ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 27 novembre 2015

Due ecclesiologie a confronto:

La dottrina della libertà religiosa e quella delle due spade 


«Domine, ecce duo gladii hic» «Satis est» (Lc 22, 38) 
Il 7 dicembre 2005 ricorreva il quarantesimo anniversario della Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, sul «diritto della persona e delle comunità alla libertà sociale e civile religiosa». Vi si legge la notissima frase, al n. 2: «Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire secondo la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa, privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio sia tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nellʼordinamento giuridico della società»( 1 ). Tale affermazione era stata condannata tale e quale dallʼEnciclica Quanta cura di Papa Pio IX, che riprendeva Mirari vos di Gregorio XVI, come tutti sanno: del tutto falsa e dannosa alla Chiesa e alle anime, anzi follia è lʼopinione che vuole «la libertà di coscienza e dei culti essere diritto proprio di ciascun uomo, che si deve con legge proclamare e sostenere in ogni società ben costituita, ed essere diritto dʼogni cittadino una totale libertà, che non può essere limitata da alcuna autorità vuoi civile, vuoi ecclesiastica, di manifestare e dichiarare i propri pensieri quali che siano sia a viva voce, sia con la stampa, sia in altro modo palesemente e in pubblico»( 2 ).
Appare chiaro a tutti come sia condannata lʼidea che esista un diritto ad una professione esterna di false opinioni senza possibilità di esserne impediti dallʼautorità. La Chiesa insegna che -e dunque Nostro Signore ha rivelato che un tale diritto non esiste. Può essere a volte tollerata lʼuna o lʼaltra cattiva azione, ma tale tolleranza non si fonderà mai su un diritto della persona: può fondarsi su unʼimpossibilità dellʼautorità ad intervenire, su una necessità, sul timore di un male più grave, etc. Una cosa è dire che purtroppo non tutti i furti possono essere puniti o impediti, unʼaltra che il furto è un diritto di ogni persona umana. Si vede bene come Dignitatis humanae si allontani dalla dottrina della Chiesa. Il nostro intento è mostrare, al di là del singolo problema della libertà religiosa, quanto si estenda lʼautorità della Chiesa e del Papa in fatto di coercizione (dalla quale, in materia religiosa, tutti dovrebbero essere liberi, secondo il Concilio) e di potestà temporale, naturalmente fondandoci sui testi del Magistero di tutti i tempi. Si vedrà come lo spirito e la lettera del Vaticano II si allontanino da tale dottrina. ALCUNE NOZIONI DA TENER BEN PRESENTI 


