ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 29 agosto 2015

Maria docet

La carica delle vergini laiche (che hanno sposato il Signore)

Raduno in seminario per duecento donne che hanno scelto la castità. "Sola o pentita? Per niente, Gesù è una persona e te la senti accanto"
Che cosa c'è di più provocante della verginità? Forse nulla e vedere oltre duecento donne che hanno sposato Gesù e vivono una vita di castità in mezzo alle cose di tutti i giorni è un punto interrogativo gigantesco che si disegna negli occhi di chi le incontra.


Ma non nei loro. «“Lascia stare, non è pane per i tuoi denti, fai una brutta figura, è una consacrata”, dicono agli uomini che ancora non mi conoscono. Di solito segue stupore e confusione: non è una suora, non è sciatta né dimessa. Come può essere?». Racconta Maddalena Mazzeschi, 51 anni, bella donna bruna e ben vestita. È titolare di un'agenzia di comunicazione che si occupa di vino con sede a Montepulciano e fa politica come impegno che le ha dato il suo vescovo. Sì, perché Maddalena è una delle 650 donne italiane dell' Ordo Virginum , l'antichissimo ordine delle vergini, riportato in vita dal Concilio Vaticano II. Come se non bastasse, vive in mezzo a gente che certo non ha il problema della povertà materiale. Contraddizioni che sembrano stridenti. «La mia vocazione è nata perché Dio mi diceva: non possiamo abbandonare queste persone perché sono ricche e potenti. Sono venuto a salvare tutti, non solo i poveri. E così eccomi in mezzo a questo mondo nel quale mi ha mandato a dare la mia testimonianza». A lenire povertà spirituali forse ancora più gravi.
Per diventare una vergine consacrata, per esser ammessa al rito, non si richiede una verginità fisica. «È la castità dal momento della chiamata a essere fondamentale. Non abbiamo uomini perché abbiamo scelto Cristo come sposo». Se anche c'è stata una caduta, o in casi limite eppure drammaticamente veri, una violenza, Gesù fa nuove tutte le cose e può restituire una verginità fisica perduta. Bisogna essere battezzate e cresimate, non essere mai state sposate né aver vissuto pubblicamente in uno stato contrario alla castità (insomma, niente convivenze alle spalle) ed essere economicamente indipendenti. Perché, a differenza dei sacerdoti, le vergini consacrate non hanno seminari né rendite e devono cavarsela da sé.
Vita dura, si direbbe a pensarci, e senza consolazioni. Ma quando ti trovi in mezzo a loro capisci che pur tra mille ostacoli c'è qualcosa dentro. Qualcuno. «Certo, mai che mio marito pensasse a tagliare l'erba del pratino oppure a far quadrare il bilancio familiare - scherza Maddalena - ma Gesù è una persona e tu la senti accanto. Non è una rinuncia ciò che ho lasciato, ho lasciato una cosa grande come il matrimonio per qualcosa di più grande». Non tutte sono come Maddalena, perché la particolarità dell 'Ordo Virginum è anche in questa regola personalizzata, per così dire concordata con il vescovo, e ci sono donne che vivono in piccole comunità, altre da sole, e ciascuna sottoscrive impegni suoi. A parte la promessa di castità e l'obbedienza al vescovo (pur senza voto), che valgono per tutte. Qui insieme dicono la Messa, si riuniscono per intonare canti, passeggiano per i corridoi del seminario di Venegono.
Ognuna racconta con toni suoi la verginità e il rapporto d'amore con lo Sposo. Non vi mancano gli uomini in carne e ossa? «A volte siamo in difficoltà, come in tutti i matrimoni. Come le donne sposate, nelle situazioni normali, può persino arrivare la voglia di cercare alternative. Ma a salvarmi, credo di poter dire a salvarci, è questo rapporto fisico con il Signore. È lui a essere fedele. Quante volte me ne sono resa conto» dice Gloria, geologa di Milano, che ha abbandonato il suo lavoro per una casa editrice e poi la casa editrice per Nocetum, un borgo nei dintorni dell'abbazia di Chiaravalle da far rivivere e rendere accogliente anche per le persone svantaggiate. I problemi di soldi non mancano, a lei come ad altre. Anna Rosalia, di Bari, vive con la mamma di novantatré anni. Sentirmi sola? «Mi sento in compagnia più di molte coppie che incontro nel mio lavoro di insegnante. Ho rinunciato al mio desiderio di maternità e mi sono ritrovata con tantissime figlie: ragazze albanesi di diciassette o diciotto anni con bambini. Spesso sono bambine le madri, come i figli». Vergine e madre.
Rosalba, 38 anni, arriva dalla Puglia e vive a Roma. Essere vergine le consente di essere madrina di 12 figliocci e accompagnare spiritualmente giovani, studenti, docenti e persino sacerdoti. Rosella, di Pavia, che di anni ne ha 48, è impiegata in un'azienda di servizi alla persona, settore gare d'appalto. «Mi dedico soprattutto al carcere e spesso mi chiedono: “ma perché proprio con queste persone?” Io rispondo sempre che se fossi nata nelle loro condizioni, chissà. Mi manda in crisi a volte fare catechesi ai pedofili, però poi mi dico: se il Signore è morto per tutti, la salvezza non dipende da noi. Io non sono un giudice». Essere vergine significa anche questo.
http://www.ilgiornale.it/news/politica/carica-delle-vergini-laiche-che-hanno-sposato-signore-1164087.html



