Come una ventata d’aria fresca,
il papa irrompe in un’istituzione restia al rinnovamento. Riuscirà il
paladino dei poveri e dell’ambiente a fermare la globalizzazione
dell’indifferenza?
Nel segno di Francesco
Che Mario Bergoglio
sarebbe stato un papa fuori dal comune lo si era capito presto. Quasi
subito. Con quel suo desiderio per nulla inconfessato di lasciare un
segno, di cambiare il sistema, dal rigido protocollo vaticano fino ai
vertici che guidano il piccolo Stato della Chiesa cattolica. Ma forse
l’impronta del suo pontificato è diventata ancora più chiara con
l’enciclica Laudato Si’, resa pubblica il 18 giugno. Qualcuno l’ha
liquidata come un pronunciamento sull’ambiente. Altri hanno messo
l’enfasi sull’equità sociale.
Altri ancora vi hanno visto una critica dell’economia di mercato e dell’impatto della tecnologia sulla società.
In realtà il testo di
papa Francesco si sottrae a qualsiasi banalizzazione. Ci richiama a un
uso consapevole degli strumenti che la ricerca scientifica e la
tecnologia ci mettono a disposizione, ricordando che le risorse del
piccolo pianeta che ci ospita sono limitate. E il loro sfruttamento
eccessivo e iniquo minaccia la natura ma anche la nostra stessa
sopravvivenza. Nel testo manca forse solo un cenno alla questione
demografica, che non può non essere inestricabilmente legata alla “cura
della casa comune”, per citare il sottotitolo dell’enciclica stessa, ma
Francesco aveva già parlato di procreazione responsabile all’inizio di
quest’anno.
Nessuno può sapere se
questo papa riuscirà a cambiare la Chiesa. Ma la sua visione dell’uomo
immerso nell’ambiente può essere di stimolo per un maggiore rispetto di
ciò che ci circonda.
A cominciare dalla
Conferenza sul clima che si terrà a fine anno a Parigi. Dove si dovrà
decidere se provare a invertire la rotta, per il bene di tutti.
Marco Cattaneo, Direttore di National Geographic Italia
di Robert Draper
fotografie di Dave Yoder
In molte occasioni papa Francesco ha
posto l’accento non sulla dottrina ma sul servizio ai poveri, suscitando
reazioni di gioia, ma anche un certo nervosismo.
Al
suo primo incontro pubblico con 7.000 sconosciuti che lo ascoltavano
con venerazione, Jorge Mario Bergoglio non era ancora papa; ma come una
crisalide che inizia la sua metamorfosi, già rivelava qualcosa di
sorprendente. Allo stadio Luna Park di Buenos Aires, dove cattolici e
cristiani evangelici si erano radunati per un evento ecumenico, un
pastore aveva invitato l’arcivescovo a salire in tribuna per parlare ai
presenti. Il pubblico era rimasto sorpreso, anche perché l’uomo che
avanzava verso il palco fino a quel momento si era tenuto in disparte,
seduto agli ultimi posti, come uno spettatore qualsiasi. Non portava la
tradizionale croce cardinalizia, ed era vestito in clergyman nero, come
quando era un prete. Nove anni fa era difficile immaginare che un giorno
quell’argentino attempato e senza pretese, dall’aria malinconica e
dimessa, sarebbe divenuto una figura carismatica conosciuta in ogni
angolo del mondo.
L’arcivescovo prende la parola in
spagnolo. Non fa alcun accenno al tempo in cui, come molti altri
sacerdoti cattolici dell’America del Sud, liquidava il movimento
evangelico come una escuela de samba. Ora però il maggior esponente
argentino della Chiesa cattolica – che si considera la sola vera Chiesa
cristiana – afferma che davanti a Dio le distinzioni non contano. «Com’è
bello», esclama, «vedere i fratelli pregare insieme. Com’è bello vedere
che nessuno si mette a discettare sulla storia della propria
confessione o sul proprio percorso di fede. Vedere che pur essendo
diversi, vogliamo essere e già cominciamo a essere espressione di una
diversità riconciliata».
