Il processo di Gesù
C’è un fatto ricordato nel Vangelo di oggi – quello che precede la Pasqua e che narra arresto, processo, calvario e morte di Gesù – che mi scuote profondamente, e cioè proprio il processo. Che si concluse come tutti sappiamo, ma che non fu – diversamente da come si potrebbe pensare – un processo irregolare o non valido: tutt’altro.
Piero Pajardi (1926-1994), magistrato e raffinato studioso, si è occupato approfonditamente dalla vicenda arrivando a questa spiazzante conclusione: «Gesù ebbe un regolare processo. Certo un processo manchevole, se possiamo dire così, rispetto al processo penale attuale quale è venuto a raffinarsi dopo duemila anni. Ma certamente processo essenzialmente valido, e tutto considerato assai più valido di qualunque altro processo in qualunque altro ordinamento degli Stati contemporanei. In fondo, quando al tempo tecnico, a prescindere dalla gravità del reato e della pena, un processo per direttissima oggi non durerebbe strutturalmente di più» (Il processo di Gesù, Giuffrè editore, Milano 1994, p.76).
D’altra parte, checché se ne dica circa la presunta inattendibilità dei Vangeli, sulla sull’arco temporale che va dall’arresto di Gesù alla sua crocifissione c’è una tale abbondanza di elementi che non lascia spazio davvero a dubbi: il processo ci fu e fu – come concluse, fra gli altri, il citato Pajardi – indubbiamente valido. Tanto è vero che non mancano pagine sconvolgenti del celebre filosofo e giurista positivista Hans Kelsen (1881–1973), il quale commentò in termini sostanzialmente positivi quel processo. Se ne potrebbe concludere, alla luce dell’innocenza di Gesù – che perfino dalla croce chiese perdonò per i suoi carnefici, arrivando ad assicurare il Paradiso ad uno dei due ladroni -, che a volte la giustizia umana è purtroppo imperfetta. Tuttavia si tratterebbe, per quanto certamente corretta, di una valutazione parziale. Il dato in assoluto più grave e centrale è difatti un altro, vale a dire l’abisso al quale può condurre un sistema non solo giudiziario, ma politico e sociale che si affida ciecamente alle sue procedure formali.
La rinuncia alla ricerca del vero, l’idea che la verità sia in fondo affare di poco conto e interessante solo per qualcheduno un po’ fissato è, in assoluto – oltre naturalmente all’inettitudine dei suoi stessi discepoli, Pietro in primis, a difenderLo – ciò che ha più di tutto segnato il destino di Gesù. Questo dato storico prima che religioso, di fatto prima che di fede, dovrebbe quindi interpellare tutti. Perché la scorciatoia del quieto vivere e dell’indifferenza, e soprattutto la convinzione che basti la Costituzione-più-bella-del-mondo o la Corte Costituzionale, l’ordinamento giuridico nel suo insieme o la saggezza del Legislatore, è quanto di più incauto vi possa essere; eppure corrisponde, se ci pensiamo bene, all’atteggiamento più diffuso: in ciascuno di noi, s’intende. Del resto, nella vita più ancora che nelle dinamiche processuali, mettersi in cammino verso qualcosa di impegnativo e vertiginoso come la verità costa: eccome se costa. Ma è il solo modo che abbiamo per non ritrovarci a dover ammettere, un domani, che alla giustizia abbiamo preferito la pigrizia, e la comodità, appunto, alla verità.
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Giusto per essere chiari: la colpa maggiore della morte di Nostro Signore Gesù Cristo fu degli ebrei, quindi a giusto titolo vengono chiamati Deicidi...
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La figura storica di Ponzio Pilato è stata trattata da vari studiosi di tutte le epoche a causa del processo contro Gesù da lui presieduto. Gli studiosi di cultura ebraica – fondandosi su Filone di Alessandria[1] e su Giuseppe Flavio[2] – hanno cercato di addossare tutta la responsabilità al Procuratore romano e di scagionare il Sinedrio.
Gli studiosi cristiani ed anche gli ebrei convertiti al cristianesimo, basandosi su i quattro Vangeli e specialmente sul Vangelo di Giovanni, hanno invece messo in luce il fatto che la condanna a morte di Gesù sia stata decretata dal Sinedrio e lasciata eseguire da Pilato contro voglia.
