones [fatta salva l’integrità della Fede, bisogna conservare anche un modo appropriato d’esprimersi, affinchè, impiegando termini inappropriati, non insorgano false opinioni – il che mai avvenga – sui misteri profondissimi della nostra Fede]; cita Sant’Agostino: Nobis tamen ad certam regulam loqui fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem [Dobbiamo esprimerci tuttavia con precisione per non generare con un uso improprio delle parole empie opinioni sulle cose che significano] (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41,300); continua: Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro libitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat… Eodem modo ferendus non est quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit [Si conservino dunque scrupolosamente le norme linguistiche che la Chiesa confermò con un’applicazione secolare e non senza l’influsso dello Spirito Santo e l’autorità dei Concilii, che spesso si son rivelate segno di riconoscimento e vessillo della Fede ortodossa, e nessuno a suo talento e per qualsiasi pretesto di nuova scienza presuma mutarle … Parimenti non è accettabile voler derogare a proprio piacimento alle formule con cui il Concilio di Trento propose a credere il Mistero Eucaristico] (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).
[9] In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc.,n. 48) il Vaticano II.
[10] Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur [Altare, su cui si fa presente sotto le specie sacramentali il sacrificio della croce]. Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell’altra costante denominazione.
[11] Separare il Tabernacolo dall’altare equivale a separare due cose che in forza della loro natura debbono restare unite (Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi – Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. anche Mediator Dei, I, 5.
[12] Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola hostia [vittima] tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato di vittima. Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di cena e di cibo.
[13] Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l’altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt’altra natura perché non ha realtà che in usu [nel momento stesso che se ne fa uso] mentre quella è in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento. Tipicamente protestanti le formule: Deus populum suum alloquitur… Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest [Dio parla al suo popolo … Cristo per mezzo della parola è presente in mezzo ai suoi fedeli] (n. 33, cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell’individuo e limitata nel tempo. L’errore non è senza la piú tragica conseguenza: l’affermazione, o l’insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all’usus[uso limitato alla celebrazione] e finisca insieme con esso.
[14] L’azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli ‘a mangiare’ il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II – Il Culto Eucaristico – della Mediator Dei).
[15] Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtú dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum [per la forza stessa delle parole] o piú precisamente in virtú del modus significandi [significato inteso] che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo alfine di ‘fare ciò che fa la Chiesa’consacreranno validamente? È lecito dubitarne.
[16] Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste espressioni appartengono a quello stesso contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi esprimono.
[17] Di contro a luterani e calvinisti che affermavano come tutti i cristiani siano sacerdoti e perciò offerenti della cena v. A. Tanquerey: Synopsis theologiæ dogmaticæ, t. III, Desclee 1930: Omnes et soli sacerdotes sunt, proprie loquendo, ministri secundarii sacrificii missæ. Christus est quidem principalis minister.Fideles mediate, non autem sensu stricto, per sacerdotes offerunt. [Propriamente parlando, tutti i sacerdoti e loro soltanto sono i ministri secondari del sacrificio della Messa. Cristo infatti ne è il principale. I fedeli poi offrono il sacrificio, ma non in senso stretto, mediatamente per mezzo dei sacerdoti] (Cfr. Cons. Trid. Sess.XXII, Can. 2).
[18]Notiamo un’innovazione impensabile e che sarà psicologicamente disastrosa: il Venerdí Santo in paramenti rossi anziché neri (n. 308b): la commemorazione cioè di un qualsiasi martire anziché il lutto della Chiesa tutta per il suo Fondatore. Cfr. MediatorDei, I, 5 (v. p. 36, nota 28).
[19] P. Roquet, O.P., alle Domenicane di Betania a Plesschenet.
[20] In alcune traduzioni del Canone romano, il locus refrigerii, lucis et pacis [luogo di refrigerio, luce e pace] veniva reso come un semplice stato (beatitudine, luce, pace). Che dire, ora, della sparizione di ogni esplicito accenno alla Chiesa purgante?
[21] In tanta febbre di decurtazione, un solo arricchimento: l’omissione, menzionata nell’accusa dei peccati al Confiteor…
[22] Alla conferenza stampa in cui fu presentato ‘Ordo, il P. Lecuyer, in una professione di pura fede razionalistica, parlò di convertire in Dominus tecum, Ora, frater, [Il Signore sia con te, Prega, fratello…] etc. le salutationes [salutazioni] nella Missa sine populo [messa privata senza i fedeli], … perché non vi sia nulla che non corrisponda a verità.
[23] A questo proposito noteremo marginalmente che appare lecito, ai sacerdoti che siano costretti a celebrare da soli prima o dopo la concelebrazione, di comunicarsi di nuovo sub utraque specie [sotto entrambe le specie] durante questa.
[24] Che si è voluto presentare come ‘canone di Ippolito’ mentre di quel canone serba appena qualche reminiscenza verbale.
[25] Gottesdienst, n. 9, 14 maggio 1969.