Le braccia tese, il volto improvvisamente
animato, con un fremito di passione nella voce, Jorge Mario Bergoglio
si rivolge a Dio: «Padre, siamo divisi. Uniscici!». Chi lo conosce lo
guarda sorpreso, perché l’arcivescovo è noto per la sua espressione
imperturbabile, che gli è valsa il soprannome di Monna Lisa, o anche
Carucha (per via delle guance, simili a quelle di un bulldog). Ma sarà
un suo gesto a rendere memorabile quella giornata. Giunto aliatine del
discorso, Bergoglio si inginocchia lentamente sul palco e chiede ai
presenti di pregare per lui. E il pubblico, ancorché sorpreso, dopo un
attimo di esitazione risponde all’invito, sotto la guida di un ministro
evangelico. L’immagine dell’arcivescovo inginocchiato tra altri prelati
di grado a lui inferiore, in atteggiamento di umile supplica e
venerazione, finirà sulle prime pagine della stampa argentina.
Uno
dei giornali che pubblicano la foto è Cabildo, considerato la voce dei
cattolici ultraconservatori del paese, che nel titolo dell’articolo
accanto all’immagine usa un termine dirompente: apostata. Il cardinale
traditore della sua fede! Questo era Jorge Mario Bergoglio, il futuro
papa Francesco.
«Sento davvero il bisogno di cambiare le
cose da subito», aveva detto ad alcuni amici argentini appena due mesi
dopo essere stato eletto dai 115 cardinali riuniti in conclave in
Vaticano, e catapultato da una posizione relativamente oscura al papato.
Molti osservatori pensano – a volte con entusiasmo, altre con
disappunto – che il nuovo papa abbia già cambiato praticamente tutto
dalla sera alla mattina. E il primo papa sudamericano, il primo gesuita
eletto al soglio pontificio, il primo – da oltre un millennio – nato in
un paese non europeo, il primo ad aver scelto il suo nome in onore di
San Francesco d’Assisi, paladino dei poveri. Il 13 marzo 2013, subito
dopo la sua elezione, il nuovo capo della Chiesa cattolica è comparso
sulla Loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro vestito di
bianco, ma senza la tradizionale cappa scarlatta e la stola rossa
ricamata in oro attorno al collo. E ha salutato la folla festante
radunata nella piazza con elettrizzante semplicità: «Fratelli e sorelle,
buonasera». Per concludere poi il suo discorso con una richiesta
familiare a molti argentini, dato che era la conclusione abituale di
ogni suo intervento: «Pregate per me». Poi, al momento di andarsene, è
passato oltre la limousine predisposta per lui, per saltare sull’autobus
su cui viaggiavano i cardinali che lo avevano appena eletto.
La mattina dopo il papa ha saldato
personalmente il conto dell’albergo in cui aveva alloggiato. Ha
rinunciato poi ai tradizionali appartamenti papali nel palazzo
apostolico per prendere alloggio in un piccolo appartamento alla Casa
Santa Marta, la foresteria del Vaticano. In occasione del suo primo
incontro con la stampa internazionale ha dato voce alla sua maggiore
ambizione: «Quanto vorrei una Chiesa povera, al servizio dei poveri!». E
invece di celebrare la messa serale del Giovedì Santo (in
commemorazione dell’Ultima Cena) nella Basilica e lavare i piedi, come
voleva la tradizione, a 12 sacerdoti, lo ha fatto in un riformatorio.
Dopo la predica – gesto mai compiuto prima da un papa – ha lavato i
piedi a 12 ragazzi e ragazze, tra cui alcuni musulmani. Tutto questo nei
primi due mesi dalla sua elezione.
Ma i suoi amici argentini sanno bene che
quando parlava di «cambiamento», il nuovo papa intendeva qualcos’altro.
Anche se ogni suo minimo gesto ha un peso considerevole, l’uomo che
conoscono non è tipo da accontentarsi di simboli. E un porteno (così si
chiamano gli abitanti di Buenos Aires) dotato di grande senso pratico. E
vuole che la Chiesa cattolica cambi sostanzialmente la vita delle
persone. La Chiesa come un ospedale da campo – un’ immagine usata più
volte dal papa – allestito accanto alla linea del fronte per curare
tutti i feriti degli schieramenti opposti. E come ha detto un suo amico,
il rabbino argentino Abraham Skorka, «lui è uno che quando persegue uno
scopo sa essere molto caparbio».