Secondo i fratelli Lémann il Sinedrio era risoluto sin dall’inizio ed a priori a condannare Gesù, indipendentemente dalla sua innocenza. Questi fatti sono le tre decisioni prese dal Sinedrio nelle tre riunioni anteriori a quella del Venerdì Santo: la condanna a morte di Gesù, prima ancora che comparisse come accusato.
- La prima riunione si tenne dal 28 al 30 settembre (Tisri) dell’anno 781 di Roma (32 d. C.). Il Vangeloparla de “l’ultimo giorno della festa deiTabernacoli” (Io., VII, 37), che in quell’anno cominciava il 22 settembre e terminava il 28.S. Giovanni ci riferisce che Gesù aveva guarito miracolosamente un cieco nato e che “i suoi genitori, temevano i giudei; poiché i giudeiavevano congiurato che se qualcuno avesse confessato che Gesù era il Cristo sarebbestato scomunicato” (Io., IX, 22). Il decreto di scomunica era stato lanciato tra il 28 ed il 30 settembre. Ora tale decreto prova due cose:1°) che vi era stata una riunione solenne del Sinedrio, che solo aveva il potere di lanciarela “scomunica maggiore”; 2°) che in tale riunione si era parlato della morte di Gesù. Infatti l’antica Sinagoga aveva tre tipi di scomunica: la separazione (niddui); l’esecrazione (choerem) e la morte (schammata). La separazione condannava qualcuno a vivere isolato per trenta giorni. Essa non era riservata al Sinedrio. L’esecrazione comportava una separazione completa dalla società giudaica: si era esclusi dal Tempio e votati al demonio. Solo il Sinedrio di Gerusalemme poteva infliggerla, e la pronunciò contro chiunque asserisse che Gesù era il Messia. La morte era riservata ai falsi profeti. “Ora tutto lascia supporre che il Sinedrio, il quale non esitò a lanciare l’esecrazione contro i seguaci di Gesù, dovette nella medesima riunione, deliberare se pronunciare o no contro Gesù stesso […] la pena di morte. Una vecchia tradizione talmudica dice che fu proprio così” (A. e J. Lémann, Valeur de l’assemblée qui prononça la peine de mort contre Jésus-Christ, ed. Lecoffre,Parigi, 1876, pagg. 50-51).
- La seconda riunione ebbe luogo nel febbraio (adar) del 782 dalla fondazione di Roma (33 d. C.), circa quattro mesi e mezzo dopo la prima. Fu in occasione della resurrezione di Lazzaro. S. Giovanni scrive: “Da quel giorno, risolsero di farlo morire” (Io., XI, 50). Perciò nella prima riunione la condanna a morte era stata proposta solo indirettamente e dubitativamente, ma nella seconda la decisione è presa. Senza aver citato il condannato, senza averlo ascoltato, senza accusatori né testimoni!
- La terza ebbe luogo 20-25 giorni dopo la seconda, il mercoledì Santo, 12 marzo (nisan) 782 ab Urbe condita. S. Luca scrive: “Allora i Capi e gli Anziani tennero consiglio, per sapere come potersi impadronire di Gesù e farlo morire. E dicevano: non bisogna che sia durante la festa, per paura che scoppi un tumulto” (Lc., XXIII, 1-3). Questo terzo consiglio non aveva come oggetto la condanna a morte di Gesù, poiché la sua morte era già stata decretata nel secondo consiglio. Ora si trattava soltanto di stabilire il tempo e il modo della sua uccisione, e si decise di aspettare che fosse passata la festa di Pasqua; ma un avvenimento imprevisto li fece tornare su questa decisione: “Giuda, l’Iscariota, venne dai sommi Sacerdoti per consegnare loro Gesù” (Lc., XXII, 3-4). Giuda, il traditore, toglie ogni incertezza al Sinedrio, la condanna di Gesù non sarà più rinviata ad un giorno indeterminato dopo Pasqua, ma al primo momento favorevole.
