“L’esito penale favorevole a
Berlusconi non cancella il rilievo istituzionale e morale del caso”: così il
direttore di Avvenire Marco Tarquinio, in un editoriale pubblicato sul
quotidiano dei vescovi, ha commentato la sentenza definitiva di assoluzione del
Cavaliere sulla vicenda Ruby. Subito dopo è arrivato il sostegno al giornale da
parte del segretario generale della CEI, mons. Nunzio Galantino, il quale ha
definito “coraggiosa” la posizione di Tarquinio, aggiungendo: “La legge arriva
fino a un certo punto, ma il discorso morale è un altro”.
Sulla grottesca fine del
Berlusconi politico, abbiamo già scritto altrove. Proprio per
questo, però, non troviamo particolarmente “coraggiosa” la posizione di
Avvenire: più che di un gesto ardimentoso, si tratta di infierire su di un (quasi)
cadavere. Del resto, mons. Galantino, che ha praticamente commissariato la
Conferenza Episcopale in nome di Papa Francesco, è lo stesso che definì
“inespressivi” i visi dei prolife
impegnati nella preghiera davanti alle cliniche abortiste. Nella stessa intervista, espresse il desiderio di una Chiesa “senza tabù”, dove si potesse
discutere amabilmente “di qualsiasi argomento, di preti sposati, di eucarestia
ai divorziati, di omosessualità” e indicò come soluzione pastorale nei
confronti delle coppie omosessuali il “mettersi all’ascolto della loro storia”,
perché “molte volte è importante ascoltare, prima di dire”.
Una volta si diceva che il
cattolicesimo fosse intransigente nei principi ma tollerante nella pratica, il che
lo distingueva sia dal relativismo morale che da certo puritanesimo di stampo
protestante. Oggi la situazione si è invertita: i nostri Vescovi sono pronti a
discutere dei principi, “senza tabù”, ma si mostrano inflessibili nella
pratica. Non con tutti, però: il puttaniere Berlusconi va lapidato, gay e
abortisti invece vanno “ascoltati”. E’ la Chiesa del nuovo corso, quella della
cricca catto-progressista che pratica “misericordia” verso amici e cortigiani e
lapida chi non è gradito.
Un noto esempio di “misericordia” applicata ai cortigiani è la vicenda di mons. Battista Ricca, già direttore della Domus Sanctae Marthae, dove Papa Francesco vive dal giorno della sua elezione, e scelto proprio da Bergoglio per il delicato incarico di prelato dello IOR. Nel luglio 2013 furono pubblicamente diffuse notizie sulla “condotta scandalosa” da lui tenuta ai tempi della nunziatura apostolica in Uruguay, dove – oltre a ospitare nella sua residenza il proprio amante – il prelato era rimasto coinvolto in una serie di imbarazzanti disavventure a sfondo gay. Nessun reato, ma – direbbe Galantino – “il discorso morale è un altro”. E invece no: interrogato sul punto, Papa Bergoglio rispose che “tante volte nella Chiesa si vanno a cercare i peccati di gioventù e poi si pubblicano. Non stiamo parlando di delitti, di reati, come gli abusi sui minori che sono tutt’altra cosa, ma di peccati. Ma se una persona laica, o prete o suora ha commesso un peccato e poi si è convertita e si è confessata, il Signore perdona, dimentica”. Peraltro, aggiunse, “su mons. Ricca non abbiamo trovato niente”, probabilmente perché qualcuno a Roma si è preoccupato di cancellare le tracce dello scandalo. Quanto è coerente il pentimento per i peccati compiuti in passato con lo sforzo, per citare Sandro Magister, di “occultarli, contraffarli, cancellarli”? Soprattutto, a scandalo pubblico non dovrebbe corrispondere un gesto di pubblica contrizione? Domande senza risposta: mons. Ricca è ancora lì, mentre per Berlusconi, si sa, “non si cancella il rilievo istituzionale e morale del caso”.