Esiste una specifica missione della donna?


di Francesco Lamendola
Michelangelo's_PietaEsiste una specifica missione della donna nella società e nel mondo? E, se sì, quale; e in che misura la si può pensare realizzabile nelle condizioni proprie della modernità?
Il fatto stesso che ci sia bisogno, oggi, di porre simili domande; e il fatto stesso che suscitino, per lo più, una sorta di divertito imbarazzo, come se si trattasse di questioni assolutamente anacronistiche ed incongrue, dimostra fino a che punto abbiamo smarrito la dimensione più profonda dell’essere e fino a che punto ci siamo persi nel deserto di un falso sapere.
Infatti, domandare se esista una specifica missione della donna equivale a porre sul tappeto, contemporaneamente, un duplice ordine di questioni: primo, se ciascun essere vivente possieda una sua propria missione, ovvero se ognuno viva esclusivamente per se stesso, nell’orizzonte dei propri desideri e delle proprie aspirazioni individuali; secondo, se esista una essenza profonda di genere, il maschile e il femminile, invece che una unità indifferenziata, in cui la specificità di genere si debba considerare come un prodotto culturale.
Il pensiero moderno risponderebbe negativamente ad entrambe le domande, se vi fosse qualcuno che le pone; ma ormai non le pone più nessuno o quasi, per cui ci si risparmia anche la fatica di provarne la fallacia: così come ormai nessun cosmografo si prenderebbe il disturbo di provare la fallacia del modello aristotelico e tolemaico dell’Universo.
La cultura moderna, infatti, risponderebbe che no, non esiste “missione” per alcuno, né individuale,  né collettiva; che ciascuno viene al mondo per caso e che risponde solo di se stesso, lotta solo per se stesso e per i suoi immediati interessi, e deve rendere conto solo e unicamente di se stesso. Non esiste più, infatti, una visione trascendente della vita, e tutto ciò che trascende l’aspetto esteriore ed immediato della vita stessa viene considerato ininfluente, se non addirittura inesistente. Meno ancora esiste una visione finalistica: il finalismo è considerato un approccio infantile alla realtà, da quando la scienza moderna lo ha escluso dal proprio orizzonte epistemologico.
Inoltre, non esiste più una visone olistica: si pensa che ciascun soggetto sia (per dirla con Leibniz) «una monade senza porte e senza finestre» e che la sua vita non sia intrecciata con quella di ogni altro vivente, ma solo con le poche persone con cui viene a contatto; ed anche ciò viene considerato in un’ottica sostanzialmente utilitaristica. Prevale, quindi, un rigoroso riduzionismo: la parte viene considerata prima del tutto, al di fuori del tutto e, in un certo, senso, al di sopra del tutto.
Sono i frutti del materialismo, che raccogliamo dopo quattro secoli di seminagione, ossia a partire dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo.
Inoltre, la cultura moderna risponderebbe che no, non esiste una essenza profonda della donna, così come non esiste una essenza profonda dell’uomo come maschio, e neanche dell’uomo inteso come essere umano in generale. L’uomo non è che una scimmia evoluta e un po’ meno pelosa dei suoi progenitori, dice l’evoluzionismo darwiniano; e le differenze psicologiche fra uomo e donna non sono che il portato di una secolare oppressione maschilista, dicono le femministe e legioni di sociologi politicamente corretti. Fine del discorso.
Non c’è da meravigliarsi se, con un bagaglio spirituale così misero e scadente, la cultura della modernità non offre che dubbi, incertezze, isterismi, nevrosi, crisi di panico e impulsi di autodistruzione: perché, per vivere con la schiena dritta e con lo sguardo rivolto in avanti, ma non troppo fisso a terra, bensì capace di levarsi a contemplare le altezze, è necessario che l’essere umano possieda un’alta opinione di se stesso, del suo destino, delle ragioni del suo esistere e del suo esserci: e ciò indipendentemente dalle sue evidenti debolezze, dalle sue fragilità e dai suoi molteplici e clamorosi errori.
Proviamo, dunque, ad andare controcorrente e a chiederci, restando imperturbabili e fingendo di non vedere i sorrisetti di commiserazione o di scherno di tanti sapientoni della cultura dominante del Pensiero Unico, se esista, dopotutto, una essenza specificamente femminile; e se, di conseguenza, si possa porre anche la questione di una specifica missione della donna nel mondo. Se non altro, sappiamo che uomini della statura intellettuale e morale di Dante lo credevano fermamente; e Dante, forse, era un po’ più intelligente di tanti Soloni della modernità, anche se debitamente progressisti e femministi.
Edith-Stein-1Così, per cominciare, proviamo a chiederlo ad una donna eccezionale, ad una delle menti filosofiche più acute del secolo appena trascorso: a quella Edith Stein (1891-1942) che, a un certo punto della sua vita, si convertì dal’ebraismo al cattolicesimo e fece la scelta radicale di entrare nell’ordine delle Carmelitane scalze, per poi finire la sua intensa e luminosissima esistenza nel campo di concentramento di Auschwitz.
Ella dedicò otto importanti saggi alla questione femminile, che vennero riuniti dall’editore tedesco in un volume apposito dell’Opera Omnia; tra essi ve n’è uno, intitolato «Vita muliebre e vita cristiana»,  nel quale si mette a fuoco la domanda che ci eravamo inizialmente posta, cioè se esista una specifica missione della donna, come conseguenza di una specifica essenza femminile. Ne riportiamo alcuni passaggi significativi per comprendere il pensiero dell’Autrice su tale argomento (da E. Stein, «La donna. Il suo compito secondo la natura e la grazia» (titolo originale: «Die Frau. Ihre Aufgabe nacht Natur und Gnade»; traduzione italiana di Ornella M. Nobile Ventura, Roma, Città Nuova Editrice, 1968):