Inoltre i fratelli Lémann spiegano che esistono delle regole giuridiche obbligatorie e ben precise, nel Sinedrio, in ogni causa di criminalità e ci sono state consegnate dalla Misnà di Rabbi Giuda, che verso la fine del II Secolo d. C., volle mettere per iscritto la tradizione giudaica, preoccupato dallo stato deplorevole della sua Nazione, che Adriano voleva disperdere per sempre dalla Giudea. Il Sinedrio ha violato ogni regola di giustizia nel processo di Gesù. Infatti Gesù fu condotto alla casa di Caifa “ove tutti i Preti, gli Scribi e gli Anziani erano riuniti” (Mt., XXVI, 57). S. Giovanni ci dice che “era notte” (Io., XIII, 30).Prima irregolarità perché la Legge giudaica proibisce, sotto pena di nullità, di giudicare di notte: “che si tratti la pena capitale durante il giorno, ma la si sospenda la notte” (Misnà, tratt., Sanhédrin, cap. IV, n. 1). Di notte e quindi dopo il Sacrificio della sera. Seconda irregolarità: “Giudicheranno solo dal Sacrificio del mattino fino a quello della sera” (Talmùd gerosol., tratt.Sanhédrin, cap. I, fol. 19). Era il primo giorno degli azzimi, vigilia della festa di Pasqua. Terza irregolarità: “Non giudicheranno né la vigilia del sabato, né la vigilia di una festa” (Misnà, tratt., Sanhédrin, cap. IV, n. 1). Inoltre “Caifa interrogò Gesù” (Io., XVIII, 19). Lo stesso Caifa aveva dichiarato che il bene pubblico richiedeva la morte di Gesù. Vale a dire l’accusatore è anche giudice; ecco la quarta irregolarità. La legislazione ebraica distingue nettamente giudice ed accusatore e proibisce che l’uno sia anche l’altro (Deut., XIX, 16 – 17). I fratelli Lémann hanno riscontrato ben ventisette irregolarità; io mi fermo qui alla quarta, rimandando il lettore che volesse approfondire la questione all’opera citata.
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foto pietra iscrizione Ponzio Pilato da:
http://www.veja.it/2009/02/27/iscrizione-di-ponzio-pilato-gerusalemme/ ~
Un valente esegeta, monsignor Francesco Spadafora, ha scritto: «L’esame critico delle fonti giudaiche su Pilato risolve alla radice la loro presunta, asserita opposizione alla documentazione degli Evangeli, del quarto in maniera particolare, e toglie ogni sostegno agli sforzi compiuti per esimere il Sinedrio, i Giudei dalla piena responsabilità per la condanna e l’esecuzione di Gesù Cristo. [….]. L’immagine che Filone e Giuseppe ci danno del carattere di Pilato […] non reggono all’esame critico più benevolo, si demoliscono facilmente» (Pilato, Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1973, p. 200).
Ponzio Pilato ha amministrato la Giudea per circa un decennio dal 26 al 36. Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico nel 30 ed è stato condannato a morte nel 33. Per cui Pilato certamente conosceva almeno di fama Gesù nel momento in cui ha dovuto presiedere al processo intentato dal Sinedrio contro di Lui ed ha governato la Galilea ancora per tre anni dopo la morte di Gesù e un anno dopo quella di S. Stefano protomartire.
La personalità di Pilato è riassumibile così: un cavaliere della nobile “gens Pontia”, il cui soprannome (“cognomen”) “Pilatum” significa “l’uomo del giavellotto” (da “pilum o pila”), ossia un militare abile nel maneggiare le armi e specialmente il giavellotto. Bravo come soldato, Pilato era poco esperto nell’arte amministrativa, diplomatica e politica. Ciò gli fu fatale specialmente in Giudea. Egli non capiva la mentalità ebraica e non aveva cercato di far nulla per entrare in contatto con i suoi “sudditi” o amministrati (cfr. J. Bonsirven, Les Juifs et Jésus, Parigi, 1937; L. C. Fillion, Vie de N. S. Jésus Christ, Parigi, 1925; M. J. Lagrange, Evangile selon St. Luc, III ed., Parigi, 1927; Id., Evangile selon St. Jean, V ed., Parigi, 1936; Id., Le Judaisme avant Jésus Christ, III ed., Parigi, 1931; G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, Roma, 1941; Id., Storia d’Israele, II ed., Torino, 1935; M. Sordi, Aspetti romani dei processi di Gesù e di Stefano, in RFIstclass, 98, 1970; Id., I cristiani e l’Impero romano, Milano, 1986; Id., Cristianesimo e Roma, Bologna, 1965; P. Pajardi, Il processo di Gesù, Milano, 1994, F. Amarelli – F. Lucrezi a cura di, Il processo contro Gesù, Napoli, 1999).