Preliminarmente osserviamo che nella Chiesa Romana nessuno ha mai messo in dubbio che esistano due società perfette: la società temporale, o Stato, che nasce con la creazione della natura umana ed ha per fine il bene comune dei cittadini (lʼordine, la pace, le condizioni che permettono la vita virtuosa); e la società spirituale, la Chiesa Cattolica, fondata da Gesù Cristo per un fine soprannaturale, cioè la gloria di Dio tramite la salvezza delle anime. Entrambe queste società, essendo perfette, hanno tutti i mezzi necessari per ottenere il rispettivo fine. Ma la loro distinzione non implica assoluta indipendenza, e tanto meno uguaglianza: lʼuna è superiore allʼaltra ed ha un potere su di essa. Soprattutto, i membri delle due società spesso coincidono, né si può escludere che le stesse persone ricoprano ruoli dʼautorità in entrambe, vuoi per diritto divino, vuoi per diritto umano. Notiamo altresì che distingueremo con cura ciò che è di fede o comunque insegnato dalla Chiesa, e che quindi nessun cattolico può rifiutare, e ciò che i teologi hanno dedotto dal Magistero e le opinioni più generalmente ammesse in accordo con il Magistero stesso. Qualche esempio storico aiuterà a capire meglio i princìpi esposti.
LA CHIESA COME SOCIETÀ SPIRITUALE: SUOI POTERI 
Consideriamo anzitutto la Chiesa in se stessa, escludendo per ora le sue relazioni con la società temporale. Non ci occuperemo qui dei suoi poteri di santificare e di insegnare, che esulano dal nostro oggetto. Guarderemo invece se, allʼinterno di questa società, esista un potere in grado non solo di legiferare, ma anche di far osservare con i mezzi proporzionati le sue leggi. Ci interessa sapere per ora se la Chiesa ha questo potere in se stessa, non se lo Stato può averglielo concesso o riconosciuto. Ovviamente questo potere tocca direttamente tutti e soli i battezzati, che per il carattere di questo sacramento diventano sudditi della Chiesa. Il Cristo, Re della Chiesa, possiede la pienezza di tutti i poteri (Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra, Mt 28,18): questi poteri li ha concessi alla Chiesa, che in casu si identifica con il Papa (Papa, id est Ecclesia): è lui che ricapitola ogni autorità allʼinterno della Chiesa, in quanto detentore delle somme Chiavi, segno della fonte e dellʼorigine del potere. Nessuno dubita che la Chiesa abbia la capacità di dare delle leggi e di giudicare: si vedano il potere di legare e sciogliere concesso dal Cristo a san Pietro (Mt 16, 16ss.), alcune citazioni di san Paolo(3 ) e soprattutto lʼanatema del Tridentino(4 ). Fin dai tempi più antichi i Vescovi sono giudici dei cristiani in ogni tipo di causa, anche in quelle che potevano essere giudicate dai tribunali civili: san Paolo non vuole che i cristiani si presentino a un giudice pagano, anzi rivendica la capacità di giudicare già quaggiù a coloro che sono chiamati a giudicare con Cristo in Cielo: Nescitis quia et Angelos iudicabimus? quanto magis secularia?( 5 ). Così fanno i Vescovi prima e dopo le persecuzioni, e gli Imperatori riconosceranno tale facoltà come già esistente, del tutto indipendente da quella temporale: il Codex Theodosianus riporta il decreto di Costantino in tal senso(6 ). Per molti secoli la Chiesa giudicò in modo esclusivo e per qualunque tipo di causa almeno i chierici, per il cosiddetto privilegio del foro ecclesiastico. Pio IX definì che tale privilegio non poteva dirsi una concessione dei Principi, ma un diritto nativo della Chiesa: condannò infatti, nel Sillabo, le seguenti proposizioni: «Lʼimmunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche ebbe origine dal diritto civile» (n. 30) e «Il foro ecclesiastico per le cause temporali dei chierici, siano civili, siano criminali, deve essere assolutamente tolto di mezzo, anche non consultata e reclamante la Sede Apostolica» (n. 31)(7 ). Un tale potere di legiferare e giudicare comporta, a rigor di logica, il potere di infliggere e applicare delle pene per ottenere il rispetto delle leggi: la Chiesa, essendo una società perfetta, cioè completa, deve trovare in se stessa la fonte di tale autorità. Nostro Signore fa espressamente menzione di tale potere in Mt 18, 17, a proposito della correzione fraterna: Si Ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus et publicanus: tale frase si considera il fondamento scritturale della pena di scomunica. Anche su questo punto si è pronunciato il Magistero infallibile: Giovanni XXII, citando proprio il passaggio qui riportato, con la sua Costituzione Licet (23 ott. 1327) condannò come eretica la proposizione di Marsilio da Padova: «Tutta la Chiesa messa insieme non può punire nessuno di una pena di coazione, a meno che non lo conceda lʼImperatore»( 8 ). Nello stesso senso le condanne di Pio VI (Auctorem fidei, DzS. 2604-2605), di Pio IX (Sillabo, prop. n. 24) e la dottrina esposta da Leone XIII nellʼenciclica Immortale Dei. Infine, così si esprime il canone 2213, riassumendo tutta questa dottrina: «Nativum et proprium Ecclesiae ius est, independens a qualibet humana auctoritate, coercendi delinquentes sibi subditos poenis tum spiritualibus tum etiam temporalibus».
LA QUESTIONE DELLʼESTESIONE DEL POTERE DI COAZIONE 
È dunque verità di fede che la Chiesa abbia il potere di punire, e che possa servirsi non solo di pene spirituali (la scomunica, la sospensione, lʼinterdetto etc.), ma anche temporali: è infatti una società umana in ragione dei suoi membri, e ha dunque bisogno di mezzi umani e materiali. Tra gli argomenti magisteriali, citiamo senzʼaltro Pio IX nellʼenciclica Quanta cura, in cui si condanna questa proposizione: «Alla Chiesa non compete il diritto di punire i violatori delle sue leggi anche con pene temporali»(9 ). La questione che si pone è questa: fin dove la Chiesa può arrivare nel punire privando di beni temporali? Fino alla pena di morte? e se può infliggere delle pene temporali, come farle applicare? può applicarle da se stessa, nel qual caso avrebbe bisogno di una forza armata? o deve affidarsi allo Stato, il cosiddetto “braccio secolare”? Notiamo che qui non si tratta tanto di sapere se la Chiesa di fatto eserciti o abbia esercitato tale diritto, e nemmeno se lʼuso di tale diritto sia conveniente o se sia meglio astenersene per qualche motivo. Si tratta di sapere se tale diritto esista. Entriamo qui in una questione discussa, ma vedremo che ci sono dei limiti netti alla discussione e dei fondati argomenti magisteriali in un senso preciso. Anzitutto dobbiamo affermare come certo il diritto della Chiesa ad avere una forza armata pubblica almeno in modo mediato, nel senso che può chiederne lʼausilio con autorità alla società temporale. Diciamo con autorità, altrimenti non si tratterebbe più di un diritto: infatti la Chiesa è una società perfetta, e deve possedere tutti i mezzi necessari al suo fine, senza cercarli altrove. Se deve chiedere allo Stato, non può essere perché manca di qualcosa: è perché ha il diritto di usare le forze dello Stato per se stessa, come se le appartenessero. Questa dottrina è chiaramente espressa da Bonifacio VIII nellʼinfallibile Bolla Unam Sanctam, che dice: «Lʼuna e lʼaltra spada sono in potestà della Chiesa, cioè la spada spirituale e quella materiale. Ma questa deve essere usata in favore della Chiesa, questa dalla Chiesa. Quella è nella mano del Sacerdote, questa dei Re e dei soldati, ma secondo il cenno e il volere del Sacerdote. Occorre infatti che un gladio sia sottomesso allʼaltro, e che lʼautorità temporale sia sottomessa a quella spirituale»( 