«Lo sviluppo sociale che, previsto da alcuni, voluto e concretamente programmato da pochi, è arrivato addosso ai più senza che ne avessero la minima preparazione, ha strappato la donna dalla cerchia pacifica e beata della sua casa, e da quei compiti, da quel ritmo di vita che era diventato ovvio per lei; l’ha gettata in mezzo alle relazioni più eterogenee e svariate, l’ha posta all’improvviso di fronte a problemi pratici che non aveva mai sospettato. Siamo state buttate in acqua: dobbiamo nuotare. Ma se le forze minacciano di venirci meno, cerchiamo di aggrapparci alla riva, se non altro per un breve respiro. È vivo il bisogno di riflettere se si debba andare avanti o no; e, in caso affermativo, da che parte si debba cominciare per non venir travolte; si sente l’urgenza di calcolare attentamente la direzione della corrente e la forza delle onde, confrontandole con le nostre forze e la nostra possibilità di movimento. [pp.100-101]
Diventare ciò che si deve essere, far dispiegare e maturare nel modo migliore la propria umanità addormentata, con quella particolare impronta individuale che le è richiesta: farla maturare in quella unione di amore che solo può avvivare questo rigoglioso processo; e insieme eccitare e spingere gli altri alla perfezione e alla maturità. Questo è il bisogno più profondo della donna, bisogno che si manifesta sotto molti aspetti, anche nelle deviazioni e nelle degenerazioni; e ad esso corrisponde, come vedremo meglio in seguito, ciò cui la donna è chiamata per l’eternità. È un bisogno specificamente femminile, non è semplicemente umano; dobbiamo perciò metterlo in confronto con  tratti caratteristici del’uomo maschio. [pp. 108-09]
Mi pare che l’anima della donna viva e sia presente con maggiore intensità in tutte le parti del corpo e, di conseguenza, venga toccata più a fondo da ciò che interessa il corpo. Nell’uomo, invece, il corpo ha più chiaro il carattere di strumento:  serve a lui nel suo operare; fatto, questo, che comporta un certo distacco. Tutto ciò dipende certo dalla vocazione della donna alla maternità. Il compito di accogliere in sé un essere vivente in formazione, di proteggerlo ed allevarlo, esige una certa chiusura in se stessa; il misterioso processo di formazione di un nuovo essere nell’organismo materno è un’unità di corporeo e di spirituale è un’unità così intima, che si capisce bene come questa unità sia un elemento caratteristico di tutta la natura femminile. Ma ciò comporta un particolare pericolo. Perché fra anima e corpo viga l’ordine naturale (cioè l’ordine che corrisponde alla natura incorrotta) è necessario che al corpo venga dato il nutrimento, la cura, l’esercizio richiesti da una piena funzionalità dell’organismo Ma se gli si concede TROPPO – ed è proprio la sua NATURA CORROTTA che pretende il troppo – lo si fa a danno dell’anima, del suo essere spirituale; essa, invece di dominarlo e spiritualizzarlo, vi si sommerge; il corpo, da parte sua, viene così a perdere un po’ della sua caratteristica di corpo umano. Più intimo è il rapporto tra anima e corpo, più grande è il pericolo di questa sommersione (tuttavia più grande è anche la possibilità  che il corpo venga tutto compenetrato dall’anima).