[26] Si pensi, per ricordare solo la bizantina, alle preghiere penitenziali, lunghissime, istanti, ripetute; ai solenni riti di vestizione del celebrante e del diacono; alla preparazione, che è già un rito completo in sé stessa, delle offerte alla proscomidia; alla presenza costante, nelle orazioni e persino nelle offerte, della Beata Vergine, dei Santi e delle Gerarchie Angeliche (che, nell’Entrata col Vangelo sono addirittura evocate come invisibilmente concelebranti e con le quali si identifica il coro nel Cherubicon; alla iconostasi che nettamente separa santuario da tempio, clero da popolo; alla consacrazione celata, evidente simbolo dell’Inconoscibile a cui l’intera Liturgia allude; alla posizione del celebrante versus ad Deum [rivolto verso Dio] e mai versus ad populum [rivolto verso il popolo]; alla comunione amministrata sempre e solo dal celebrante; ai continui e profondi segni di adorazione di cui sono fatte segno le Specie; all’atteggiamento essenzialmente contemplativo del popolo. Il fatto che tali liturgie, anche nelle forme meno solenni, durino piú di un’ora, e le costanti definizioni che vi si trovano (“tremenda e inenarrabile liturgia”, “tremendi, celesti, vivificanti misteri”, ecc.) bastino a dir tutto. Notiamo infine, sia nella Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo che in quella di San Basilio, come il concetto di “cena”o di “banchetto” appaia chiaramente subordinato a quello di sacrificio, cosí come lo era nella Messa romana.
[27] Nella Sessione XIII (decreto sulla SS.ma Eucarestia), il Concilio di Trento manifesta la sua intenzione “ut stirpitus convelleret zizania execrabilium errorum et schismatum, quæ inimicus homo… in doctrina fidei usu et cultu Sacrosanctæ Eucharestiæ superseminavit (Mt. 13, 25 ss.) … quam alioqui Salvator noster in Ecclesia sua tamquam symbolum reliquit eius unitatis et caritatis, qua Christianos omnes inter se coniunctos et copulatos, esse voluit [per strappare dalle radici la zizzania degli abominevoli errori e degli scismi che il nemico in questi nostri tempi ha sovraseminato sulla dottrina della fede, sull’uso e sul culto della sacrosanta eucaristia, che, d’altra parte, il nostro Salvatore ha lasciato nella sua Chiesa come segno d’unità e d’amore, con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti ed uniti fra loro] (DB, 873).
[28] “Ad sacræ liturgiæ fontes mente animoque redire sapiens perfecto ac laudabilissima res est, cum disciplinæ huius studium, ad eius origines remigrans, haud parum conferat ad festorum dierum significationem et ad formularum, quæ usurpantur, sacrarumque cæremoniarum sententiam altius dividentiusque pervestigandam: non sapiens tamen, non laudabile est omnia ad antiquitatem quovis modo reducere. Itaque, ut exemplis utamur, is ex recto aberret itinere, qui priscam altari velit mensæ formam restituere; qui liturgicas vestes velit nigro semper carere colore; qui sacras imagines ac statuas e templis prohibeat; qui divini Redemptoris in Crucem acti effigies ita conformari iubeat, ut corpus eius acerrimos non referat, quos passus est, cruciatus… Hæc enim cogitandi agendique ratio nimiam illam reviscere iubet atque insanam antiquitatum cupidinem, quam illegitimum excitavit Pistoriense concilium, itemque multiplices illos restituere enititur errores, qui in causa fuere, cur conciliabulum idem cogeretur, quique inde non sine magno animorum detrimento consecuti sunt, quosque Ecclesia, cum evigilans semper evistat «fidei depositi» custos sibi a Divino Conditore concrediti, iure meritoque reprobavit” [È certamente cosa saggia e lodevolissima risalira con la mente e con l’anima alle fonti della sacra liturgia, perché il suo studio, riportandoci alle origini, aiuta non poco a comprendere il significato delle feste e a indagare con maggiore profondità e accuratezza il senso delle cerimonie, ma non è certamente cosa altrettanto saggia e lodevole ridurre tutto e in ogni modo all’antico. Così, per fare un esempio, è fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti … Questo modo di pensare e d’agire infatti fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono, con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del ‘deposito della fede’ affidatole dal suo Divin Fondatore a buon diritto condannò] (Mediator Dei, I, 5).
[29] “…Non ci illuda il criterio di ridurre l’edificio della Chiesa, diventato largo e maestoso per la gloria di Dio, come un suo tempio magnifico, alle sue iniziali e minime proporzioni, quasi che quelle siano solo le vere, solo le buone…” (Paolo VI, Ecclesiam suam).
[30] Un fermento praticamente scismatico divide, suddivide, spezza la Chiesa (Paolo VI, Omelia in Cena Domini, 1969).
[31] Vi sono anche tra noi quegli “schismata” [scismi], quelle “scissuræ” [dissensioni] che la prima lettera ai Corinzi di San Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia (cfr. Paolo VI, ibid.).
[32] È noto a tutti come il Concilio Vaticano II venga oggi rinnegato proprio da coloro che si vantarono di esserne i padri; coloro che – mentre il Sommo Pontefice, chiudendolo, dichiarava non aver esso mutato nulla – ne partirono decisi a ‘farne esplodere’ il contenuto in sede di applicazione. Purtroppo la Santa Sede, con una fretta che ai piú parve inesplicabile, ha consentito e quasi incoraggiato, attraverso il Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, [Consiglio per l’applicazione della Costituzione sulla sacra liturgia] una sempre crescente infedeltà al Concilio; che va dagli aspetti solo apparentemente formali (latino, gregoriano, soppressione di riti venerandi, ecc.) a quelli sostanziali consacrati dal Novus Ordo. Le terribili conseguenze, che abbiamo tentato di illustrare, si sono ripercosse, in modo psicologicamente forse ancora piú catastrofico, nei campi della disciplina e del magistero ecclesiastico, scuotendo paurosamente, insieme con il prestigio, la docilità dovuta alla Sede Apostolica.
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