LARAS dottore dell'Ambrosiana, primo non cattolico
«Penso che Dio voglia vederci uniti»
La libertà deve sempre essere accompagnata dalla libertà di fare il bene. Cioè non basta fare scelte libere, occorre fare scelte buone». Sono concetti centrali della lectio che svolgerà stasera rav Giuseppe Laras durante la cerimonia in cui l’arcivescovo Angelo Scola gli conferirà il titolo di dottore honoris causa della Biblioteca Ambrosiana. Laras sarà il primo studioso non cattolico a far parte del Collegio dei dottori dell’Ambrosiana, istituzione con cui collabora sin dai primi anni Ottanta, all’epoca del suo arrivo a Milano quale rabbino capo della comunità ebraica. «Lo considero un po’ un suggello alla mia attività accademica di tutti questi anni». Il suo essere inserito ad honorem tra i dottori di un’istituzione cattolica richiama il tema del dialogo ebraico-cristiano. Come lo vede oggi?
«Bisogna continuare a trovare le ragioni per stare insieme e andare avanti. La divaricazione tra ebraismo e cristianesimo sta sempre più restringendosi, si stanno formando quasi due linee parallele. Alle fine dei tempi queste linee dovranno ricongiungersi, ritrovare l’unità se, come io penso, così sarà la volontà divina. Ma è un discorso non agevole, implica rivedere tante posizioni. Il mio impegno in questo ambito si è acceso grazie all’incontro con il cardinale Carlo Maria Martini, che nonostante il suo carattere timido e riservato, era un appassionato, trasmetteva entusiasmo. Con lui ho trovato stimolo e maggiore volontà di impegnarmi».
In che modo?
«Agli inizi degli anni Ottanta il dialogo era avviato da tempo, almeno da dopo il Concilio Vaticano II, ma non molto uniforme nel suo svilupparsi. Martini ci credeva molto e ricordo che passavamo giornate, incontri a parlare delle prospettive. Lui voleva parlare con tutti, aveva creato la Cattedra dei non credenti, aveva coinvolto gli intellettuali atei o più o meno atei, era una figura moderna. Ricordo che quando io manifestavo dei dubbi sul futuro e sulle difficoltà che avrebbe avuto questo dialogo, lui rispondeva sempre: 'Bisogna avere pazienza'. Ma pazienza non nel senso di rimettersi agli eventi, ma di lavorare con insistenza e determinazione. Il dialogo infatti non è un fiume che scorre sempre allo stesso modo, ha momenti di secca, momenti di piena, quindi alti e bassi. L’importante è cercare di non lasciare che si fermi, conosco bene tutti i meandri del dialogo, so quanto sia difficile. E apprezzo ancora più di un tempo Martini, che conosceva meglio di me questi problemi, e nonostante l’atmosfera in certi settori della Chiesa andava avanti. Oggi credo che giustamente lui possa essere definito forse addirittura il “salvatore” del dialogo. Un dialogo che peraltro è continuato con i due successori di Martini: in modo diverso, Tettamanzi e Scola sono due anime grandi».
Papa Francesco insiste molto sulla necessità del confronto, non solo con l’ebraismo ma anche con le altre religioni...
«L’attuale pontefice insiste in maniera importante, utile e benefica nei confronti del dialogo tra le religioni e sulla necessità di incontrarsi e ritrovarsi. E ciò è tanto più significativo oggi in un tempo così drammatico, di tagliatori di teste. Papa Francesco insiste nell’andare oltre l’aspetto triste e negativo per cogliere gli elementi di speranza. Credo che il dialogo trarrà giovamento dal pontificato di Francesco».
Come sono nati i suoi insegnamenti alle università di Pavia e di Milano?
«A Pavia nei primi anni Ottanta ero lettore di lingua ebraica. Ma grazie all’incoraggiamento del professor Luigi Moraldi (titolare della cattedra di Ebraico) facevo anche lezioni sui contenuti del pensiero ebraico: credeva a questo ritrovarsi con il mondo ebraico, e aveva molta sapienza e bontà. Io avevo entusiasmo e voglia di insegnare e trasmettere questo patrimonio di idee, e della lingua ebraica mi vantavo di mettere gli studenti in condizione di leggere un testo in una lezione. Per capire ci vuole altro, ma leggere è il primo passo».
