Le minoranze oggi si sono fatte aggressive invadenti fondamentaliste: hanno preteso non solo il riconoscimento del proprio diritto ad esistere ma anche la sottomissione della maggioranza alla loro visione del mondo
Due idee di Europa, due idee di cristianesimo
Passo dopo passo, stiamo arrivando al bivio: alla resa dei conti. Ciò che, fino a ieri, poteva ancora apparire confuso, indistinto, contraddittorio, ora tende sempre più ad apparire netto,
in piena luce, come una alternativa secca, senza possibilità di mediazioni. In un certo senso, è un bene; o, almeno, può essere il principio di un bene: il bene della chiarezza, che è sempre un valore positivo, anche nei contesti più dolorosi e sofferti.
Fino a ieri si poteva ancora giocare ed equivocare, talvolta persino in buona fede, sul significato di concetti quali “pluralismo”, “identità”, “accoglienza”, “umanità”, “integrazione”, “bontà”; ora non più, o sempre meno. Stiamo andando verso un chiarimento brutale, ma necessario: è tempo che ciascuno si tolga la maschera e si lasci vedere per quello che realmente è.
Fino a ieri, si poteva parlare dei diritti delle minoranze senza alcun sottinteso strumentale, senza alcuna astuzia nascosta, senza alcuna filosofia occulta: le minoranze etniche, le minoranze sessuali, le minoranze culturali, eccetera. Fino a ieri, la valorizzazione delle minoranze era riconosciuta, in maniera pressoché unanime, come un bene comune e come un valore da difendere: perché sia la tradizione democratica, sia la tradizione cristiana, da due differenti prospettive, laica e religiosa, sembravano andare nella stessa direzione e quindi, idealmente, convergere: è tanto più ricca una società nella quale vi sono delle minoranze, e nella quale tali minoranze trovano protezione, ascolto, accoglienza, di una società ove questo non avviene.
Poi, in un tempo straordinariamente breve, lo scenario è mutato: le minoranze si sono fatte aggressive, invadenti, fondamentaliste: hanno preteso non solo il riconoscimento del proprio diritto ad esistere, ma anche la sottomissione della maggioranza ai loro diktat, ai loro voleri, alla loro visione del mondo. Non paghe del raggiungimento della parità, hanno preteso qualche cosa di più: hanno incominciato a pretendere il potere, tout-court. E hanno cercato di imporre la loro supremazia ideologica, e talvolta anche pratica, sull’intero corpo sociale; hanno preteso, addirittura, di riscrivere l’etica collettiva, secondo la loro volontà. Hanno esercitato un ricatto, e il ricatto ha avuto pieno successo: la società si è arresa, incondizionatamente, alle loro richieste.
Prendiamo il caso della parità femminile. Dopo molti decenni di rampante cultura femminista, le donne hanno ottenuto il diritto di partecipare, su un piede di perfetta parità con i maschi, a tutte le manifestazioni della vita sociale, nessuna esclusa; ma questo ancora non bastava: e allora hanno introdotto una legislazione apposita per i reati di femminicidio, e una distribuzione “regolata” dei seggi parlamentari: le cosiddette quote rosa. Un assurdo giuridico e una incredibile sopraffazione ideologica: come se il fatto di essere donna desse automaticamente diritto ad avere almeno la metà dei membri del Parlamento di sesso femminile. Alla faccia della competenza e della libertà di scelta del cittadino (uomo o donna che sia): è già stabilito che, sulla scheda, non si possono indicare più preferenze maschili di quelle femminili. Questo, crediamo, è un buon esempio di ciò che intendiamo per dittatura delle minoranze: una cosa inedita e inaudita, che mai si era vista in Europa e nel mondo e che mai si era pensato di dover vedere. Siamo passati dalla protezione di una categoria di persone e dalla simpatia nei suoi confronti, alla resa totale della società, alla attribuzione ad essa di carta bianca per imporre il suo potere su tutti gli altri.
La stessa cosa è avvenuta con altre categorie, di ordine etnico, religioso, perfino sanitario: una dittatura alla rovescia, la dittatura di quanti, rivendicando il proprio diritto di reagire ad una secolare discriminazione, vogliono ora imporre le loro regole a tutta la società. Si pensi ai malati di mente: dalla denuncia dei manicomi, come luoghi di oppressione e di esclusione, alla loro abolizione, alla negazione della stessa malattia mentale, vista come un prodotto della società “borghese”, ingiusta e sfruttatrice: dozzine di intellettuali sessantottini lo hanno detto e ripetuto, e il risultato è che la società nel suo insieme, e le famiglie direttamente coinvolte, in particolare, sono state abbandonate alla mercé di questo gravissimo problema: chi ha un parente malato di mente, magari aggressivo, magari pericoloso (per sé o per gli altri), è rimasto solo: perché la società deve includere e non escludere nessuno e perché l’uomo, in se stesso, è una creatura buona e pacifica (Rousseau), e, se diventa cattiva, sicuramente la colpa sarà della società, e di nessun altro.