Stein_La_donnaSe consideriamo il rapporto reciproco delle energie spirituali, notiamo che  esse si esigono a vicenda, e nessuna può esistere senza le altre. Una certa conoscenza intellettuale dell’oggetto è necessaria perché l’affettività entri in rapporto con esso e vi si sintonizzi profondamente; i movimenti dell’anima, poi, sono di stimolo alla volontà; d’altra parte è proprio della volontà regolare l’intelletto e la vita affettiva. Ciò dipende evidentemente dal suo orientamento verso l’essere personale. Sono infatti i movimenti e gli stati d’animo (Gemüt) che fanno scoprire all’anima (Seele) il proprio essere, ciò che è come è; con ciò essa afferra anche l’importanza dell’essere altrui per il proprio, come anche la qualità specifica – e il valore ivi connesso – delle cose che sono  al di fuori di lei, delle altre persone e delle realtà impersonali. L’organo che afferra l’essere nella sua completezza e nella sua particolarità è dunque nel centro dell’anima e condiziona il suo sforzo di spiegarsi verso il tutto, ed aiutare gli altri verso questo spiegamento; e ciò, lo abbiamo già provato, è caratteristico del’anima femminile. Perciò la donna è più protetta dell’uomo contro l’impiego e l’esplicazione unilaterali delle sue energie; d’altra parte è meno adatta ad una prestazione elevata in un particolare settore – perché questo comporta sempre la concentrazione unilaterale di tutte le sue energie spirituali – ed è particolarmente pericolosa: lo sviluppo eccessivo dell’affettività.
Abbiamo attribuito una particolare importanza all’animo (Gemüt) nella struttura essenziale dell’anima (Seele). Esso ha infatti una funzione conoscitiva essenziale: è il punto focale in cui il contatto con gli esseri si muta in atteggiamento e attività personali.  Ma non può certo adempiere questo compito senza  la cooperazione del’intelletto e della volontà. Senza il lavoro preparatorio dell’intelletto, l’animo non arriverebbe a conoscere; l’intelletto infatti è la luce che gli illumina la via,  senza la quale esso vaga qua e là; anzi, se esso viene a prevalere sull’intelletto, può offuscarne la luce e condurre alla distorsione dell’immagine sia di tutto il mondo come di singole cose e avvenimenti, inducendo la volontà ad una prassi errata. I suoi movimenti esigono il controllo dell’intelletto e la guida della volontà. Quest’ultima non ha il potere assoluto di eccitare o sopprimere i movimenti del’affettività, perché caratteristica della sua libertà è regolarli fin da loro sorgere: o lasciarli effondere o contrastarli. Ove manca la formazione dell’intelletto e l’educazione della volontà, la vita affettiva (Gemütsleben) viene ad essere un movimento senza direzione. E poiché le è necessario qualche eccitamento, se viene a mancarle  la guida delle potenze spirituali superiori,  cade sotto il dominio della sensibilità. E ciò comporta l’assorbimento della vita spirituale  nella semplice vita istintiva ed animale,  favorita dall’intimo legame tra anima e corpo.
Pertanto l’anima della donna potrà giungere a quella maturità che le è propria, solo se le sue energie vengono formate in modo adeguato. [pp. 110-112]»
Certo, questo linguaggio può apparire duro agli orecchi di quanti non sono disposti a riconoscere che esista un ordine superiore a quello della natura; che quest’ordine si possa definire, in rapporto a quello naturale, con il termine di “grazia”; che, senza la grazia, l’essere umano non sia capace di portare a termine la missione che gli è stata affidata.
Certo, questo è un linguaggio assai duro agli orecchi dei materialisti, dei razionalisti, degli scientisti, i quali oggi si sentono investiti di un’unica “missione”, quella di diffondere e preservare la sacre verità del Pensiero Unico imperante.
edith_steinAncora più duro da accettare è quel passo, da noi non riportato, in cui Edith Stein dice chiaro e tondo che, fondamentalmente, due sono le strade che portano la donna al compimento della propria vocazione: quella della maternità e della famiglia, e quella della consacrazione a Dio (non necessariamente con l’ingresso in un ordine religioso).