E a Milano?
«Fui coinvolto dal professor Enrico Rambaldi, docente di filosofia morale. Dopo alcune lezioni e conferenze, mi chiamò a insegnare Storia del pensiero ebraico quando fu costituito il Centro Goren-Goldstein (dal mecenate che mise i fondi). Prima c’era solo l’insegnamento della lingua ebraica e delle lingue semitiche comparate. A Milano c’era un tono più accademico, ma cercavo di spiegare quanto servisse per togliere equivoci su mondo e religione ebraica. Non mancarono episodi di affetto degli studenti, come quella psicoterapeuta che veniva da Roma e che, a fine corso, mi regalò un libro dedicato all’acqua, ritenendo che le mie lezioni le fossero indispensabili come l’acqua».
Che rapporto ha con l’Ambrosiana?
«Poco dopo il mio arrivo a Milano avevo fatto conoscenza col rettore, con i dottori e avevo fatto anche conferenze. Poi sia con Gianfranco Ravasi (non ancora cardinale), sia con Franco Buzzi, ho sempre mantenuto rapporti di intensa collaborazione. L’Ambrosiana è un’istituzione culturale non solo milanese, ma conosciuta a livello
internazionale. E già Achille Ratti, prefetto dell’Ambrosiana e poi arcivescovo di Milano che divenne papa Pio XI, ebbe grandi rapporti col rabbino di Milano, Alessandro da Fano».
La spinta a tornare in Israele per gli ebrei europei è la sconfitta del dialogo?
«Se non ci fossero segnali di intolleranza e persecuzione che oggi esistono, anche in Italia, non ci sarebbe spinta verso la aliyah (la salita) in Israele in termini massicci. La terra di Israele, anche prima che esistesse come uno Stato, è sempre stata una componente dell’anima del popolo ebraico, ma questa istanza al ritorno cresce in termini concreti quando l’antisemitismo aumenta e c’è paura di persecuzione e di morte. E gli episodi purtroppo non mancano, basta pensare a quanto accaduto a Parigi a gennaio».
Quale sarà l’argomento della sua lectio?
«Commenterò un passo del Trattato dei padri, testo antichissimo di etica che fa parte della Mishnah in cui si affronta un tema tipicamente religioso e filosofico: la relazione tra l’onniscienza di Dio e la libertà dell’uomo. Se Dio sa tutto quello che tu farai, non sei più libero: quel passo demolisce questa certezza in termini religiosi. Terminerò con il concetto che la libertà deve essere sempre accompagnata dalla libertà di fare il bene, perché la libertà come licenza non serve a niente e a nessuno. E citerò il Deuteronomio dove si dice: «Ecco io pongo di fronte a te il bene e il male, la vita e la morte, ma tu sceglierai la vita» (Dt 30,15 ss). Quando si fanno scelte, non basta fare scelte libere, ma occorre fare scelte buone».
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Il Rabbino di Roma: «Il Papa verrà presto in sinagoga»
Il capo religioso della comunità ebraica romana, Riccardo Di Segni, racconta a Vatican Insider l'incontro con Francesco e le «preoccupazioni in comune»
GIACOMO GALEAZZIROMA
«Ho rinnovato l’invito al Papa a venire in sinagoga e lui ha subito risposto di sì. Resta solo da stabilire la data per la visita di Francesco al tempio maggiore». Al termine dei trenta minuti di colloquio, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni racconta a Vatican Insider l’udienza in Vaticano di lunedì, che si è trasformata in una franca conversazione sui temi più caldi del momento. «Francesco ha fatto un’approfondita analisi politica delle dinamiche che provocano gli sbarchi di immigrati sulle coste italiane - afferma la guida spirituale della più antica comunità ebraica d’Europa - Abbiamo condiviso le stesse preoccupazioni e il dolore per quanto sta accadendo nel canale di Sicilia. Il Papa è consapevole della difficoltà di venire a capo di una situazione complessa».