A forza di sentir ripetere il diritto di tutti ad avere tutto, in particolare la sicurezza e la felicità, si assiste, da qualche tempo, ad un fenomeno inedito: la rivolta contro la propria condizione disagiata, il rifiuto paranoico della sofferenza e l’esplosione di varie forme di rancore di chi non ha nei confronti di chi ha. Da alcuni anni, nel mondo della scuola, vi è un inserimento generalizzato e indiscriminato di qualunque tipo di alunni portatori di handicap: in questo caso, naturalmente, in nome del “diritto all’istruzione”. Il principio sarebbe giusto e perfino lodevole, se applicato con un po’ di buon senso e di sano realismo: invece, in un numero crescente di casi, così non è, anzi, avviene tutto il contrario. Vi sono intere classi, ad esempio nella scuola elementare, e comprese le maestre, che vivono sotto la tirannia di un unico alunno: caratteriale, iperattivo, aggressivo. Ogni giorno qualche bambino torna a caso con i segni delle percosse di costui; e vi sono maestre che vivono nell’angoscia, che vanno avanti a forza di tranquillanti, che si mettono in malattia con l’aiuto di certificati medici attestanti la loro depressione. Ma i direttori didattici, sovente, affermano che non esiste alcun problema e gli esperti di turno, gli psicologi eventualmente interpellati, si limitano a dire che il bimbetto è “un po’ vivace” e raccomandano agli altri di avere pazienza e comprensione. E non parliamo del diritto allo studio di codesti “altri”: di fatto, esso viene negato e calpestato ogni santo giorno. Ma di ciò, nessuno sembra preoccuparsi.
Potemmo fare molti altri esempi di principi giusti applicati malissimo, che mostrano come la cultura dei diritti a senso unico (cioè senza corrispettivi doveri) stia seminando malessere, confusione, vera e propria ingiustizia. C’è un classe di liceo che ha progettato e realizzato il proprio viaggio d’istruzione, a Roma, per esempio, o a Napoli, o a Venezia, in base alle esigenze di un alunno portatore di handicap, che deve deambulare in carrozzina. La madre e un altro parente, ad esempio lo zio, partecipano al viaggio, però si guardano bene dal prestare la propria opera per aiutare il proprio congiunto, e così pure l’insegnante di sostegno (da non confondere con l’assistente polivalente, addetta ai bassi servizi materiali): quello è un lavoro che spetta alla scuola, cioè agli altri. Arrivati in stazione, sono i professori che devono far scendere la carrozzina sulla banchina ferroviaria. A cena, al ristorante, sono i professori che devono portare il cibo alla bocca del ragazzo: madre e zio si limitano a guardare, o meglio, a sorvegliare. E via così. Qualcuno potrebbe pensare che stiamo esagerando: si tratta invece di scene e situazioni che abbiamo conosciuto direttamente. Inutile dire che, a fine anno, quell’alunno verrà promosso con ottimi voti in tutte le materie, comprese l’educazione fisica e l’educazione artistica, anche se non può né camminare, né tenere in mano una matita (senza contare che è non vedente): in nome della buona volontà. La quale, senza dubbio, è indice di un atteggiamento molto lodevole, e merita un riconoscimento: ma fino al punto di andare molto oltre la sufficienza e di falsificare completamente il dato reale, oggettivo?
Stiamo forse sostenendo che non si dovrebbero integrare nelle classi gli alunni portatori di handicap? Niente affatto. Stiamo solo dicendo che la cosa andrebbe fatta con intelligenza e tenendo presenti gli interessi e i diritti di tutti, non di uno solo. Un discorso perfettamente analogo, dal punto di vista complessivo, si può e si deve fare per l’odierno fenomeno dei “migranti” che a migliaia, a decine, a centinaia di migliaia, stanno invadendo l’Italia e l’Europa, sventolando il loro “diritto all’asilo”. Si parte dal presupposto che il più debole ha bisogno di aiuto e si giunge alla conclusione, sbagliata e sproporzionata, che il suo diritto passa davanti ai diritti di tutti gli altri. In questo modo, il più debole diventa il più forte e tiene in stato di ricatto chiunque. Solo così si spiega, ad esempio, il fatto che, per anni, nessuna autorità pubblica o morale, intendiamo dire dello Stato e della Chiesa, se l’è presa tanto caldaper i milioni di cittadini italiani precipitati in uno stato di bisogno e di povertà; mentre adesso è diventato un diritto acquisito, e perfino ovvio, che sia lo Stato che la Chiesa si mobiltino, con tutte le loro risorse, per venire in aiuto dei clandestini.Aggiungere un posto a tavola per milioni di sconosciuti è divenuto un categorico imperativo morale.