Sebbene
nel resto del mondo l’elezione di papa Francesco sia stata percepita
come un fulmine a ciel sereno, in Argentina Bergoglio era ben noto per
le posizioni spesso controverse. Figlio di un contabile piemontese
emigrato con la famiglia, si era distinto fin dal suo ingresso al
seminario, a vent’anni, nel 1956. Prima aveva lavorato come tecnico di
laboratorio e per un breve periodo persino come buttafuori per un
locale. Poco dopo scelse la strada più difficile verso il sacerdozio:
quella della Compagnia di Gesù. Secondo il parere di uno dei suoi
professori, Padre Juan Carlos Scannone, fin dal 1963 il giovane
Bergoglio, studente al Colegio Máximo de San José, si dimostrò «dotato
di alto discernimento spirituale e di intelligenza politica». Tanto che
presto divenne consigliere spirituale non solo dei suoi compagni
studenti, ma anche di alcuni insegnanti.
Fu insegnante di giovani sbandati, lavò i
piedi ai carcerati, studiò oltre oceano, fino a diventare rettore del
Colegio Máximo. Ma al tempo stesso era un visitatore abituale delle
baraccopoli degradate alla periferia di Buenos Aires. E mentre saliva
nei gradi della gerarchia gesuita navigava nel torbido mondo politico di
quel periodo, in cui la Chiesa cattolica era in rapporti non facili
dapprima con Juan Perón, e successivamente con la dittatura militare.
Caduto in disgrazia presso i superiori gesuiti, fu riabilitato e salvato
dall’isolamento grazie a un cardinale che lo ammirava, per poi essere
nominato prima vescovo (1992), poi arcivescovo (1998) e infine
cardinale, nel 2001.
Tendenzialmente timido, Bergoglio – che si definisce un callejero,
uno che ama camminare per le strade della città – preferiva la
compagnia dei poveri a quella dell’élite economica. Le indulgenze che si
concedeva erano poche: la letteratura, il calcio, il tango, un buon
piatto di gnocchi. Nella sua semplicità, questo porteno è sempre stato
un animale urbano, e in quel suo modo pa¬cato anche un acuto osservatore
sociale, oltre che portato per natura alla leadership. Sapeva cogliere
il momento giusto, come quando fustigò la corruzione in un discorso
tenuto alla presenza del presidente argentino, o quando si inginocchiò
davanti al pubblico sulla tribuna del Luna Park, nel 2006. Padre Carlos
Accaputo, uno dei consiglieri a lui più vicini da quando è diventato suo
collaboratore, nel 1992, ha detto: «Io penso che Dio lo abbia preparato
a questo momento, per tutta la durata del suo ministero pastorale».
Peraltro la sua elezione al soglio
pontificio non è stata frutto del caso, ma come ha scritto il
giornalista Massimo Franco, “l’esito di un trauma”: le improvvise
dimissioni (senza precedenti da quasi sei secoli) di Benedetto XVI.
D’altra parte i cardinali più progressisti erano sempre più convinti che
la mentalità eurocentrica e sclerotizzata della Santa Sede stava
distruggendo la Chiesa cattolica dal suo interno.
Durante l’incontro con i suoi vecchi
amici nel soggiorno del suo appartamento, quella mattina il papa aveva
parlato delle temibili sfide che lo aspettavano. Il disordine
finanziario dell’istituto per le Opere di Religione (lo IOR, la banca
del Vaticano); la grettezza burocratica dell’amministrazione centrale,
la Curia romana; il continuo emergere di nuovi casi di preti pedofili
sottratti all’azione giudiziaria da esponenti della gerarchia
ecclesiastica. Su queste e altre questioni, Francesco si proponeva di
agire rapidamente, ben sapendo che «si sarebbe fatto molti nemici», come
ha detto il pastore pentecostale Norberto Saracco, presente a
quell’incontro, per aggiungere poi: «Di certo non è un ingenuo!». Il
pastore Saracco ricorda di aver espresso la sua preoccupazione anche per
l’impavidità del papa. «Jorge, sappiamo che non porti un giubbotto
antiproiettile», gli aveva detto. «Ci sono tanti pazzi in giro…». E
Francesco, calmo: «Il Signore mi ha chiamato qui. Bisogna pure che mi
protegga». Anche se non aveva chiesto di diventare papa, nel momento in
cui il suo nome veniva proclamato dal Conclave si era sentito pervaso da
una grande pace. E ha rassicurato gli amici. Malgrado le animosità da
affrontare, ha detto, «questo senso di pace mi accompagna tuttora». Ma
le reazioni all’interno del Vaticano sono un’altra storia.