10). Commenteremo più oltre ampiamente questa Bolla: ci basti per ora a dimostrazione almeno del diritto della Chiesa di esigere lʼesercizio del gladio dallo Stato (cfr. anche il can. 2198). Se la Chiesa ha questo diritto e di fatto lo ha nei secoli esercitato, questo non esclude che essa possa avere una sua propria forza armata e gestirla direttamente. Se nei secoli si è a volte preferito non esercitare tale potere direttamente, il non uso non dimostra lʼassenza di diritto. Alcuni teologi negano alla Chiesa tale diritto, dicendo che infatti il caso non è mai esistito. Se il Papa aveva (ed ha) una forza armata lʼavrebbe in quanto è anche sovrano temporale, non in quanto Capo della Chiesa. In realtà, siamo in grado di citare almeno un caso storico famosissimo e non isolato, in cui vediamo un Vescovo disporre di una sua polizia, e difendere questo diritto come suo proprio di fronte alle autorità secolari che vogliono toglierglielo. Notiamo subito che questo Vescovo, a differenza di molti altri a quei tempi, non aveva una qualche giurisdizione civile (cʼerano Vescovi ed Abati Conti, o Principi che riunivano nella loro persona i due poteri), ed è evidente che rivendicava lʼuso della forza armata per far applicare dei provvedimenti che scaturivano dalla giurisdizione spirituale. Questo Vescovo è lo stesso san Carlo Borromeo. A Milano il tribunale vescovile interveniva su numerosi delitti (bestemmia, infrazioni del digiuno e del riposo festivo, usura, immoralità etc.), e il Borromeo aveva ristabilito il tradizionale drappello di birri armati per far rispettare le sentenze. Il senato di Milano protestò, dicendo che lʼArcivescovo non poteva adoperare i suoi armati contro dei laici. Una lunga e dura controversia tra Milano, Roma e Madrid si concluse nel dicembre 1569, con la vittoria dellʼArcivescovo, sostenuto da san Pio V, che si vide confermato nel suo diritto: il Senato pubblicamente si sottomise e chiese perdono per le censure incorse. Ugualmente, ci sembra difficile distinguere tra il Papa come sovrano temporale e il Papa Capo della Chiesa quando sappiamo che il suo esercito era detto lʼesercito “della Chiesa”, che combatteva sotto il rosso vessillo della Chiesa Romana che era solennemente consegnato dal Papa al Capitano generale “di Santa Romana Chiesa” con una speciale benedizione perché fosse «inimicis populi christiani terribile»( 11). Per gli stessi motivi, sembra impossibile negare alla Chiesa il cosiddetto ius gladii, il diritto di spada, cioè di infliggere delle pene corporali fino alla pena di morte, sia in modo mediato (tramite cioè lʼausilio del braccio secolare) sia in modo immediato. Infatti tale pena è necessaria ad ogni società per il bene comune davanti a uomini incorreggibili o alla necessità di dare il terrore dei delitti più gravi. Possiamo dire che la pena di morte è lecita e necessaria per la Chiesa allo stesso titolo che per lo Stato. Impossibile affermare che la Chiesa non abbia de facto pronunciate delle sentenze capitali di propria autorità (e non solo per una giurisdizione civile concessa dai Principi laici). Citiamo qui tre testimonianze: Lucio III ordina che gli eretici condannati siano lasciati allʼarbitrio delle autorità laiche, il che equivale a consegnarli alla morte(12); Innocenzo III ordina ai Principi secolari «che per la difesa della fede prestino un pubblico giuramento, che cercheranno di sterminare dalle terre di loro giurisdizione, con buona volontà e nella misura delle loro forze, tutti gli eretici segnalati dalla Chiesa»(13); infine la proposizione di Lutero condannata da Leone X dice testualmente: «Bruciare gli eretici è contro la volontà dello Spirito»( 14). Gli argomenti sulla necessaria mansuetudine della Chiesa apportati dagli avversari di questa tesi si riferiscono piuttosto allʼesercizio del diritto di gladio che non alla sua esistenza. Ammessa lʼesistenza di tale diritto, diventa difficile negare alla Chiesa il diritto di applicarlo direttamente, senza lʼintermediario dello Stato, anche se volentieri ammettiamo che ciò deve essere avvenuto raramente.
LA CHIESA NEI SUOI RAPPORTI CON LA SOCIETÀ TEMPORALE a) Il potere indiretto Riteniamo inutile ricordare qui le innumerevoli condanne dei Pontefici Romani al sistema di separazione della Chiesa dallo Stato, falsissima maximeque perniciosa sententia, come lo definiva san Pio X nellʼenciclica Vehementer. Indubbiamente alla Chiesa, come società spirituale, non spetta di per sé alcun potere immediato sulle cose del governo temporale, che esulano dal suo fine. Regnum meum non est de hoc mundo: il fine di quel Regno di Dio che è la Chiesa non è assolutamente terreno, ma soprannaturale e celeste. Tuttavia, per la superiorità dello spirito sulla materia, del fine soprannaturale che ingloba il fine temporale, si deve ammettere una netta subordinazione dello Stato alla Chiesa, almeno in via indiretta. Non si tratta di un mero potere direttivo, come volevano il Bossuet ed i gallicani, ovvero di un semplice potere di consigliare ed esortare o di insegnare la giusta strada ai sovrani (come dicevano i Quattro Articoli della Dichiarazione del Clero gallicano del 1682, condannati dal breve del beato Innocenzo XI dellʼ11 aprile 1682 e dalla Costituzione Inter multiplices di Alessandro VIII del 4 agosto 1690, DzS. 2281-2285; condanna ripresa da Pio VI in Auctorem fidei, DzS. 2699): è invece una vera giurisdizione comprendente il diritto di ordinare, giudicare, costringere. Lo abbiamo visto in qualche misura per il potere di usare del cosiddetto braccio secolare, ed abbiamo già citato la necessaria sottomissione di un gladio allʼaltro voluta da Bonifacio VIII. Questa sottomissione indiretta, la cui esistenza è innegabile, deriva dallʼautorità che la Chiesa ha su tutti i battezzati, Principi compresi, e dal suo dovere di provvedere al bene dei medesimi. Così, in tutto ciò che tocca la fede o la morale, la Chiesa ha diritto di intervenire, ratione peccati, secondo lʼespressione usata da Innocenzo III(15) e Bonifacio VIII. Oltre a san Roberto Bellarmino, che largamente spiegò lʼesistenza e la natura di tale potere, citiamo qui le parole di san Tommaso: «La potestà secolare è sottomessa alla spirituale, come il corpo allʼanima, e perciò non si usurpa il potere se il Prelato spirituale si intromette nel temporale quanto alle cose nelle quali gli è sottomessa la potestà secolare»( 16). Lʼestensione di un tale potere indiretto, che è vera giurisdizione, è massima.San Gregorio VII, nel Dictatus Papae, ci dice del Romano Pontefice che gli è lecito deporre gli Imperatori e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto ai malvagi(17). Potere spesso esercitato dai Papi per i Principi malvagi: lʼultimo caso è quello di Elisabetta dʼInghilterra, che san Pio V nel 1570 privò del Regno per causa dʼeresia con la Bolla Regnans in excelsis. Lʼintroduzione di questa Bolla ci presenta il Papa che agisce in virtù del suo potere di capo della Chiesa. Citiamo qui anche la fin troppo famosa Bolla Cum ex apostolatus (così spesso citata a sproposito) di Paolo IV, che priva del potere anche tutti i dignitari laici (dallʼImperatore in giù) che fossero giudicati colpevoli dʼeresia. A fortiori il Papa può dichiarare nulle delle leggi inique, cosa che fece san Pio X a riguardo delle leggi di separazione in Francia (enciclica Vehementer, 11 febbraio 1906). Tale dottrina del potere indiretto fu sostenuta ugualmente da Pio XI nellʼEnciclica Ubi arcano del 23 dicembre 1922. b) La questione del potere diretto Senza