Due fatti del governo di Pilato in Giudea sono capitali per capire il suo atteggiamento durante il processo a Gesù. Il primo: poco dopo il suo arrivo in Palestina nel 26 egli ordinò ai soldati romani che dovevano recarsi da Cesarea a Gerusalemme di introdurre nella città santa gli stendardi romani con le immagini ritenute idolatriche dai giudei. Ordinò che i soldati entrassero di notte, per evitare uno scontro immediato, ma di spiegare le insegne facendo trovare il mattino seguente i gerosolimitani davanti al fatto compiuto. Era una sfida aperta alla Giudea, che aveva ottenuto da Cesare il privilegio di non vedere esposte le immagini dell’esercito romano, che rappresentavano l’Imperatore come una divinità. Roma si dimostrava sempre accomodante nei confronti dei costumi religiosi dei suoi sudditi purché non ledessero le prerogative dell’Impero (Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII, 3, 1; Guerra Giudaica, II, 9, 2-3). In questo primo caso, Pilato aveva dovuto cedere davanti ai giudei che per cinque giorni e cinque notti avevano implorato nel suo pretorio in Cesarea la rimozione dei vessilli, dicendosi pronti a morire piuttosto che subire tale affronto.
Qualche anno dopo aveva fatto appendere nel suo palazzo in Gerusalemme gli scudi d’oro dedicati a Tiberio, muniti d’iscrizioni e privi di simboli che potevano essere ritenuti idolatrici (Filone d’Alessandria, De legatione ad Cajum, par. 38, n. 299-305). Anche in questo caso Pilato dovette cedere, ma, quel che è peggio, davanti a Tiberio, al quale i giudei si erano rivolti (cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, cit., II vol., pp. 439 ss.).
Pilato nel 33 si trovava quindi privo davanti al Sinedrio di quell’autorità di cui da buon soldato romano possedeva il senso e che aveva cercato di imporre anche alla Giudea, andando oltre i desideri di Tiberio dal quale era stato sconfessato. Il Sinedrio non aveva più paura di Pilato e si sentiva rafforzato da Tiberio stesso. Pilato detestava il Sinedrio, ma non aveva più l’appoggio del suo Imperatore. Questo stato di animo è fondamentale per capire l’atteggiamento del Procuratore romano durante il processo contro Gesù e quello del Sinedrio, che mediante Tiberio aveva in mano Pilato (cfr. F. Spadafora, op. cit., p. 10).
Durante il processo, letto alla luce dei Vangeli, si vede che Pilato non vuole condannare Gesù, ma vi è spinto suo malgrado dal potere che il Sinedrio aveva presso Tiberio. Pilato permette che Gesù sia crocifisso, il Sinedrio lo vuole morto. Permettere significa non impedire. Pilato avrebbe potuto impedirlo, ma si sarebbe visto sconfessato da Tiberio ed obbligato a condannarlo in nome di Roma. Egli, per evitare la condanna di un “giusto” da parte di Roma, lascia fare il Sinedrio.
È il caso di tolleranza di un male per impedirne uno maggiore. Non si può fare un male minore (per esempio uccidere attivamente e direttamente 5 persone) per evitarne uno maggiore (perché non ne siano uccise 100), ma si può permetterlo o tollerarlo (lascio che Tizio uccida 100 persone) senza volerlo ed operarlo direttamente (ma ne nascondo 5, non potendo fare nulla di più)[3].