Tanti gli argomenti affrontati nell’incontro tra il Vescovo di Roma e il Rabbino Capo della Capitale. «Si è mostrato attento e disponibile al confronto - aggiunge Di Segni - Gli ho raccontato due storie private, una delle quali riguarda anche la mia famiglia».
L'udienza doveva avvenire la scorsa settimana insieme con la delegazione dei rabbini europei ma Di Segni aveva rinunciato a causa della morte del suo predecessore, Elio Toaff. «All’inizio dell’incontro il Papa ha ricordato la figura del rabbino Toaff», evidenzia Di Segni. «L'incontro è stato cordiale», sintetizza in una nota il portavoce della comunità ebraica di Roma, Fabio Perugia. «Sono stati affrontati temi di rilievo: dai problemi sociali che affliggono l'Europa all'immigrazione tra i continenti e l'emergenza umanitaria. Il Rabbino Capo e il Papa hanno ragionato sull'impegno delle religioni in questo senso e sui futuri progetti di collaborazione».
Francesco, a poche ore dalla sua elezione, aveva fatto recapitare una lettera personale a Di Segni. Nella missiva il Pontefice prometteva grande collaborazione nel proseguimento dei rapporti tra cattolici ed ebrei. Di Segni, vincitore del premio europeo «Stefano Borgia» per il dialogo interreligioso, la pace e il dialogo tra i popoli, aveva invitato Benedetto XVI in sinagoga e aveva criticato la posizione dei professori della Sapienza che lo avevano indotto a declinare l’invito all’Università in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Ma attaccò Joseph Ratzinger per non aver fatto cenno alla Giornata della Memoria il 27 gennaio 2008 e per la nuova preghiera del Venerdì santo (febbraio 2008) destinata a sostituire quella contenuta nel Messale latino del 1962. In particolare là dove invoca che vengano «illuminati i cuori degli ebrei affinché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini»: «Una grave regressione che pone un ostacolo fondamentale alla prosecuzione del rapporto tra ebrei e cristiani». Nel tempo il rapporto è migliorato. Il 20 marzo 2013, ricevuto dal neoeletto papa Francesco, Di Segni pensò a una sua visita in sinagoga. L’11 ottobre 2013 Bergoglio ricevette la comunità ebraica di Roma e Di Segni formalizzò l’invito, che «il Papa ha accolto positivamente». Nei giorni in cui papa Francesco è stato duramente attaccato dalle autorità politiche e religiose turche per le frasi sul genocidio degli armeni, Di Segni ha difeso la sua scelta di denunciare le persecuzioni dei cristiani: «Prendo atto che finalmente un papa ha parlato di questo fenomeno in termini molto chiari e inequivocabili. Ciò che finora ci aveva stupito come comunità ebraica era stato il silenzio e l’indifferenza delle autorità cristiane».
A Papa Francesco il premio 'L'Abolizionista dell'anno' da Nessuno tocchi Caino
(Infophoto) |
Articolo pubblicato il: 29/04/2015
Nessuno tocchi Caino ha deciso di conferire a Papa Francesco il premio “L’Abolizionista dell’Anno” , il riconoscimento che l'organizzazione assegna ogni anno alla persona che, più di ogni altra, si è distinta per l’impegno a favore dell’abolizione della pena di morte e dei trattamenti disumani e degradanti.
Le ragioni della scelta, precisa l'organizzazione, risiedono nel fatto che Papa Francesco, il cui Pontificato è stato inaugurato dall’abolizione dell’ergastolo e dall’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento dello Stato del Vaticano, si è pronunciato in modo forte e chiaro non solo contro la pena di morte, ma anche contro la morte per pena e la pena fino alla morte.
Papa Francesco lo ha fatto con la “lezione magistrale”, di straordinario valore umanistico, politico e giuridico, rivolta ai delegati dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale, lo scorso 23 ottobre, quando ha definito l’ergastolo come “una pena di morte nascosta”, che dovrebbe essere abolita insieme alla pena capitale e ha considerato l’isolamento nelle cosiddette “prigioni di massima sicurezza” come “una forma di tortura”.
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