nulla togliere a quanto detto finora, e senza in nessun modo negare la distinzione dei due ordini e delle due società, resta da esaminare se il Cristo che senza dubbio non è solo Re della società spirituale, ma anche Re di tutto lʼordine temporale(18), non abbia delegato anche questo suo potere al Suo Vicario, così come gli ha delegato il supremo potere spirituale (con tutto ciò che esso comporta in materia temporale). In questo caso il Papa, come Vicario di Cristo, potrebbe intervenire in materia temporale sia indirettamente in virtù del potere spirituale, come abbiamo visto, sia direttamente in virtù della pienezza del potere temporale, e quindi non solo ratione peccati, ma in qualsiasi caso e anche sui sovrani non battezzati. Notiamo subito che si tratta di un diritto, quantunque possa non essere abitualmente esercitato. Non vi è nessuna confusione dei due ordini, ma solamente la stessa persona si trova a detenere lʼapice di entrambi: il che è certamente vero per Nostro Signore in quanto Uomo. Resta da vedere se vi è stata delegazione di entrambi i poteri, il che dipendeva unicamente dalla libera volontà del Cristo, la quale ci è nota tramite la Rivelazione, dunque tramite il Magistero. Non osiamo dire che esistano argomenti apodittici in favore di questa tesi, che fu negata dal Bellarmino; esistono però numerosissimi indizi nel Magistero e nella prassi dei Papi, oltre che lʼaperto sostegno di un gran numero di teologi e canonisti. San Tommaso dʼAquino espone tale tesi in modo semplice e chiarissimo: «…nelle cose che riguardano il bene civile, si deve obbedire piuttosto alla potestà secolare che alla spirituale, secondo il detto di Mt 22 “Date a Cesare ciò che è di Cesare”, etc. A meno del caso in cui alla potestà spirituale sia unita anche la potestà spirituale: come nel Papa, che tiene lʼapice di entrambi i poteri, per disposizione di colui che è Sacerdote e Re in eterno, secondo lʼordine di Melchisedech, Re dei re e Signore dei signori, il cui potere non sarà tolto, e il cui regno non sarà consumato per tutti i secoli dei secoli. Amen»( 19). In termini del tutto simili si era espresso Innocenzo III nella lettera di risposta al Re dʼInghilterra Giovanni Senza Terra, che gli offriva in feudo il regno: «Il Re dei re e Signore dei signori Gesù Cristo, Sacerdote in eterno secondo lʼordine di Melchisedech, stabilì il regno e il sacerdozio nella Chiesa di modo che sacerdotale sia il regno e regale il sacerdozio, come attestano Pietro nellʼEpistola e Mosè nella Legge, mettendo a capo di tutti colui che ha ordinato come suo Vicario in terra…»( 20). Tale dottrina era solitamente spiegata dai canonisti con la metafora del sole e della luna. La lasciamo spiegare a Bonifacio VIII, nel discorso da lui tenuto per confermare lʼelezione del Re de Romani Alberto, futuro Imperatore, il 30 aprile 1303: «Dio fece due grandi luminari, il luminare maggiore per governare il giorno, e il luminare minore per governare la notte. Questi due luminari fece Dio in senso letterale, come si legge nella Genesi (I,16).E tuttavia al senso spirituale fece i detti luminari, cioè il sole, che è il potere ecclesiastico, e la luna, cioè il potere temporale e imperiale, per reggere lʼuniverso. E come la luna non ha nessuna luce, se non la riceve dal sole, così nessuna terrena potestà ha qualcosa, se non ciò che riceve dal potere ecclesiastico. […] Come infatti il Padre ha dato al Figlio il potere non nel tempo, ma nellʼeternità, così il Cristo allʼuomo e Vicario di Cristo diede il potere nel tempo, perché abbia il diritto di costituire lʼImperatore e di trasferire lʼImpero»( 21). E dʼaltronde lo stesso Alberto rispondeva al Papa riconoscendo che i Re e gli Imperatori ricevono il potere del gladio temporale dalla Santa Sede (22). Innocenzo IV, che almeno come dottore privato ampiamente sostenne tale tesi, in una lettera di risposta a Federico II che protestava per la sua deposizione, spiegava la cosiddetta donazione di Costantino (che comprendeva il potere su tutto lʼOccidente lasciato al Papa dallʼImperatore) come lʼabbandono di una tirannide illegittima e disordinata per ricevere dal Vicario di Cristo la concessione di una legittima autorità, ed interpretando le due chiavi lasciate da Cristo a san Pietro come il simbolo dei due poteri(23). Resta espressione di tale dottrina anche la Bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII, che abbiamo già citato per dimostrare genericamente la subordinazione dei due gladi. Molto si è discusso sulla sua interpretazione. Senza entrare nel merito, leggiamone con semplicità il passaggio immediatamente precedente a quello già citato, che riprende quasi letteralmente san Bernardo: «Siamo istruiti dalle parole del Vangelo che in questo suo potere (scil. di Pietro) sono i due gladi, cioè quello spirituale e quello materiale. Infatti quando gli Apostoli dicono: “Ecco due gladi qui”, cioè nella Chiesa, il Signore non risponde che sono troppi, ma che bastano. Certamente chi nega che il gladio temporale sia nella potestà di Pietro, capisce male la parola del Signore che dice: “Metti la tua spada nel fodero”»( 24). Lʼatto più eclatante di esercizio di questo potere ci sembra essere la famosissima Bolla Inter cetera di Alessandro VI, del 4 maggio 1493. Come tutti sanno, il Papa concede con questa bolla a Ferdinando di Castiglia e Isabella dʼAragona (e ai loro successori) la sovranità su tutte le terre del nuovo mondo che scopriranno al di là di una linea immaginaria cento leghe ad occidente delle Azzorre. Malgrado lʼatto sia compiuto per facilitare lʼevangelizzazione, sarebbe veramente una forzatura voler attribuire a tutti i costi questo atto al potere indiretto, visto che il Papa vi dispone dei beni e dei regni di Principi pagani, non battezzati, e ne trasferisce senzʼaltro il dominio ai Re Cattolici. Dʼaltronde si parla nella Bolla di una vera «donazione, concessione, assegnazione», fatta dal Papa «auctoritate omnipotentis Dei, nobis in beato Petro concessa, ac Vicariatus Ihesu Christi, qua fungimur in terris»( 25). Quella stessa autorità di cui parla il Cardinale Protodiacono quando incorona il Papa: «Accipe thiaram tribus coronis ornatam, et scias te esse patrem principum et regum, rectorem orbis et in terra Vicarium Salvatoris nostri»( 26). Nella notte di Natale, quando il Papa benediceva il cosiddetto stocco, uno spadone che con un berrettone veniva inviato ai Principi cristiani meritevoli, teneva un discorso preliminare composto da Sisto IV che diceva: «Questa spada pontificale figura il supremo potere temporale affidato dal Cristo al Pontefice suo Vicario in terra, secondo il detto “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”, e altrove “Dominerà da mare a mare, e dal fiume fino ai confini del mondo”, come indica anche la cappa di seta che i Pontefici sogliono portare nella notte del Natale del Signore»( 27). Innumerevoli sarebbero le testimonianze del cerimoniale papale di ogni epoca, che meriterebbero una trattazione a parte. Se tale tesi è oggi oscurata e addirittura negata da alcuni grandissimi teologi e canonisti, dal Bellarmino in poi, non possiamo passar sopra a tali testimonianze. Non dimentichiamo che grandi santi, come san Tommaso, san Bernardo, san Giovanni da Capestrano e molti altri la sostennero; oltre ad innumerevoli Papi, canonisti e teologi. Solo la malvagità dei tempi e le pretese dei Principi hanno potuto far accantonare questa dottrina in questi ultimi secoli; noi però non possiamo trascurare il peso dei documenti citati.
     
