Il marito del prete
La Chiesa, nel giorno in cui apre il Sinodo sulla famiglia, sta sotto osservazione affinché non deragli rispetto ai comandamenti del totalitarismo liberale. In attesa di censura, ci si autocensura. Una mano di vernice cancella la distinzione tra padre e madre, un’intervista sul Corriere polverizza la castità del sacerdozio e ce n’è anche per l’eros, il sano desiderio – nelle mani delle Madame Bovary in clergyman – diventa, ohibò, un diritto.
Il marito del prete, più che la moglie. Nella Chiesa di Roma lo scandalo non è più la donna, e l’uomo che si dà in natura a un altro uomo, oplà, proclama l’amore familiare.
Il Sinodo, oggi, verosimilmente, non si pronuncerà in tal senso ma Krzysztof Charamsa, un sacerdote, dalle colonne del Corriere della Sera, e non dallo schermo di Barbara D’Urso, ha fatto sapere di avere un marito.
Non è un curato di campagna, padre Charamsa, è un teologo – è nientemeno un ufficiale di quella che un tempo sarebbe stata l’Inquisizione, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede – e in anticipo sulla discussione sulla famiglia aperta dalla Chiesa cattolica, s’è preso i riflettori per destinarsi al melodramma e al più bovarista dei luoghi comuni: pensare che la Chiesa sia in ritardo.
Il prete, dunque, e suo marito, sono i due epifani di una potente epifania. E’ chiaro che padre Charamsa parli per conto del disincanto secolarizzato e non dell’eterno. Figlio più dei giorni nostri che della Chiesa millenaria, il monsignore incarna i tic e il linguaggio di una società, quella liberale, dove la separatezza tra lo spazio del sacro e quello della laicità ha raggiunto il suo apice. La libertà di equiparare tutto, perfino papà e mamma, diventati genitore 1 e genitore 2, s’è mangiato il diritto di sopravvivenza della differenza – quella di essere un padre e di essere madre – nell’orizzonte d’Occidente, luogo dell’assoluto di libertà.
A Roma, nei giorni scorsi, la forza pubblica ha sequestrato dei manifesti dove – con lo slogan “i bambini non si comprano” – c’erano disegnati un maschio adulto e una femmina adulta, quindi un bimbo e una bimba, dunque una famiglia, e perciò una chiara provocazione per la sensibilità laica. Sono stati coperti da una mano di vernice per cancellare un’idea arcaica e procurarsi così, con una delibera di Ignazio Marino, uno scatto epocale di cinquant’anni almeno.
Proprio Monsignore, ma non troppo, don Charamsa: “Non è possibile aspettare per altri cinquant’anni”, dice appunto, come se l’Eterno sia un fatto di orologi. E così dicendo, l’inquisitore in rosa, rivela un vizio di dottrina più che di genere. Ed è quello di pensare al domani che verrà come al perfezionarsi dell’oggi (e figurarsi quanto c’è da aggiustare, secondo lui, tra le cose di ieri e quelle dell’altro ieri, quando sulla terra si aggirava Cristo con gli Apostoli e ancora non c’era la Costituzione americana…).
“L’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana” dice ancora monsignor Krzysztof Charamsa, e suona strano che lo dica se l’amore, poi, nella sua incarnazione viva, s’invera in quella sottana talare la cui vocazione è, non due cuori e una capanna, ma la Misericordia. E’ lo svuotarsi di sé per accogliere il sacrissimo crisma.
L’uomo di Dio non si nega all’eros e la più potente estasi, più di qualunque copula, è quella di Santa Teresa d’Avila. La carne è il Calvario e non “due cuori e una capanna”, altrimenti, in luogo degli Evangeli, sarebbero bastati gli spot dei surgelati, opportunamente omo-omogeneizzati secondo la voga dello Spirito del Tempo.
Il marito del prete, dunque, più che la moglie. Non più le pagine di Goffredo Parise, “Il Prete Bello”; non più “Aggiungi un posto a tavola”, la commedia musicale di Garinei e Giovannini, con Clementina (Jenny Tamburi) innamorata di don Silvestro (Johnny Dorelli); non più Abat-Jour, Sofia Loren in sottoveste, il seminarista tentato di spogliarsi e Tina Pica, la nonna, disperata nel vedere sfumare il sogno di vedere diventare il nipote, prete.