Lo
scorso anno Federico Wals, che a Buenos Aires era stato per lunghi anni
il portavoce di Bergoglio presso la stampa, si recò a Roma per far
visita al papa. E per prima cosa andò a trovare padre Federico Lombardi,
responsabile di lungo corso delle comunicazioni del Vaticano e dunque
essenzialmente suo omologo, ancorché su scala molto più vasta. «Allora,
Padre», gli chiese, «come si sente con il mio ex capo?». Con un sorriso
forzato il prelato gli rispose: «Confuso».
Padre Lombardi era stato portavoce di
papa Benedetto XVI, al secolo Josef Ratzinger, un uomo preciso come può
esserlo un tedesco. «Al termine di ogni suo incontro con le maggiori
personalità a livello mondiale, mi forniva una relazione sintetica e
incisiva», ricorda. «Era di una chiarezza straordinaria: temi del
colloquio, punti condivisi, altri punti su cui dissentire, temi e
finalità del successivo incontro. In due minuti mi dava un quadro
perfetto dei contenuti. Con Francesco è tutt’altra cosa. Mi dice per
esempio: “E un uomo saggio, uno che ha avuto questa o quell’esperienza
interessante”». Padre Lombardi aggiunge poi con una risatina
imbarazzata: «La diplomazia, per Francesco, non è in funzione di una
strategia. Piuttosto, potrebbe dire: “ci siamo incontrati, ora tra noi
c’è un rapporto personale, faremo qualcosa per il bene della gente e
della Chiesa”».
La conversazione con il portavoce del
papa si svolge nella piccola sala riunioni, presso la sede di Radio
Vaticana, non lontano dal Tevere. La veste di Lombardi è sgualcita,
intonata alla sua espressione stanca e perplessa. «Ieri per esempio»,
dice, «il papa ha ricevuto alla Casa Santa Marta un gruppo di 40
dirigenti ebrei, ma l’ufficio stampa del Vaticano è venuto a saperlo
solo a cose fatte. Mai nessuno è al corrente del suo programma completo,
neppure il suo segretario personale», sottolinea. «Perciò mi tocca fare
telefonate qua e là: qualcuno è informato di una parte del programma,
qualcun altro ne conosce un’altra parte». Il capo delle comunicazioni
del Vaticano si stringe nelle spalle. «Così è la vita».
Non è stato semplice abituarsi al nuovo
papa, con il suo orologio di plastica e le sue grosse scarpe
ortopediche, che fa colazione al bar del Vaticano. Così come al suo
senso dell’umorismo, decisamente informale. Dopo aver ricevuto alla Casa
Santa Marta la visita di un vecchio amico italiano, l’arcivescovo
Claudio Maria Celli, Francesco volle accompagnarlo all’ascensore. «Ma
perché insisti? », chiese Celli. «Vuoi essere sicuro che me ne vado
davvero?». E il papa, con la sua solita presenza di spirito: «Sì, e
voglio anche controllare che non ti porti via niente! ».
Come molte istituzioni, anche il Vaticano
è refrattario al cambiamento. Dal XIV secolo l’epicentro del
cattolicesimo è questa piccola città-stato, che si estende su 44,5
ettari. Grazie anche a tesori quali la Cappella Sistina e la Basilica di
San Pietro, la Città del Vaticano esercita una forte attrazione sui
turisti ed è meta dei pellegrinaggi di 1,2 miliardi di cattolici. In
altri termini, è il mondo che viene verso il Vaticano, mentre il
contrario non accade mai. Ma il Vaticano è anche un’entità territoriale
con i suoi amministratori municipali, le sue forze di polizia, il suo
tribunale, i suoi vigili del fuoco, la farmacia, l’ufficio postale, il
super- mercato, un suo giornale e una squadra di cricket.
Il personale dipendente barricato nella
Città del Vaticano è esente dal pagamento dell’IVA; e la burocrazia
diplomatica si comporta come ogni altra burocrazia, riservando ai
vescovi che godono di maggior favore gli incarichi più confortevoli e
ambiti, e relegando gli altri in qualche angolo più o meno desolato del
mondo. Per secoli il Vaticano ha resistito alle invasioni, alle piaghe,
alle carestie, al fascismo e agli scandali. Le sue mura hanno retto. E
poi è arrivato Francesco, un uomo che disdegna i muri. Tanto che una
volta, mentre con un amico passeggiava accanto alla Casa Rosada, sede
degli uffici del presidente argentino, aveva detto: «Come fanno a sapere
che cosa vuole la gente se si costruiscono intorno una barriera?».