 CONCLUSIONI 
Impossibile conciliare in un modo qualsiasi lʼecclesiologia che risulta dal principio della libertà religiosa con quanto abbiamo visto finora. Il Concilio ci presenta una Chiesa che non ha diritti davanti alla società civile, se non quelli concessi a qualsiasi altra organizzazione. Il Magistero ci mostra invece la società civile che presenta i suoi doveri al Cristo Re, concretamente rappresentato dalla Chiesa e dal Papa; da questa fonte vengono i diritti degli Stati e dei Regni. Da una Chiesa che, nella logica dellʼIncarnazione, era dotata da Dio di tutti gli strumenti umani necessari alla sua perfezione e al raggiungimento del suo fine, ci troviamo di fronte ad una chiesa conciliare che riduce se stessa al rango di qualsiasi altra società puramente umana, per non dire diabolica, come è il caso delle false religioni. Non pensiamo che per ottenere il nostro fine bastino sempre e solo i mezzi puramente soprannaturali: se Nostro Signore si è fatto uomo, è perché abbiamo bisogno di tutte le cose umane, società compresa, per conoscere la verità o perseverare nel bene. Oggi che tutta la pressione sociale e tutta lʼorganizzazione mondiale cooperano contro il regno del Cristo e spingono con forza le anime al male ed allʼerrore, dovremmo comprendere a contrario quanto è necessario essere supportati da delle istituzioni realmente cristiane, e quanto è necessario che la Chiesa abbia i mezzi reali di far rispettare le leggi divine ai governanti e ai sudditi. Non si tratta, è ovvio, di costringere ad abbracciare la fede: nessun atto interno può essere fatto a comando. Si tratta invece di invertire la pressione sociale. Oggi i governanti e la società spingono con forza al male, creano delle situazioni in cui diventa unʼimpresa titanica obbedire alle leggi divine. Nella società cristiana, i presupposti sono tali che diventa quasi impossibile trasgredirle. 