Un marito, dunque, per monsignore. Come testimonial del Global Network of Rainbow Catholics, l’assemblea internazionale dei cattolici lgbt, padre Krzysztof si guadagna uno sbadiglio (e come lui tutte le donne in clergyman in giro, in questi giorni di sabba, a Roma) ma come ufficiale del Sant’Uffizio – un tempo con la croce, la stola e il motto– Exurge Domine! – allerta un dettaglio più che rivelatore o, ancora meglio, conferma un andazzo e lo trova già pronto per ben più inesorabile inquisizione, ossia, quella dell’ideologicamente corretto.
La Chiesa, nel giorno in cui apre il Sinodo sulla famiglia, sta sotto osservazione affinché non deragli rispetto ai comandamenti del totalitarismo liberale. In attesa di censura, ci si autocensura. Una mano di vernice cancella la distinzione tra padre e madre, un’intervista sul Corriere polverizza la castità del sacerdozio e ce n’è anche per l’eros, il sano desiderio – nelle mani delle Madame Bovary in clergyman – diventa, ohibò, un diritto.
DI PIETRANGELO BUTTAFUOCO - 5 OTTOBRE 2015
Fonte:
Il Mattino
Il Mattino
http://www.lintellettualedissidente.it/rassegna-stampa/il-marito-del-prete/
BENVENUTI AL “VENTURINI”, DOVE I PRETI ESCONO COME NUOVI – UN CONVENTO IN TRENTINO ACCOGLIE IN SEGRETO SACERDOTI GAY, PEDOFILI, ALCOLISTI E DEPRESSI – VIETATO USARE LA PAROLA “CURA” PER EVITARE POLEMICHE, MA I RELIGIOSI SONO ASSISTITI ANCHE DA PSICOTERAUPETI
A mandare i sacerdoti al “Venturini”, per periodi che di solito vanno da uno a quattro anni, sono i loro vescovi. Ma il fatto che un prete sia stato in questo convento, dove si lavora, si prega e si viene “aiutati”, deve restare un segreto perché non diventi un marchio d’infamia e non renda difficile il reinserimento… -
Jenner Meletti e Andrea Selva per “la Repubblica”
Sono ormai maturi, i cachi e i kiwi. Nell’orto, gli ultimi pomodori. Sembra di essere fuori dal mondo, in questa casa madre dei padri Venturini. “Congregazione di Gesù sacerdote”, annuncia la targa in marmo. Doveva arrivare qui, don Mario Bonfante, l’ex sacerdote cattolico che tre anni fa è stato “licenziato” perché gay. «Esiste un convento in Nord Italia – ha detto ieri a Repubblica – dove vengono mandati a riflettere i sacerdoti che manifestano tendenze sessuali non consone. Un luogo dove ti aiutano a ritrovare la retta via. Volevano curarmi. Ho rifiutato di andarci».
Prima pioggia e tuoni, poi sole e arcobaleno. Il tempo giusto per raccontare questo convento dove il Male e il Bene sembrano impegnati in una lunga battaglia. «Io posso dire soltanto – dice padre Gianluigi Pastò, 72 anni, superiore generale dei Venturini – che qui aiutiamo i sacerdoti a diventare santi».
Una statua di Cristo a braccia aperte, pronto ad accogliere tutti. «Cercate prima il regno di Dio e la sua Giustizia e avrete tutto il resto in sovrappiù». La citazione da Matteo è accanto al cancello, aperto a tutti. Il padre superiore non ha nessuna voglia di parlare. «Troppe cose sbagliate sono state scritte su di noi. Il convento Venturini rischia di diventare un marchio infamante.
‘Quel prete è stato al Venturini? Chissà cosa avrà combinato’. Noi qui siamo abituati a lavorare nel silenzio assoluto ». Poi la tradizione di accoglienza vince, almeno per qualche minuto. «Venite in refettorio, prendiamo un caffè». Un vassoio di pizze già pronto per la cena frugale della domenica, una cinquantina di posti in tavolate a ferro di cavallo. Un quadro con il fondatore della congregazione, padre Mario Venturini, che aprì questo convento nel 1928.