Tuttavia, al di là di tale conclusione pratica, resta la domanda: se gli esseri umani sono chiamati a realizzare in una struttura esistenziale le potenzialità della propria anima; e se tali potenzialità non sono identiche nell’uomo e nella donna (sia per il diverso rapporto fra anima e corpo esistente tra essi, specie in ragione della maternità, sia per la diversa “prevalenza” delle tre componenti essenziali: intelletto, affettività e volontà), non è forse vero che la donna dovrebbe puntare ad armonizzare nella propria anima le potenzialità che le sono state date, invece che inseguire – come oggi sta avvenendo – il modello maschile?
Dopo di che, si potrà criticare quanto si vuole sia il linguaggio neotomista della Stein, sia il dualismo implicito nella sua concezione antropologica, il quale, più che tomista, si direbbe cartesiano (il corpo di qua, l’anima di là; come se fosse possibile vederli in contrapposizione reciproca); ma è difficile non provare ammirazione per la solidità del suo modo di procedere e per la chiarezza esemplare del suo argomentare.
La sua analisi delle particolari caratteristiche dell’anima femminile ne evidenzia con raro acume psicologico le grandi potenzialità affettive, ma anche il pericolo di una chiusura nella sfera del materiale e quindi del finito: la sua vocazione alla maternità la porta a vedere nel rapporto con l’altro quasi unicamente l’aspetto personale e soggettivo, allontanandola da una dialettica più ampia e ponderata, più soggetta all’esercizio della volontà.
La sua distinzione, facilitata dalla particolare chiarezza della lingua tedesca, fra animo (Gemüt) ed anima (Seele), le consente di individuare e definire l’animo come il punto di contatto fra l’essere personale e il mondo esterno – persone, cose, situazioni – da cui scaturiscono concrete azioni e specifici atteggiamenti; l’animo, dunque, sarebbe la fucina in cui si modellano i processi evolutivi dell’anima, la struttura profonda e permanente dell’essere umano.
C’è molto su cui riflettere.
Si potrà dissentire da singoli aspetti del pensiero di Edith Stein o anche dalla sua impostazione generale, ma non si possono negarne la compattezza e la lucidità speculative. La sua idea della specifica della missione della donna costituisce un tutto organico con cui bisogna fare i conti, se si è intellettualmente onesti, anche qualora non ci si riconosca nel suo modo di ragionare, tipicamente teologico e spirituale.
C’è da chiedersi, dopo tante ubriacature femministe e pseudo femministe, se non sia giunto il tempo di un più equilibrato riesame dell’intera problematica relativa al ruolo della donna nella società e nel mondo; ma ciò non può essere fatto, a nostro avviso, se non si parte dalla domanda preliminare: esiste una specifica missione della donna? Il che, a sua volta, rinvia a quest’altra domanda: esiste una specifica missione dell’essere umano?
La filosofia di Edith Stein offre delle risposte precise a tali interrogativi.
unisexLa cultura del Pensiero Unico moderno non offre alcuna risposta, perché non tollera neppure le domande: esso dà per scontato l’esistente e cade nella sua idolatria; non serve chiedersi perché, basta studiare il come.
Ma che la donna, allontanandosi sempre più dalla sua missione e dalla sua stessa natura, stia perdendo se medesima, ci sembra sia ormai palese; e la stessa cosa si potrebbe dire per quanto riguarda l’uomo, inteso come maschio.
Oggi si esalta la confusione dei ruoli, come fosse una ricchezza; si blatera di bisessualità, come fosse la naturale vocazione dell’uomo e della donna; si sproloquia di intercambiabilità dei ruoli, giocando deliberatamente sulle ambiguità della lingua.
Quanta povertà speculativa; quanta insulsaggine filosofica; quanta miseria intellettuale.
Verrà il tempo in cui ci renderemo conto che il re è in mutande e che tutta la nostra cultura e la nostra vita spirituale necessitano di un bagno rigeneratore, accettando le sfide del presente, ma anche accogliendo rispettosamente ciò che è vivo della tradizione?
Fonte: “Il Corriere delle Regioni” (per gentile concessione dell’Autore)
COSI' I 2 SESSI SI COMPLETANO
    L’uomo è chiamato ad agire, la donna ad essere: così i due sessi si completano a vicenda. l’idea centrale di Pavel Evdokimov a proposito dei differenti ruoli del modo di essere maschile e del modo di essere femminile di Francesco Lamendola