Bergoglio vuole essere ciò che Massimo Franco, autore di un libro sul
Vaticano e sul nuovo pontefice, ha definito «un papa disponibile: una
contraddizione in termini». La sola nozione sembra aver già fatto
impallidire il volto opaco del Vaticano.
«Secondo
me, ancora non abbiamo visto i veri cambiamenti», dice don Ramiro de la
Serna, un sacerdote francescano residente a Buenos Aires, che conosce
il papa da più di trent’anni. «E penso che neppure abbiamo visto le vere
resistenze». Per ora i maggiori esponenti del Vaticano stanno ancora
prendendo le misure. Potrebbero essere tentati di interpretare il suo
modo di reagire a cuore aperto come la prova di una natura puramente
istintiva. Padre Lombardi ha definito “atti del tutto spontanei” i gesti
compiuti durante il viaggio in Medio Oriente, che hanno suscitato tanti
commenti. Come quando ha abbracciato l’imam Omar Abboud e il rabbino
Skorka dopo aver pregato con loro davanti al Muro del Pianto. Ma lo
stesso Skorka ha riferito di aver concordato quel gesto con lui prima di
partire per la Terra Santa. «Gli ho detto: il mio sogno è di poter
abbracciare te e Omar davanti al Muro».
Il fatto che quell’abbraccio sia stato
programmato pervenire incontro al desiderio del rabbino denota la
lucidità del papa, consapevole che ogni suo movimento, ogni sillaba dei
suoi discorsi e commenti verrà analizzato per la valenza simbolica e
profetica. Francesco è prudente, come lo definiscono i suoi amici
argentini, che si mettono a ridere all’idea che qualcuno gli attribuisca
candore e spontaneità. Lo descrivono come un “giocatore di scacchi”,
uno che “organizza alla perfezione” ogni sua giornata e “pondera
attentamente su ciascuno dei suoi passi”. Anni fa aveva detto a due
giornalisti, Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin, che di rado dava retta
ai suoi impulsi, «perché la prima risposta che mi viene in mente di
solito è sbagliata». Pur avendo introdotto cambiamenti relativamente
drastici nello stile di vita della Santa Sede, Francesco ha dimostrato
grande buon senso facendo non poche concessioni alle realtà del
Vaticano. Avrebbe voluto evitare che le guardie svizzere lo seguissero a
ogni passo, ma si è rassegnato alla loro presenza quasi costante. E pur
avendo rifiutato per i suoi spostamenti la papamobile blindata a prova
di pallottole, in uso dal 1981, dopo l’attentato contro Giovanni Paolo
II, ammette di non poter più viaggiare in metropolitana, né girare
liberamente nelle periferie degradate, come faceva a Buenos Aires.
Come capo del Vaticano e come argentino
si è sentito in obbligo, come riferiscono i suoi amici, di ricevere
Cristina Fernandez de Kirchner, presidente del suo paese, pur sapendo
che lei avrebbe strumentalizzato la visita per i suoi fini politici. «Se
l’ha ricevuta amichevolmente, lo ha fatto per pura grazia», dice il
pastore evangelico di Buenos Aires, Juan Pablo Bongarrá. «Lei non lo
meritava. Ma è così che Dio ci ama: per pura grazia».
A detta di Wals, già suo collaboratore
per i rapporti con la stampa, la lucida consapevolezza di Bergoglio non
ha nulla di sorprendente. Lo prova il modo in cui partì da Buenos Aires
quando era ancora arcivescovo. Sapeva che avrebbe potuto essere eletto,
anche perché nel 2005, al conclave seguito alla morte di Giovanni Paolo
II, era stato il secondo in lizza dopo Joseph Ratzinger. Wals racconta
che in previsione della partenza per Roma, Bergoglio «aveva scritto
tutte le lettere in sospeso e lasciato la situazione finanziaria in
perfetto ordine. La sera prima della partenza mi aveva telefonato per
rivedere con me i dettagli dell’attività dell’ufficio, e per darmi
alcuni consigli per il mio futuro, come se prevedesse una lunga
assenza».