Monsignor Francesco Spadafora, assieme agli esegeti e ai giuristi più obiettivi, osserva che la narrazione fatta dalle fonti giudaiche (Filone d’Alessandria e Giuseppe Flavio) della figura di Pilato «rasenta la caricatura, fa di Pilato quasi un anormale, un irragionevole. […]. Il cliché abituale trae ispirazione e fondamento dalle fonti giudaiche (Filone e Flavio Giuseppe). Ben diversa ci appare invece la figura di Pilato nella narrazione evangelica» (op. cit., p. 12). Anche Don Giuseppe Ricciotti ritiene di dover integrare le fonti giudaiche con la lettura dei Vangeli (Vita di Gesù Cristo, cit., vol. II, p. 439). Questo tema non è solamente una questione di esegesi erudita, ma ha un’importanza ed attualità capitale specialmente riguardo al problema della colpevolezza dell’Ebraismo post-biblico nella morte di Gesù dibattuta in occasione del Decreto conciliare Nostra aetate del 28 ottobre 1965 (cfr. monsignor Luigi Carli, Chiesa e Sinagoga, in “Palestra del Clero”, n. 6-7, 15 marzo – 1° luglio, 1966).
La “gens Pontia” era Sannita ed originaria della cittadina di Telese, attualmente provincia di Benevento in Campania, bagnata dal fiume Volturno. I Ponzi si distinsero nella sconfitta dei Romani a Caudium e li umiliarono facendoli passare sotto le forche caudine (321 a. C.). Divennero, cittadini romani ed entrarono a far parte della nobiltà di secondo rango, subito dopo i Patrizi. Ponzio Pilato «educato e vissuto nel clima della romanità più schietta, cioè imperiale, con un alto senso della giustizia, del diritto e della dignità, derivanti dalla missione di reggitori dei popoli; abituato al comando assoluto nella disciplina ferrea della legione, quando fu destinato alla Giudea concepì il disegno di regolarizzare la strana situazione colà esistente. […]. Un piccolo popolo, che parlava di “elezione divina” e si separava da tutti gli altri, romani compresi, non nascondendo per essi il disprezzo e l’odio. […]. Cesare (45 a. C. circa) ed Augusto (40 a. C. circa) avevano concesso ai giudei l’esenzione dal servizio militare, l’indipendenza religiosa; particolarmente avevano ordinato alle truppe di passaggio o dimoranti in Gerusalemme di evitare ogni manifestazione idolatrica. Praticamente di tutte le genti dell’Impero, i Giudei erano i soli a rimanere inassimilabili. […]. Pilato volle tentare quest’assimilazione, ma dovette cedere la seconda volta addirittura per ordine di Tiberio» (F. Spadafora, cit., p. 17 e 19, Giuseppe Flavio, Guerre Giudaiche, II, 9; Filone d’Alessandria, Ad Cajum § 38, n. 299).
Pilato non era uno scettico, come è comunemente presentato a partire da una superficiale lettura dei Vangeli. Infatti quando chiede a Gesù “Cos’è la verità?” non aspetta la risposta, non perché non crede che possa esistere una verità, ma perché “dovette uscire; dovette interrompere il colloquio con Gesù, e, possiamo dire, con vivo disappunto: il clamore esterno aumentava, diveniva insopportabile” (cfr. F. Spadafora, cit., p. 111; F. M. William, La vita di Gesù, tr. it., Torino, III ed., 1945, p. 455).
Il prestigio di Pilato e la sua deterrenza nei confronti del Sinedrio erano definitivamente compromessi. “I tenaci ed accorti membri del Sinedrio non ebbero più timore di giostrare con il nobile romano, valoroso in guerra, ma poco accorto in politica, e la loro astuzia vinse più volte l’intelligenza e l’intransigenza dell’inesperto governatore. Solo così si spiega il loro disegno di servirsi di Pilato per liberarsi a colpo sicuro di Gesù” (F. Spadafora, cit., p. 19).
Secondo Giuseppe Flavio Pilato fu deposto nel 36 dal legato in Siria-Palestina Vitellio e scrive: “si narra che sotto Caligola fu costretto a suicidarsi” (Le Guerre Giudaiche, cap. VII).