Note 
( 1 ) «Haec Vaticana Synodus declarat personam humanam ius habere ad libertatem religiosam. Huiusmodi libertas in eo consistit, quod omnes homines debent immunes esse a coercitione sive singulorum sive coetuum socialium et cuiusvis potestatis humanae, et ita quidem ut in re reli- giosa neque aliquis cogatur ad agendum contra suam conscientiam agat privatim et publice, vel solus vel aliis consociatus, intra debitos limites. Insuper declarat ius ad libertatem religiosam esse revera fundatum in ipsa dignitate personae humanae, quails et verbo Dei revelato et ipsa ratione cognoscitur. Hoc ius personae humanae ad libertatem religiosam in iuridica societatis ordinatione ita est agnoscendum, ut ius civile evadat». (2 ) «…ex qua omnino falsa …idea haud timent erroneam illam fovere opinionem Catholicae Ecclesiae animarumque saluti maxime exitia- lem a rec. mem. Gregorio XVI… deliramentum appellatam, nimirum “libertatem conscientiae, et cultuum esse proprium cuiuscumque hominis ius, quod lege proclamari et asseri debet in omni recte costituta societate, et ius civibus inesse ad omnimodam libertatem nulla vel ecclesiastica vel civili auctoritate coarctandam, quos suos conceptus quoscumque sive voce, sive typis, sive alia ratione palam publiceque manifestare, ac declarare valeant”». (3 ) 1 Cor 4, 18, 21; 5, 3ss.; 1 Tim 5, 19. (4 ) Sess. VII, can. 8: Si quis dixerit baptizatos liberos esse ab omnibus Sanctae Ecclesiae praeceptis quae vel scripta vel tradita sunt, ita ut ea observare non teneantur, nisi se sua sponte illis submittere voluerint, anathema sit (Se qual- cuno dirà che i battezzati sono liberi da tutti i precetti scritti o tramandati della Santa Chiesa, al punto da non essere tenuti ad osservarli a meno che non vogliano sottomettervisi di loro spontanea volontà, che sia anatema). (5 ) 1 Cor 6, 1ss. (6 ) Liber Primus, Tit. XXVII, De Episcopali definitione. (7 ) «Ecclesiae et personarum ecclesiasticarum immunitas a iure civili ortum habuit» (n. 30); «Ecclesiasticum forum pro temporalibus cle- ricorum causis sive civilibus sive criminalibus omnino de medio tollendum est, etiam incon- sulta et reclamante Apostolica Sede» (n. 31). (8 ) «Tota Ecclesia simul iuncta, nullum homi- nem punire potest punitione coactiva, nisi concedat hoc Imperator» cf. DzS. 945 (9 ) «Ecclesiae ius non competere violatores legum suarum poenis temporalibus coere- cendi». ( 10) «Uterque gladius est in potestate Ecclesiae, spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed is quidem pro Ecclesia, ille vero ab Ecclesia exercendus. Ille Sacerdotis, is manu regum et militum, sed ad nutum et patientiam Sacer- dotis. Oportet autem gladium esse sub gladio et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati». (11) Andrieu M., Le Pontifical de Guillaume Durand, t. 3 p.550. (12) Lib. V Decretalium, tit. 7, cap. 9. (13) «…ut pro defensione fidei praestent publice iuramentum, quod de terris suae iurisdictionis subiectis universos haereticos ab Ecclesia denotatos, bona fide pro viribus exterminare studebunt» Lib. V Decretalium, tit. 7 cap.13. (14) «Haereticos comburi est contra voluntatem Spiritus», Bolla Exsurge Domine n. 33, 15 giugno 1520, DzS. 1483. (15) Cfr. in particolare la lettera ai Vescovi di Francia Novit ille del 1204, in Corpus iuris canonici, Decretales Gregorii IX, lib. II, tit. I, cap. 13; e la lettera allʼImperatore Alessio di Costantinopoli, ibidem lib. I, tit. 33, cap VI. (16)«Potestas secularis subditur spirituali sicut corpus animae, et ideo non est usurpatum iudi- cium, si spiritualis Praelatus se intromittat de temporalibus quantum ad ea in quibus subditur ei secularis potestas» Summa Theologiae II II, q. 60, art. 6, ad 3um. (17) «Quod illi liceat Imperatores deponere», n. XII; «Quod a fidelitate iniquorum subiectos potest absolvere», n. XXVII. (18) Cfr. Enciclica Quas primas, DzS. 3679 (19) «In his quae ad bonum civile pertinent, est magis obediendum potestati saeculari quam spirituali, secundum illud Mth. XXII, 21: Red- dite ergo quae sunt Caesaris Caesari. Nisi forte potestati spirituali etiam saecularis coniun- gatur, sicut in Papa, qui utriusque potestatis apicem tenet, scilicet spiritualis et temporalis, hoc illo disponenente qui est Sacerdos et Rex in aeternum, secundum ordinem Melchisedech, Rex regum et Dominus dominantium, cuius potestas non auferetur et regnum non corrum- petur in saecula saeculorum. Amen.» 2Sent., dist. 44, q. 2, a. 3 ad 4um. ( 20) «Rex regum et Dominus dominantium, Jesus Christus, Sacerdos et in aeternum secundum ordinem Melchisedech, ita regnum et sacer- dotium in Ecclesia stabilivit, ut sacerdotale sit regnum, et sacerdotium sit regale, sicut in Epi- stola Petrus et Moyses in lege testantur, unum praeficiens universis, quem suum in terris Vicarius ordinavit…» Migne, Patrologia Latina 216, 923-924. (21) «Fecit Deus duo luminaria magna, lumi- nare maius, ut preesset diei, luminare minus ut preesset nocti. Hec duo luminaria fecit Deus ad litteram, sicut dicitur in Genesi. Et nichilo- minus spiritualiter intellecta fecit luminaria predicta, scilicet solem, id est ecclesiasticam potestatem, et lunam, hoc est temporalem et imperialem, ut regeret universum. Et sicut luna nullum lumen habet, nisi quod recipit a sole, sic nec aliqua terrena potestas aliquid habet, nisi quod recipit ab ecclesiastica potestate. […] Sicut enim Pater dedit Filio potestatem non in tempore, sed in eternitate, sic Christus homini et Christi Vicario dedit potestatem in tempore, ut ipse habeat ius constituendi imperatorem et imperium transferendi» Cfr. Monumenta Ger- maniae historica, Leges, Sectio IV, Const., IV, pars I, Hannover-Berlin 1826. (22) «…a qua [apostolica sede] reges et imperatores, qui fuerunt et erunt pro tempore, recipiunt temporalis gladii potestatem…» ibidem, Const. T. IV, Pars I. (23) Vedi in Lo Grasso S.I., Ecclesia et Status - Fontes selecti, Roma 1939, nn. 400-409. ( 24) «In hac eiusque potestate duos esse gladios, spiritualem scilicet et temporalem, evangelicis dictis instruimur. Nam dicentibus Apostolis Ecce gladii duo hic, in ecclesia scilicet, quum Apostoli loquerentur, non respondit Dominus nimis esse, sed satis. Certe qui in potestate Petri temporalem gladium esse negat, male verbum attendit Domini proferentis: Converte gladium tuum in vaginam». (25) Cfr. il testo della Bolla in Lo Grasso S.I., op. cit., nn.459-468. (26) «Ricevi la tiara ornata di tre corone, e sappi che sei il Padre dei Re e dei Principi, il Rettore del mondo, il Vicario in terra del nostro Sal- vatore Gesù Cristo». Cfr. lʼedizione critica del Cerimoniale papale a cura di Marc Dykmans S.I., Lʼœuvre de Patrizi Piccolomini ou le Cérémonial papal de la première Renaissance, ed. della Biblioteca Apostolica Vaticana, Coll. Studi e testi 293 e 294, Città del Vaticano 1980, in particolare Liber primus, titulus secundus, XIV. (27) «Figurat denique pontificalis hic gladius potestatem summam temporalem a Christo pontifici eius in terris Vicario collatam, iuxta illud: Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra. Et alibi: Dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum, quam et declarat cappa illa sericea, quam pontifices solent gestare in nocte natalis Domini.», ibidem, tit. septimus, VII.