Pur mostrandosi sempre sereno, Francesco
ha assunto la sua carica con profonda consapevolezza delle gravose
responsabilità che essa comporta, ma anche con la caratteristica
tendenza a non prendersi troppo sul serio. Come ha detto l’anno scorso a
un suo ex studente, lo scrittore argentino Jorge Milia: «Ho cercato a
lungo nella biblioteca di Benedetto, ma non ho trovato nessun manuale di
istruzioni per l’uso. E dunque cerco di cavar-mela facendo del mio
meglio».
I
media lo hanno definito un riformatore, un radicale, un rivoluzionario,
ma Francesco non corrisponde a nessuna di queste tre definizioni. Non è
possibile ignorare il suo impatto e tanto meno misurarlo. Francesco ha
acceso una scintilla spirituale. Tra i cattolici ma anche tra gli altri
cristiani, tra i seguaci di religioni diverse, e persino tra i non
credenti. Come ha detto il rabbino Skorka: «Bergoglio sta trasformando
la religiosità nel mondo intero». Il capo della Chiesa cattolica
rappresenta una novità largamente vissuta come positiva, dopo un periodo
di continue brutte notizie. Come osserva il gesuita Thomas J. Reese,
autorevole analista della rivista National Catholic Reporter.
«Due anni fa, se chiedevi per strada a un passante quali fossero le
posizioni e i valori della Chiesa cattolica, in genere rispondeva
ricordando la condanna dei matrimoni gay e del controllo delle nascite.
Oggi invece alla stessa domanda la gente risponde: “Oh, il papa è uno
che ama i poveri e non abita in un palazzo!”. Per un’istituzione
millenaria è un risultato straordinario. Dico, scherzando, che la
Harvard Business School dovrebbe prenderlo a esempio nei suoi corsi
sulle tecniche di rebranding. I politici di Washington farebbero carte
false per avere il suo tasso di approvazione».
Ma evidentemente nell’ottica dei
rappresentanti ufficiali del Vaticano lo spettacolo di un culto della
personalità papale – Francesco come rock star – sarebbe disdicevole. Per
alcuni la popolarità del papa è addirittura un pericolo, nella misura
in cui gli conferisce più forza per portare avanti la missione
affidatagli dai cardinali che lo hanno eletto: quella di spogliare la
Chiesa del suo regale distacco per espandere invece la sua influenza
spirituale. Come ricorda il cardinale Peter Turkson, del Ghana:
«Nell’attesa che iniziasse il conclave noi cardinali ci ritrovammo
insieme e scambiammo i nostri punti di vista. C’era nell’aria un clima
particolare, una palpabile voglia di rinnovamento. In realtà nessuno
disse esplicitamente: “Non vogliamo un altro italiano, e neppure un
europeo”. Ma il desiderio di cambiare c’era».
«Per il gruppo dei presenti», aggiunge
Turkson, «il cardinale Bergoglio era quasi uno sconosciuto, finché non
pronunciò un discorso simile a un manifesto programmatico. Ci disse che
il nostro obiettivo doveva essere una Chiesa in espansione verso le
periferie, non solo nel senso geografico del termine, ma anche in quello
delle esistenze umane. Ai suoi occhi il Vangelo invita tutti noi a
sviluppare questo tipo di sensibilità. Questo suo contributo era come
una ventata d’aria fresca: un’esperienza diversa, un modo diverso di
avere cura del popolo di Dio».
Il pontificato di Francesco non ha deluso
chi, come il cardinale Turkson, desiderava il cambiamento. In due anni
il nuovo papa ha nominato 39 cardinali, di cui 24 non europei. Nel
dicembre scorso, prima di pronunciare un discorso sferzante in cui
stigmatizzava le «malattie» che affliggono la Curia (tra cui «la
vanagloria», «i pettegolezzi», il «profitto mondano»), il papa ha
incaricato nove cardinali, di cui due soli provenienti dalla Curia, di
riformare l’istituzione. Per combattere quello che ha definito “culto
sacrilego” – gli abusi sessuali commessi all’interno della Chiesa – ha
costituito la Commissione pontificia per la protezione dei minori, sotto
la guida dell’arcivescovo di Boston Seàn Patrick O’Malley. Per portare
la trasparenza nelle finanze del Vaticano ha chiamato un uomo energico e
tenace come il cardinale George Peli di Sydney (Australia), ex
giocatore di rugby, nominato prefetto del Segretariato per l’economia,
conferendogli un grado pari a quello del segretario di Stato. Nel
procedere a queste nomine il papa ha peraltro dato prova di grande
deferenza per la vecchia guardia, confermando alla guida della
Congregazione per la Dottrina delle fede, preposta all’osservanza dei
precetti della Chiesa, il rigoroso cardinale Gerhard Mùller, designato
da Benedetto XVI.