Tuttavia padre Marie Joseph Lagrange ci mette in guardia circa “il poco senso critico di Giuseppe Flavio, che nelle sue compilazioni lascia sussistere non poche contraddizioni. Professa un rispetto insufficiente per la verità, quando essa non corrisponde alle sue convinzioni nazionali e in tutte le sue opere si ritrovano esagerazioni o soppressioni calcolate” (Le Judaisme avant Jésus Christ, cit., p. XV). Specialmente “per quanto riguarda Pilato, sia Giuseppe che Filone sono influenzati da un nazionalismo esasperato e gli eruditi moderni, anche cattolici, si son lasciati influenzare troppo dai testi ebraici di Filone e Giuseppe” (M. J. Lagrange, L’Evangelo di Gesù Cristo, Brescia, II ed., 1935, p. 540).
Purtroppo il cinema di Holliwood ha fatto il resto, presentando delle belle vite di Gesù, ma cambiando la realtà storica sulla responsabilità del Sinedrio nella morte di Cristo, presentando il Sinedrio come composto da pii sacerdoti e i romani come crudeli e spietati persecutori della Giudea e di Gesù Cristo.
Secondo la narrazione dei Vangeli Pilato sta decisamente dalla parte di Gesù. La flagellazione è un disperato tentativo inteso a calmare i nemici di Cristo, ma alla fine il timore di dover condannare lo stesso un innocente per ordine di Tiberio e quindi con responsabilità di Roma spinse Pilato a lasciar fare i Giudei.
Infatti i Giudei avendo capito che Pilato non avrebbe ratificato un’accusa religiosa, che per di più non veniva provata (“se non fosse un malfattore, se non fosse degno di morte, non lo avremmo portato e consegnato a te”), cominciarono a formulare delle accuse specifiche (Lc., XXXIII, 2): è un rivoluzionario anti-romano e si fa Re. Quindi trasformarono tutto l’affare in una questione politica.
Lo stesso vale per la proposta di scegliere tra Gesù e Barabba. “Pilato non fu mai titubante, indeciso circa la liberazione di Gesù e la sua innocenza, ma era sicuro di non poterla attuare in quanto sarebbe bastato un semplice ricorso del Sinedrio a Tiberio per obbligarlo a condannare direttamente un giusto a nome di Roma” (cfr. F. Spadafora, cit., p. 119). E il Sinedrio lo aveva già intimidito: “Se lo lasci libero non sei amico di Cesare”.
Pilato pensava che la folla avrebbe scelto la liberazione di Gesù se le fosse stata proposta in contraccambio quella di Barabba. Infatti la folla secondo i Vangeli (Mc., XV, 8; Mt., XXVII, 20) era propensa a graziare Gesù e a far condannare Barabba, ma “i sommi sacerdoti e gli anziani suggerirono alla folla di graziare Barabba e reclamare la morte di Gesù”. L’unico slogan che la folla sa gridare è “sia crocifisso!” (Mt., XV, 21-22).
La risposta di Pilato è inequivocabile: “sono innocente del sangue di questo giusto” (v. 24). Ossia “la responsabilità della sua morte è tutta vostra” (F. Spadafora, cit., p. 128). Il gesto di lavarsi le mani non va inteso come un non curarsi di ciò che stava per accadere. Infatti in Giudea ci si lavava le mani se ci si imbatteva in un cadavere per significare di non essere colpevole della sua uccisione (cfr. Deut., XXI, 6). L’atto di Pilato voleva significare ai giudei: “io sono innocente della morte di Gesù” (v. 24). E loro capirono benissimo e risposero: “che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (v. 25), cioè essi presero su di sé come popolo la responsabilità della condanna a morte di Gesù. Allora Pilato lasciò Gesù nelle loro mani, non volle condannarlo, ma permise che essi stessi lo condannassero e lo uccidessero (cfr. F. Spadafora, cit., p. 131).
Gesù stesso scagiona Pilato quando gli dice: “chi mi ha consegnato a te è colpevole di un peccato gravissimo. Tu non avresti nessun potere su di me se non ti fosse stato dato dall’alto” (Jo., XIX, 11). Gli esegeti interpretano questo versetto nel senso del peccato del Sinedrio come più grave di quello di Pilato per il fatto che essi avrebbero fatto ricorso a Tiberio dal quale Pilato aveva ricevuto il potere. Pilato è solo un delegato dell’Imperatore e il Sinedrio che ha consegnato Gesù a Pilato lo costringe a condannarlo sotto minaccia di ricorrere all’Imperatore del quale Pilato è solo il soggetto o il delegato (cfr. M. De Tuya, Biblia Comentada, Evangelios, vol. V, Madrid, 1964, p. 1289).