di don Mauro Tranquillo


LA BATTAGLIA DI LEPANTO

..dal suo nemico giurato. Oggi come  ieri si lotta per il dominio dei popoli diversamente sottomessi del Mediterraneo. Ieri era la Lega cristiana a contenere i turchi, oggi sembra essere la Russia l' ultimo bastione della cristianità.

Battaglia di Lepanto

7 ottobre 1571
La flotta cristiana della Lega Santa sconfigge e scaccia dal  Mediterraneo le forze navali turche.

Gli avversari

Alì Mehemet Pascià

Alì Mehemet PasciàL'ammiraglio della flotta turca era un uomo politico più che un vero e proprio militare.
Arrivò alla battaglia di Lepanto a 50 anni, con la fama di invicibilità, derivatagli dal dente destro di Maometto, che portava sempre in battaglia, rinchiuso in una capsula di cristallo. Sotto il profilo strategico, non gli si possono attribuire grandi errori: la sua sconfitta era già destinata a consumarsi prima dello scontro, visto il divario tecnologico tra le due forze in campo.
I suoi meriti maggiori sono da trovare prima dello scontro nelle acque greche. L'intelligenza che lo distingueva, lo portò a scegliere, per la sua spedizione, i "capitani" più validi, dell'intera marina ottomana: Uluch Alì, Mehemet Shoraq e Khara Kodja.
Uluch Alì, forse un ex campagnolo calabrese convertito all'Islam, era tra i più audaci e spietati (soprattutto nei confronti dei cristiani) comandanti turchi. Fu nominato addirittura Bey (sorta di governatore indipendente) di Algeri.
Shoraq, detto "Scirocco" dai cristiani, era tra i più esperti comandanti di marina di tutto il Mediterraneo, cosa che gli fruttò la signoria di Alessandria.
Infine, Khara Kodja, rappresentava la stirpe di pirati mediterranei avventati e senza paura, che erano adattissimi per le azioni più rischiose e improbabili.
La scelta degli ufficiali da parte di Alì, risulta praticamente perfetta, così come fu immenso il valore ed il coraggio islamico profuso a Lepanto. Ma la straripante superiorità cristiana lasciò ben poca gloria all'ammiraglio turco morto durante le fasi cruciali della battaglia.

Don Giovanni D'Austria

Don Giovanni D'AustriaIl comandante della flotta cristiana arrivò a 26 anni alla battaglia di Lepanto.
Figlio di Carlo V e di Barbara di Baviera, Giovanni mostrò subito come il suo indirizzo fosse verso la carriera militare, non verso quella ecclesiastica verso la quale era stato indirizzato. Prima dei 25 anni aveva già raggiunto i gradi più alti della gerarchia militare imperiale, ed era considerato uno dei più grandi ammiragli dell'intera cristianità.
Ma nonostante la grande preparazione, ed il grande valore dimostrato al fratellastro di Filippo II, gran parte del merito della sua vittoria nelle acque di Lepanto va ascritto a Sebastiano Venier, 75enne Duca di Candia, e "general de mar" della repubblica di Venezia, oltre che allo sforzo Politico di Marcantonio Colonna, comandante pontificio, unica persona in grado di smussare i contrasti tra Spagna e Venezia, e mantenere l'unità d'intenti della flotta.
I rapporti tra il Venier e Don Giovanni furono assai duri. Il ruvido carattere del Venier, mal si conciliava con l'atteggiamento "guascone" dello spagnolo, imberbe ed esibizionista secondo il comandante veneziano.
Sta di fatto che dopo la vittoria di Lepanto, Don Giovanni D'Austria divenne governatore delle Fiandre spagnole, dove morirà pochi anni dopo la vittoria contro il turco, ancora giovanissimo.
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I Turchi