L’uomo è chiamato ad agire, la donna ad essere: così i due sessi si completano a vicenda

di

Francesco Lamendola




L’uomo è chiamato ad agire, la donna è chiamata ad essere; l’uomo costruisce il mondo, la donna offre se stessa perché quella costruzione sia a misura dell’essere umano: questa l’idea centrale di Pavel Evdokimov a proposito dei differenti ruoli del modo di essere maschile e del modo di essere femminile; un’ida che, pur essendo stata formulata parecchi decenni or sono, torna di straordinaria attualità ai nostri giorni, di fronte alla confusione dilagante su questo argomento.
Si tratta di una intuizione notevole, basata sulla convinzione che i due sessi sono chiamati a completarsi e ad arricchirsi vicendevolmente, non a contrapporsi e a farsi la guerra; né, meno ancora, ad appiattirsi e assomigliarsi sempre di più, come accade, per esempio, sull’onda di certa cultura femminista, allorché la donna vuole rivaleggiare con il maschio sul suo stesso terreno, e finisce per virilizzarsi, mentre l’uomo, specularmente, tende ad effeminarsi.
Oltretutto, osserva con una sottile lepidezza Evdokimov, in questo particolare momento storico, nel quale il maschio, già di per sé, sta attraversando una crisi di virilità, la donna, imitandolo e cercando di superarlo, si sceglie un modello che non è neppure quello al quale ella inconsciamente aspira, ma un altro, che è - aggiungiamo noi – sempre più debole, sfiduciato, insicuro; per cui, se è una anomalia il fatto che la donna voglia mascolinizzarsi, è una doppia anomalia il fatto che ella cerchi di farlo adesso, quando tale processo si fonda su un originale decaduto.
Eppure queste situazioni paradossali non sono affatto rare, anzi, tendono a moltiplicarsi. Ci sia lecito fare un’altra osservazione: ormai l’istituto del matrimonio sembra essere entrato in una crisi pressoché irreversibile, tanto quello religioso, che quello civile; eppure, proprio ora, si nota un fatto sconcertante: a battersi per conquistare il diritto di sposarsi, in aperta controtendenza rispetto alla stragrande maggioranza, sono le coppie omosessuali; non solo, ma anche per ottenere l’adozione di bambini, o, nel caso delle coppie lesbiche, per ottenere il diritto alla fecondazione eterologa. Stupefacente! Quel matrimonio “borghese” che, per decenni, è stato deriso, calunniato, svillaneggiato e additato al pubblico disprezzo, come se fosse stato la causa di tutti i mali sociali, ora è diventato la massima aspirazione, l’oggetto del desiderio più ardente, da parte degli omosessuali, sia maschi che femmine. E l’avere dei figli, che la cultura progressista, sessantottina e post-sessantottina, ma specialmente in ambito femminista, aveva bollato come il più nefando marchio di servaggio, come il più abominevole atto di resa alla perdita della propria libertà, adesso si è trasformato, sempre da parte delle coppie omosessuali, in un bruciante, irrefrenabile desiderio di paternità e di maternità, quasi una questione di vita o di morte, che i parlamenti dei singoli Paesi si vedono sollecitati a risolvere urgentissimamente, una volta per tutte, mediante una apposita legislazione, debitamente “moderna” e “avanzata”, ossia, per usare l’espressione canonica del politicamente corretto, “degna di un Paese civile”. Chiudiamo la parentesi su questo aspetto e ritorniamo al rapporto fra i due sessi.
Già reso estremamente difficile dalle trasformazioni economiche e sociali proprie della modernità, che tendono a schiavizzare e ad alienare tutti gli esseri umani, sia maschi che femmine, e dunque a sopprimere la loro autentica vocazione, trasformandoli in qualcosa di profondamente diverso da ciò che dovrebbero essere,esso si fa ancora più teso, conflittuale, e - quel che è peggio - contraddittorio, per il fatto che la donna, lamentandosi della durezza e insensibilità del maschio, si sforza nondimeno di sostituirlo, su tutti i piani, anche su quello professionale, contraendo, però, la sua stessa “malattia” e facendosi, a sua volta, sempre più opportunista, dura e insensibile. Il suo compagno non la riconosce più, ne è spaventato, respinto; ma, soprattutto, sono i figli a soffrire di questa disarmonia generalizzata e sistematica nei rapporti fra i genitori.
Come può trovare i suoi giusti punti di riferimento un bambino, cresciuto fra un padre divenuto insicuro, perplesso, intimidito, e una madre sempre più aggressiva, invadente, autoritaria; come può crescere in maniera armoniosa, come può prepararsi adeguatamente ad affrontare le difficoltà e le sfide della vita adulta, da essere autonomo e responsabile di se stesso? E come può aver maturato la giusta dose di autostima, di fiducia in sé, fra due figure genitoriali sempre più distaccate, assenti, anaffettive, sempre più protese – oltretutto, in maniera conflittuale l’una verso l’altra – a soddisfare ogni loro desiderio, e oscillanti, nei confronti dei figli, fra i due eccessi, ugualmente riprovevoli, del rigore soffocante (quante tragedie, ad esempio, per un brutto voto a scuola, oltretutto senza mai preoccuparsi delle ragioni che l’hanno determinato!) e del lassismo permissivo e cameratesco, come se il bambino fosse l’amico e il complice di suo padre e sua madre?
Del filosofo russo Pavel Evdokimov, un autore del quale ci eravamo già occupati a suo tempo (cfr. l’articolo: «La radicale ambiguità dell’amore nel pensiero di P. N. Evdokimov», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 21/04/2015), ci piace riportare qui un passaggio essenziale, scritto con la sua caratteristica semplicità e chiarezza, doti molto rare, ormai, tra i pensatori, che si fanno quasi un dovere di esprimersi in maniera oscura e involuta (da: P. Evdokimov, «La donna e la salvezza del mondo»; titolo originale: «La femme e la salut du monde»Paris, Desclée De Brouwer, 1978; traduzione dal francese Adriano Dell’Asta, Milano, Jaca Book, 1979, pp. 186-188):