Monsignor Spadafora commenta: “praticamente Gesù esprime comprensione e compassione per Pilato: tu che dici di aver il potere di liberarmi o di uccidermi, in realtà sei in balìa di questi lestofanti; essi ti costringono a fare quello che essi han deciso di ottenere, e proprio abusando della tua posizione di dipendente da Tiberio” (cit., p. 139).
I cattolici greci venerano la moglie di pilato (Claudia Procula) come santa, mentre i Copti venerano anche Pilato, la cui conversione non è storicamente testata, ma la tradizione copta vuole che Pilato abbia terminato la sua vita nel pentimento e nella pratica delle virtù cristiane (cfr. F. Spadafora, cit., p. 157 e 159).
Come si vede la responsabilità di Pilato fu minima. Egli non ha voluto condannare un giusto, ma ha permesso che il Sinedrio lo facesse. Il Sinedrio e il popolo hanno preso su di sé e sui loro discendenti, in quanto popolo ebraico, la responsabilità della condanna di Gesù poiché si professava Dio. Questa è la questione capitale nei rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo talmudico: Gesù o è Dio o è un malfattore. Si non est Deus non est bonus, tertium non datur!
d. Curzio Nitoglia
[1] Filone è stato il più grande scrittore dei Giudei di Alessandria d’Egitto, nato attorno al 30 a. C. e morto sempre ad Alessandria attorno al 50 d. C. Nella sua opera De legatione ad Cajum (Brill, Leiden, 1961) descrive, tra l’altro, ciò che fece Pilato nei confronti dei giudei al tempo di Gesù e come Tiberio mostrasse molto rispetto nei loro confronti e reagisse agli atti ostili di Pilato.
[2] Giuseppe Flavio è stato il più noto storico di cose giudaiche. Si chiamava Giuseppe figlio di Mattia, un sacerdote di Gerusalemme. Le sue opere principali sono La Guerra Giudaica pubblicata prima del 79 (tr. it., a cura di G. Ricciotti, Torino, Sei, 1937, 4 voll.) e Le Antichità Giudaiche pubblicate tra il 93-94 (tr. it., a cura di G. Ricciotti, Torino, 1939, 2 voll.). Nacque a Gerusalemme nel 37 d. C. Nel 66 quando scoppiò la rivolta dei Giudei contro Roma organizzò le forze che avrebbero subito il primo urto delle legioni romane. Nel luglio del 67 fu fatto prigioniero. I generali Vespasiano e suo figlio Tito della gens Flaviagli furono benevoli e quando Vespasiano fu proclamato imperatore nel 69 lo rese libero ed egli prese il nomen del suo liberatore e si chiamò Flavio Giuseppe. Quindi accompagnò il generale Tito nella campagna contro Gerusalemme sino alla sua distruzione (70) e lo seguì a Roma ove fu alloggiato presso la dimora privata di Vespasiano, ebbe la cittadinanza romana ed una pensione annuale. Morì verso il 102-103.
[3] Cfr. F. Roberti – P. Palazzini, Dizionario di teologia morale, Roma, Studium, II ed., 1957, voce “Male minore”.
Non sono un esperto e neanche mi interessano le regole giuridiche che sono state attuate per condannare Gesù. Noto, però, che la condanna viene dal basso. E' il popolo (indotto ad arte) a condannare Gesù. E questo mi porta a considerare che forse nei sistemi democratici in cui vi è la partecipazione del "popolo" i risultati che si ottengono sono spesso, per non dire sempre, deficitari. Basta esaminare come vanno le cose oggi. E allora? Nostro Signore ci offre la possibilità se lo seguiamo di raggiungere il "Regno" di Dio.
RispondiEliminaRegno o democrazia; Dio o mondo. Il bivio è evidente insieme ai risultati conseguibili.
Ma è difficile andare controcorrente. Michele
l'incostanza...il correre dietro le luci false del mondo....i falsi profeti.....falsi messaggi...ancora oggi e purtroppo molti cristiani di fatto scelgono barabba e continuano a crocifiggere Gesù!Signore pietà della nostra ignoranza!
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