Le
mosse finora compiute dal papa sono significative, ma è difficile dire
dove approderanno. I primi segnali hanno suscitato grandi attese non
solo tra i riformisti, ma anche tra molti cattolici più tradizionalisti.
Pur avendo accettato le dimissioni di un vescovo statunitense, il primo
a subire una condanna per aver omesso di denunciare casi di sospetti
abusi su minori, Francesco ha nominato vescovo un sacerdote cileno, a
sua volta accusato di aver coperto gli abusi di un altro prete, e perciò
contestato durante la cerimonia della sua investitura. Il Sinodo
straordinario sulla famiglia convocato da Francesco nell’ottobre scorso
ha tranquillizzato i conservatori, poiché non ha prodotto i drastici
mutamenti che molti temevano. Ma il sinodo generale, che avrà luogo a
ottobre, potrebbe avere esiti diversi.
Sul tema dell’esclusione dei divorziati
dalla comunione (a differenza di chi ha ottenuto l’annullamento) ecco la
testimonianza del professor Scannone, ex docente e amico del papa. «Mi
ha detto: “Voglio ascoltare tutti”. Aspetterà fino al secondo Sinodo,
sentirà il parere di ciascuno, ma è sicuramente aperto al cambiamento».
Il pastore pentecostale Saracco ha anche discusso con Francesco sulla
possibilità di sopprimere l’obbligo del celibato per i sacerdoti. «Se
riuscirà a sopravvivere oggi alle pressioni della Chiesa, e nell’ottobre
prossimo ai risultati del sinodo sulla famiglia», ha detto, «penso che a
quel punto sarà pronto ad affrontare il tema del celibato». Una sua
intuizione, una dichiarazione esplicita del papa? A questa domanda
Saracco ha risposto, con un sorriso arguto: «E qualcosa di più di
un’intuizione».
Spesso le parole e i gesti del papa sono
un po’ come il test psicologico di Rorschach: una macchia d’inchiostro
in cui ciascuno può vedere ciò che gli suggerisce la sua immaginazione.
Potrebbe sembrare paradossale, data la semplicità dell’uomo, nelle sue
abitudini come nel suo modo di esprimersi. Ma anche questa non è una
novità.
Nel 2010 un ex allievo dell’arcivescovo
di Buenos Aires, Yayo Grassi, operatore di catering a Washington, spedì
un’e-mail a Bergoglio dopo aver letto una sua dichiarazione di condanna
delle proposte di legge per la legalizzazione dei matrimoni tra persone
dello stesso sesso: “Lei è stato la mia guida, non ha mai cessato di
allargare il mio orizzonte e di influenzare la mia visione del mondo in
senso sempre più progressista”, scriveva Grassi, per poi concludere: “La
sua dichiarazione mi ha profondamente deluso”. L’arcivescovo non mancò
di rispondere a quel messaggio, anche se non direttamente per e-mail, ma
più probabilmente con un biglietto vergato a mano, nella sua
calligrafia minuta, e affidato al suo segretario. Di fatto papa
Francesco non ha mai usato un computer, non naviga su Internet e non
possiede neppure un telefono cellulare. (E l’ufficio stampa del Vaticano
a preparare i tweet per i suoi nove account @Pontifex di Twitter, che
hanno 20 milioni di followers, e a spedirli dopo l’approvazione del
papa). Bergoglio ha assicurato Grassi di aver preso a cuore le sue
parole, ma la posizione della Chiesa era quella che era. Si è detto poi
molto addolorato di aver urtato la sensibilità del suo ex allievo,
osservando al tempo stesso che i media avevano interpretato le sue
parole in maniera distorta. Infine, il futuro papa ha concluso asserendo
che nel suo lavoro pastorale non c’era spazio per l’omofobia. Questo
scambio di messaggi può dare un’idea della portata, e anche dei limiti,
di ciò che possiamo attenderci dal suo pontificato.