A questo proposito, abbiamo assistito a due voci contrastanti, quella del Primo ministro ungherese Viktor Orban e quella del Presidente del Consiglio europeo, Donald Trusk: il primo sosteneva che, in nome della difesa delle radici cristiane dell’Europa, l’Unione europea non dovrebbe spalancare le sue frontiere indiscriminatamente a chiunque voglia entrarvi, sbandierando uno status di profugo che è tutto da dimostrare (cosa sovente impossibile, dato che queste persone vengono, sì, con dei telefonini cellulari da centinaia di migliaia di euro, per chiedere soccorso, ma si presentano deliberatamente sprovviste di documenti di identificazione, dichiarano identità false, rifiutano di lascarsi prendere le impronte digitali o si presentano con i polpastrelli abrasi); il secondo, in nome del cristianesimo, sostiene il dovere di accogliere il più possibile i richiedenti asilo.
Evidentemente, ci troviamo di fronte a due differenti e inconciliabili idee di Europa e di cristianesimo. I politici e i vescovi si schierano per l’una o per l’altra (più per la nuova che per la vecchia, a dire il vero) e i cittadini europei si sentono abbandonati sia dallo Stato, che dalla Chiesa. Vivono sempre più spesso in gravissime situazioni di disagio, ma nessuno li ascolta; se fanno sentire la loro voce, si sentono redarguire come insensibili, egoisti e cattivi cristiani. Nel caso degli Italiani, si sentono ricordare che anche i loro nonni e bisnonni cercavamo lavoro e speranza all’estero; ma non viene precisato che non lo cercavano a questo modo, ossia invadendo e ricattando moralmente le nazioni verso le quali si dirigevano, bensì stipulando regolari contratti di lavoro e accettando pienamente tutte le leggi e tutte le regole dei Paesi ospitanti.
Evidentemente, è successo qualcosa di cui non ci eravamo accorti: le regole della convivenza civile e le stesse basi della morale sono state cambiate e stravolte, come se un lavorio sotterraneo le avesse erose lentamente e, poi, fosse stata sufficiente una piccola spinta per abbatterle e sostituirle con altre, completamente diverse. Non vi è stato un dibattito, né una discussione, né una possibilità di scelta da parte dei popoli. I parlamenti hanno deciso per essi, li hanno posti davanti al fatto compiuto: «le cose stanno così, dovete adeguarvi e farvene una ragione». Le maestre stiano bene attente, d’ora in poi, a non sognarsi di domandare ai loro piccoli alunni come si chiamano il papà e la mamma: sarebbe un affronto ai diritti dei gay, perché un bambino può avere benissimo due papà o due mamme. L’ignoranza non è una scusante, bisogna adeguarsi o farsi da parte. E gli storici, stiano bene attenti a non discutere sulla cifra di sei milioni ebrei periti nei campi di sterminio nazisti: dai sei milioni in su va tutto bene, ma se si scende sotto quella cifra, potrebbe scattare l’accusa di antisemitismo e di negazionismo, per la quale è previsto il carcere fino a tre anni.
Potremmo continuare a lungo, ma crediamo di avere chiarito il concetto. Ormai esistono due culture contrapposte: quella dei diritti a senso unico e quella tradizionale, divenuta improvvisamente obsoleta, inutilizzabile, degna soltanto di disprezzo e di rottamazione. Tutto questo avviene nel campo della cultura – dalla filosofia alla storia, dall’arte alla scienza (sì: perché la “nuova” cultura si è dimenticata di precisare che l’evoluzionismo darwinista, per esempio, è e rimane solo una ipotesi di lavoro, fra l’altro sempre meno credibile) ed anche nel campo della vita pratica. La dittatura delle minoranze si sta instaurando silenziosamente un po’ ovunque, sfruttando il senso di colpa altrui, il sospetto sistematico, il disorientamento generale. Chi non appartiene alle minoranze “discriminate” e desiderose di rivalsa, pardon, di giustizia, deve quasi vergognarsi, farsi piccolo, sparire. Se un omosessuale, dopo essere stato insultato e deriso, si suicida, tutto il mondo degli eterosessuali viene messo sotto processo; ma se un omosessuale violenta un bambino, quello è solo un incidente di percorso. Se un marito ammazza la moglie, i telegiornali e la stampa alzano altissimi lamenti e parlano immancabilmente dell’ennesimo episodio di femminicidio; ma se un marito viene ammazzato dalla moglie, quello è solo un caso isolato. E così di seguito.
A fare le spese di questa situazione, di questa inversione di valori, di questo stravolgimento dei diritti, è, prima di tutto, il buon senso. Che cosa vorrebbero, codesti signori della nuova morale? Vorrebbero rifare il mondo, natura compresa (vedi manipolazione genetica o fecondazione eterologa) secondo il loro modello edonista. Oh, ma essi sono buoni e, sovente, sono ferventi “cristiani”. Rivendicano diritti in nome del Vangelo. Peccato sia sfuggita loro la cosa più importante del Vangelo: l’accettazione serena e fiduciosa dalla croce. Secondo loro, Cristo avrebbe dovuto fare appello alla libertà di parola, di opinione, di associazione: e così, non sarebbe finito in quel modo…
Francesco Lamendola
in piena luce, come una alternativa secca, senza possibilità di mediazioni. In un certo senso, è un bene; o, almeno, può essere il principio di un bene: il bene della chiarezza, che è sempre un valore positivo, anche nei contesti più dolorosi e sofferti.
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