«Il libro di Simone de Beauvoir ci introduce in questo mondo di nevrotici. È un libro notevole, una vera e propria somma di osservazioni giustissime e coraggiose., ma si chiude con una nota stonata, cin un terribile senso di vuoto. L’assenza di qualsiasi conclusione è tipica della filosofia sartriana. Al di là delle apparenze, non esiste alcun mistero, e persino l’abisso demoniaco è privo di profondità, è l’abisso della banalità. Già Nietzsche lanciava un grido di allarme: “non disincarnate la donna dal suo mistero”. Se la si riduce alla pura fisiologia, non scompare soltanto il suo mistero ma tutta la donna. Il “per sé” della donna esistenzialista si rivela il “tutto per il piacere”. La natura di questo piacere, descritto nei sogni delle giovani, fa spavento perché mette in luce una mentalità scimmiesca, realmente degenerata. Ora, come ogni nichilismo è distruttivo all’interno della sua terribile e tipica domanda: “A che scopo?”, anche l’esistenzialismo si autodistrugge quando si chiede: “E dopo?”.
Una letteratura sempre più malsana, tesa com’è a strappare non solo le maschere dell’ipocrisia ma anche gli indispensabili veli del pudore, ci getta in un mondo di malati, con tutti i penosi dettagli di una immaginazione morbosa. Non si tratta di costringere nessuno a illudersi sulle conseguenze finali del processo digestivo. I pazzi, i maniaci, esistono, ma è assurdamente penoso essere costretti a guardarli e considerarli poi l’unica realtà esistente al mondo! I campioni della psicopatologia – preziosi nel loro genere – non devono oltrepassare i limiti del loro mondo. Simone De Beauvoir protesta contro la mitologia del mondo patriarcale ma viene affascinata dal mito della donna amazzone che, prima o pi, sboccia fatalmente nella grande prostituta dell’”Apocalisse”. In entrambi i casi, quella che va persa è la reciprocità, il faccia a faccia; l’autonomia trascende l’alterità; ci si serve l’uno dell’altra e si arriva alla solitudine, all’alienazione.
Ora, l’avvento dell’uomo si realizza spezzando la solitudine orgogliosa e romantica, separandosi da se stessi e ritrovando la comunione. L’umanità è come una vetta i cui due versanti sono il maschile e il femminile e sono tali proprio in quanto si realizzano l’uno attraverso l’altro. Nella Bibbia leggiamo: “Quando risusciteranno dai morti non vi sarà chi sposa, né chi sarà sposato, ma saranno come gli angeli nei cieli” (Mc 12, 25). Swedenborg ha dato una stupenda spiegazione di queste parole: il maschile e il femminile (nella loro totalità) si ritroveranno nel Regno di Dio nella forma di un unico angelo.
Se l’uomo si prolunga nel mondo con gli utensili, la donna lo fa con il dono di sé. Nel suo stesso essere è legata ai ritmi della natura, è in consonanza con l’ordine che regge l’universo. E proprio in virtù di questo di questo dono ogni donna è virtualmente madre e porta in fondo all’anima il tesoro del mondo. La freschezza della vera femminilità che possiede il senso nascosto delle cose si rileva in tutta la sua evidenza in questa frase di Mansfield: “Quando una donna porta a passeggio un neonato, si sa come le si accosti chi e sta vicino e come, sollevando il velo della testolina, si chini ed esclami: “Dio lo benedica!”. Mi viene sempre voglia di fare lo stesso quando mi trovo di fronte al volto delle lucertole e delle viole del pensiero, o quando mi trovo di fronte ad una casa al chiaro di luna. Mi sento sempre sul punto di benedire quello che contemplo”. Accanto alla fabbricazione c’è la penetrazione nelle segrete profondità dell’essere. Se l’uomo deve agire, la donna deve essere, e questa è la categoria religiosa per eccellenza.
La donna potrebbe accumulare dei valori intellettuali,  ma questi valori non danno la gioia. La donna intellettualizzata ad oltranza ad imitazione dell’uomo e costruttrice del mondo finirà col vedersi spogliata della propria essenza perché la donna è chi amata ad introdurre nella cultura la femminilità come modo d’essere e come modo d’esistenza insostituibile. L’uomo crea la scienza, l’arte, la filosofia e pesino la teologia, intese come sistemi, ma tutto ciò porta ad una terribile oggettivazione della verità. Ma fortunatamente c’è la donna che è predestinata a diventare la portatrice di questi valori, il luogo in cui essi si incarnano e vivono. In cima al mondo, proprio nel cuore dello spirituale, c’è la Serva di Dio, manifestazione dell’essere umano riportato alla sua verità originaria. Proteggere il mondo degli uomini in quanto madre e salvarlo in quanto vergine, dando a questo mondo un’anima, la propria anima, questa è la vocazione della donna. Il destino del nuovo mondo è tra le braccia della madre, come dice così meravigliosamente il Corano: “Il Paradiso sta ai piedi della madre”. Giraudoux, in “”Sodoma e Gomorra”, a proposito dell’epoca in cui la donna non saprà più amare e donarsi, dice: “è la fine del mondo!”. […]
La vera trascendenza unisce il maschile e il femminile in un’integrazione che trasforma i suoi elementi. Essa interrompe la loro frammentazione in “femmine” e “maschi”, in io e non-io. Il paradosso del destino umano è che si diventa se stessi diventando qualcosa d’altro: l’uomo si scopre dio secondo la grazia, ciò che è esteriore non si distingue più da ciò che è interiore.»