E che dire dell’ineffabile caso
dei Frati Francescani dell’Immacolata? Un ordine commissariato per nessuna
ragione, se non il suo amore per la sana dottrina e la liturgia antica, e
affidato dal Papa alle mani del cappuccino padre Fidenzio Volpi, che – citiamo
il prof. Roberto de Mattei – “ha iniziato ad abbattere la sua scure
sull’istituto. Ha vietato la celebrazione della santa Messa e della liturgia
delle ore nella forma straordinaria prevista dal Motu proprio Summorum pontificum; ha deposto l’intero
governo generale dell’ordine, a cominciare dal fondatore padre Stefano Maria
Manelli, che si trova agli arresti domiciliari senza conoscerne le ragioni; ha
esautorato e trasferito uno dopo l’altro i più fedeli collaboratori di padre Manelli,
tutte personalità di rilievo intellettuale e morale, attribuendo le loro
cariche a Frati dissidenti, spesso incolti e privi di esperienza di governo; ha
minacciato e punito i Frati che avevano rivolto una petizione alla Santa Sede e
rifiutavano di ritrattarla; infine, con un diktat datato 8 dicembre
2013 ha chiuso il seminario, ha sospeso le ordinazioni sacerdotali e diaconali;
ha colpito di interdetto le pubblicazioni dell’editrice Casa Mariana, proibendo
di diffonderle nelle chiese e santuari affidati ai religiosi; ha esteso la sua
guerra personale ai terziari e ai laici che sostengono l’istituto,
sospendendo tutte le attività della MIM (Missione Immacolata Mediatrice) e
del TOFI (Terz’Ordine Francescano dell’Immacolata); ha minacciato di commissariamento
le suore Francescane dell’Immacolata e ha tolto a loro e alle Clarisse
dell’Immacolata l’assistenza spirituale dei Frati”. E così via, fino a fenomeni
di vera e propria persecuzione nei confronti di alcuni frati. A questa inaudita durezza nell’esercizio del proprio
ruolo padre Volpi ha unito un atteggiamento sprezzante nei confronti dei suoi
critici, finché qualcuno non lo ha chiamato a rispondere delle proprie
affermazioni. Il Commissario, in una lettera datata 8 dicembre 2013, aveva
infatti denunciato il trasferimento della disponibilità dei beni dell’Istituto
nelle mani di fedeli laici, “familiari del fondatore, Padre Stefano M.
Manelli”. Questi ultimi hanno reagito citandolo per diffamazione davanti al
Tribunale Civile di Roma e padre Volpi si è impegnato, per evitare il processo,
a diffondere una smentita alle sue dichiarazioni, da pubblicare per tre mesi
sull’homepage del sito ufficiale dell’Ordine e da leggere a tutti i suoi membri,
oltre che a pagare la somma di 20.000 euro alla controparte. Ci si può chiedere
quale credibilità morale possa avere un personaggio costretto a un così umiliante
dietrofront, specie alla luce del successivo colpo di scena: padre Volpi ha
infatti deciso di non rispettare quanto pattuito, invocando presunte
scorrettezze della controparte. I commissari apostolici, insomma, prima
“patteggiano” accuse di diffamazione in sede civile e poi sprofondano nel
ridicolo, senza che a Roma qualcuno muova un dito per porre fine a una
situazione grottesca.
E potremmo continuare per ore, a
citare esempi di durezza per gli “avversari” e misericordia per gli “amici”. Ricordate
il caso Boffo? Non risulta che all'epoca qualche Vescovo o qualche
giornalista di Avvenire abbia fatto notare che, al netto del documento
anonimo pubblicato da Feltri, il quadro che emergeva sull'ex direttore
del quotidiano della CEI non era proprio moralmente ineccepibile. O,
ancora, potremmo parlare dello scandalo dell’Eucarestia distribuita dal card. Bagnasco
a Vladimir Luxuria, ai funerali di don Gallo. Allora né Tarquinio né Galantino
ebbero nulla da eccepire. Che pena, questa Chiesa che sdogana adulterio e
sodomia, che intende discutere “senza tabù”, che al Sinodo mette ai voti la
dottrina, che ingoia i cammelli e poi si unisce ai lapidatori del satiro di Arcore per rifarsi una
verginità. Avremmo bisogno di sacerdoti santi, in grado di confermarci nella
sana dottrina e di assolverci dai nostri peccati, che parlassero di meno e
pregassero di più: abbiamo spesso di fronte funzionari della burocrazia
clericale, professionisti della chiacchiera pronti a compiacere, a favor di
telecamera, i nuovi dogmi del progressismo imperante. Con questo clero, e con i
loro leccapiedi, una sana dose di anticlericalismo diventa quasi un dovere.
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