In
definitiva, Bergoglio non ha sconfessato la sua posizione contraria ai
matrimoni gay, che vedeva come una minaccia per “l’identità e la
sopravvivenza della famiglia formata da un padre, da una madre e dai
loro figli”, come scrisse in una di quelle lettere. Tra le decine di
suoi amici che ho intervistato, neppure uno ritiene che papa Francesco
modificherà la posizione della Chiesa su questo punto. Ma ciò che
affascina le folle riunite in Piazza San Pietro, ciò che ha riconfermato
la venerazione di Grassi per il suo ex maestro, e certo non mancherà di
suscitare lo stesso entusiasmo negli Stati Uniti, dove Francesco si
recherà a settembre, è il bianco abbagliante del suo abito papale,
immaginato e riproposto come emblema di una semplicità accessibile a
tutti. E la fusione tra l’affinità di questo porteno con la vita delle
strade, e la sua fede di gesuita in un impegno vigoroso per la comunità:
el encuentro, che trova la sua attuazione nel gesto di andare incontro
all’altro, ma anche nella disponibilità ad ascoltarlo, un’impresa
decisamente più ardua e impegnativa dell’impersonale proclamazione di
editti. Perché richiede il coraggio dell’umiltà. E questo che ha spinto
Bergoglio a inginocchiarsi davanti a migliaia di cristiani evangelici
chiedendo le loro preghiere. Ed è per questo che i suoi occhi si
riempivano di lacrime quando si recava nelle baraccopoli di Buenos
Aires, dove una volta un uomo disse di riconoscere l’arcivescovo come
uno di loro, dopo averlo visto viaggiare in fondo a un autobus.
Per questo, già nominato papa, Francesco
ebbe l’impulso di sottrarre la sua mano al bacio di un sacerdote
albanese che era stato incarcerato e torturato dal suo governo, e volle
essere lui a baciare la mano di quell’uomo, per poi scoppiare a piangere
senza ritegno tra le sue braccia. Per questo due anni fa, in un momento
di grande significato emblematico, che avrebbe colto di sorpresa
milioni di persone, ha risposto a chi gli chiedeva un giudizio sui
sacerdoti omosessuali con una semplice domanda, gentile e sorprendente:
«Chi sono io per giudicare?».
Sembra dunque che sia questa la missione
del papa: suscitare una rivoluzione in seno al Vaticano e al di là delle
sue mura, senza però sconvolgere il nucleo tradizionale dei suoi
precetti. Ne è convinto il suo amico argentino Serna: «Non cambierà la
dottrina, ma anzi ridarà vita ai veri insegnamenti della Chiesa, finiti
nel dimenticatoio: una dottrina che pone al centro l’uomo. Per troppo
tempo la Chiesa ha focalizzato la propria attenzione sul peccato. Se ora
la concentrerà nuovamente sulla sofferenza degli umani e sul rapporto
con Dio, incomincerà a modificare anche i duri giudizi
sull’omosessualità, sul divorzio e così via».
Ma l’uomo che aveva parlato ai suoi amici
argentini della necessità «di incominciare da subito a cambiare le
cose» non ha il tempo dalla sua parte. Quando disse, la primavera
scorsa, che forse «il suo papato non sarebbe durato più di cinque o sei
anni», chi lo conosceva bene non ne fu sorpreso, ben conoscendo il suo
desiderio di trascorrere gli ultimi anni di vita nella sua terra.
Peraltro quelle parole hanno sicuramente confortato i conservatori più
tenaci all’interno del Vaticano, che faranno del loro meglio per
rallentare gli sforzi riformatori di Francesco, nella speranza di
trovare nel suo successore un avversario più malleabile.
Ma indipendentemente dal successo che
potrà avere questa rivoluzione non ha precedenti, se non altro per
l’incontenibile gioia di colui che la sta portando avanti. Quando il
nuovo arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Mario Poli, notò con
sorpresa, durante la sua visita alla Città del Vaticano, l’espressione
sempre sorridente del suo amico, che ricordava spesso cupo e accigliato,
Francesco ponderò bene le sue parole, come è solito fare, e poi
rispose: «E molto divertente essere papa». E di sicuro lo disse
sorridendo.
© National Geographic Magazine Italia (08/2015)
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