«Le spiego perché non vogliamo parlare. Un convento per preti pedofili, preti gay… si è scritto di tutto, con titoli assurdi. I sacerdoti vengono invece da noi per un periodo di formazione, di riflessione personale, di discernimento. In questo momento non abbiamo né preti gay né preti pedofili. Certo, nostro compito è accogliere tutti. Ci sono soprattutto i preti che soffrono di depressione, il male di questi tempi. Noi non vogliamo essere ‘marchiati’. Questo perché oggi, con Google, rischi l’ergastolo a vita.
Faccio un esempio: arriva un nuovo sacerdote in una parrocchia e c’è chi subito va in rete a cercare il suo passato. Magari risulta che è stato nostro ospite e allora tutti pensano chissà che cosa. Ci sono uomini che diventano preti già adulti e magari hanno avuto un passato di droga o altro. Hanno svolto un grande e pesante lavoro di redenzione, ma se il loro nome è stato scritto su un giornale o su un sito si trovano inchiodati al loro passato».
Quasi nessuno, a Trento conosce bene il lavoro dei Venturini. Un titolo forte il 24 febbraio 1983, quando un sacerdote del convento, don Armando Bison, 71 anni, fu ucciso con un punteruolo a forma di crocefisso, conficcato in testa, da Marco Furlan e Wolfgang Abel, i “Ludwig” che volevano “moralizzare il mondo” e finirono in manicomio criminale.
Chi frequenta il convento conferma che i problemi più presenti, fra chi viene accolto qui, è proprio la depressione. «È alto anche il numero di alcolisti, fra preti soprattutto anziani che hanno smarrito la strada. E poi ci sono i problemi legati al sesso».
Formazione, accompagnamento, riflessione… Non parla mai di cura, il padre superiore. Ma nella presentazione del sito c’è scritto che «i larghi spazi di accoglienza – una casa grande e tanta campagna intorno – uniti a possibilità varie di terapia e di lavoro, consentono alla comunità di ospitare numerosi preti e religiosi offrendo loro un ambiente aperto e disteso ove affrontare le proprie difficoltà». Terapia, dunque.
Chi arriva qui viene aiutato anche da psicologi e psichiatri. Con quale percorso e quale metodo? «Noi non parliamo – dice il superiore - di questo nostro lavoro. Che però è conosciuto dai vescovi di tante diocesi. Loro sanno cosa possiamo offrire. Io dico soltanto che qui nessuno viene perché obbligato. Entrare da noi è una libera scelta».
Che però, come nel caso di don Mario Bonfante, è una libera scelta molto condizionata. Un vescovo invita un prete ad entrare nel convento comunità, questi rifiuta e si trova ridotto allo stato laicale.
In un’intervista a Repubblica. it di Elena Affinito e Giorgio Ragnoli, nel luglio 2013 padre Gianluigi Pastò era stato più ricco di notizie. «La vita comunitaria allontana il prete dalla sua solitudine. Il primo passo della terapia è l’accoglienza. Noi solitamente vogliamo conoscere la persona poi vediamo se siamo in grado di aiutarla». Padre Franco Fornari è lo psicologo responsabile all’interno del centro. Sedute con cadenza giornaliera e terapia di gruppo coordinata da una psicologa laica.
Se necessario, è previsto l’intervento di uno psichiatra laico per le terapie farmacologiche di supporto. I tempi non sono mai brevi. Si resta in convento per uno, due o anche quattro anni. È il vescovo a decidere dove impegnare il sacerdote dopo il lungo periodo di “redenzione”. Chi è stato accusato di molestie ai minori, ad esempio, verrà inviato in un santuario o in un altro convento, senza contatti con i ragazzi e senza attività pastorale aperta.
Sarebbero sei o sette, in media, gli ospiti del convento comunità. La casa di accoglienza è molto grande, perché un tempo ospitava il seminario della congregazione e tanti sono i preti tornati alla casa madre perché ormai anziani. C’è anche chi se ne va prima di avere terminato il percorso. Non sono in carcere, tutte le porte sono aperte. «Su di noi – dice il superiore generale – sono state raccontate troppe cose sbagliate. È giusto che la nostra opera sia senza pubblicità, anche per rispettare chi viene da noi in cerca di aiuto».
«Non preoccuparti né del cibo né dei vestiti », è scritto, citando sempre Matteo, cap. VI, nella lapide all’ingresso. Chi entra qui ha purtroppo in testa preoccupazioni più pesanti. Superando la soglia, la lotta fra il Bene e il Male è solo all’inizio. Ma c’è la speranza di “diventare santi”.
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