Dare al mondo un’anima, cioè amare e donarsi: questa è la missione della donna, secondo Pavel Evdokimov; mentre gli uomini si affanno a costruirlo, ma trascurando la dimensione affettiva e spirituale. E tuttavia, già prevediamo l’obiezione di fondo della cultura progressista oggi dominante: chi lo dice che esistano una specifica missione dell’uomo e una specifica missione della donna? Chi lo dice che le persone nascano con una specifica missione da realizzare? Da chi, da che cosa, da dove proverrebbe una tale “missione”? Non sa tutto questo, un po’ troppo, invero, di teologia, di sovrasensibile, di metafisica? E poi: chi lo dice che esistano l’uomo e la donna, intesi come generi distinti? Secondo la teoria denominata “gender”, non esistono due sessi, ma cinque orientamenti sessuali; i “sessi” li  crea la società, dal momento che essi non sono, primariamente, un dato fisiologico e psicologico, ma un dato meramente culturale, acquisito e, pertanto, non naturale.
Risposta. Che il genere maschile e il genere femminile esistano in se stessi, lo prova l’osservazione: anteriormente all’influsso culturale degli adulti, i bambini, fin da piccoli, mostrano una spiccata propensione a determinarsi in quanto maschi e femmine. Quando fanno le stesse cose, le fanno in modo diverso; ma, in genere, provano piacere a giocare in modo diverso, perché sentono, pensano e agiscono in modo diverso. Esiste una maniera maschile ed una femminile di allacciarsi le scarpe, di guardarsi allo specchio, di camminare: con buona pace della cultura femminista e di quella gay.
All’interno di questa differenza ontologica, sussiste una differenza vocazionale: uomini e donne sono chiamati a svolgere un ruolo diverso, ma complementare; se fossero chiamati a svolgere lo stesso ruolo, o se fossero chiamati a scontrarsi eternamente, la società umana non sarebbe neppure nata. Ma chi lo dice che esiste una vocazione specifica, non solo per il genere maschile e femminile, ma anche per ogni singolo individuo, fra i sette miliardi e mezzo che popolano la Terra in questo momento; e che non esistono due vocazioni perfettamente identiche? Certo: se crediamo che tutto venga dal caso - non solo il nostro esserci, ma anche quello del mondo-, allora è sbagliato parlare di vocazione. Ma quanti negano che essa vi sia, hanno mai provato ad ascoltarne la voce, nel silenzio?

Francesco Lamendola



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In redazione il 28 Agosto 2015

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