Lo scontro navale che ebbe luogo il 7 ottobre 1571 nelle acque di Lepanto, segna una svolta epocale nella storia del Mar Mediterraneo e di tutti quei paesi che, fino ad allora, erano stati coinvolti nella lotta per arginare la minaccia turca sul mare.
Fino ad allora, i tentativi di arginare la potenza turca sulla terraferma si erano dimostrati assai vani (vedi la battaglia di kosovo-polje o la caduta di Costantinopoli). Le ripetute sconfitte cristiane di quegli anni, sono dovute alla preparazione di alcuni corpi scelti turchi , ai mezzi, ma soprattutto all'enorme quantità di forze, che i sultani avevano la possibilità di schierare ad ogni "appuntamento" militare.
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Battaglia di Lepanto - I percorsi delle flotte
Se nei Balcani l'opposizione agli invasori era stata comunque assai vasta, sul versante navale in pochi potevano controllare l'espansione islamica nel mediterraneo. La sola potenza che aveva i mezzi per tentare l'impresa era la repubblica di Venezia, ma da soli, i veneziani non erano abbastanza. Nel 1499 persero Lepanto stessa, e col tempo perderanno anche Naupatto, Chio e soprattutto l'isola di Cipro difesa strenuamente dal comandante Marcantonio Bragadin.
L'unica vera speranza di vittoria, contro gli uomini del sultano, era rappresentata dall'unione di tutte le maggiori flotte cristiane dell'area mediterranea.
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Le forze alleate

L'ultima roccaforte del mediterraneo orientale che rimase in mano agli europei era l'isola di Cipro. La difesa veneziana dell'isola era stretta attorno alla fortezza di Famagosta, ma schierava solo 7.000 difensori, guidati da Marcantonio Bragadin, contro i 20.000 turchi al comando di Mustafa Pascià. I turchi mostrarono in questo assedio di quali mezzi disponessero e la crudeltà che li distingueva. Sulla fortezza piombarono almeno 170.000 colpi di cannone e innumerevoli furono le mine piazzate sotto le mura della città. I veneziani, da parte loro, ressero per 72 giorni ai turchi, ma neanche l'estremo sacrificio del capitano Roberto Malvezzi (fattosi saltare in aria insieme a migliaia di turchi in un deposito sotterraneo)fu abbastanza per la vittoria. Rimasto con 700 uomini, Bragadin accettò di trattare la resa con Mustafà Pascià, che offriva ai lagunari la salvezza, il rispetto dei beni, della popolazione civile e gli onori militari. Ma i turchi non rispettarono i patti. Appena fuori dalla fortezza, l'intendente Tiepolo e il generale Baglioni furono impiccati, tutti i civili furono venduti come schiavi a Costantinopoli, mentre il Governatore Bragadin fu scuoiato vivo. L'estremo sacrificio di Famagosta e dei suoi difensori non furono mai dimenticati. Nel frattempo l'Europa cristiana era divisa da molti anni in conflitti di potere temporale (vedi la lotta tra Francia e Spagna), ed in conflitti di natura spirituale(cattolici schierati contro i luterani). Ma con la pace di Cateau-Cambresis(1559) e il concilio di Trento(1545-1563), si creò una situazione di breve stabilità politica necessaria al Papa Pio V per stringere nell'alleanza della Lega Santa la Spagna, Venezia e lo stato Pontificio.
Apparentemente improponibile come legame, vista l'alleanza che legava Venezia con la Francia, la Lega Santa creata dall'astuzia diplomatica del Papa, univa la migliore flotta del mediterraneo occidentale alla giovanile irruenza di Don Giovanni d'Austria, fratellastro del re di Spagna Filippo II. E' nota la preoccupazione con cui gli spagnoli vedevano l'avanzata islamica ad occidente, in particolare, l'espansione turca sulle coste settentrionali del Maghreb, fece arrivare voci a Madrid secondo cui era in atto un preparativo navale ottomano contro la stessa penisola iberica.
Fu con tali premesse che, nel 1571, la flotta cattolica venne riunita a Messina e al comando di Don Giovanni d'Austria salpò verso le coste della Grecia.
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I Cantieri Navali

Il termine darsena, ossia il luogo reputato per eccellenza alla costruzione marinara, proviene dall'arabo dar as-sina, ossia "casa della costruzione".
Una delle più famose e produttive "case della costruzione" navale in Europa risulta l'Arsenale di Venezia, seguito immediatamente da quello spagnolo di Barcellona. Entrambe gli arsenali avevano la caratteristica peculiare della costruzione specifica di navi da guerra, e la Repubblica di Venezia in particolare, aveva nei dintorni altri "distaccamenti" nei quali venivano costruite altre imbarcazioni di stampo mercantile, come i porti di Candia e di Canea.
Ma la produttività del cantiere veneto era sicuramente senza eguali in Europa. Basta pensare che in un'annata sola era in grado di lavorare 18 galeazze, 10 galere "bastarde" e 138 galere "sottili" per un totale di 60.00 tonnellate di legname!
Il legname era una delle discriminati maggiori per la qualità di una imbarcazione. Tra i legnami dedicati alle parti più delicate della nave(gli alberi, le antenne, il fasciame e le pulegge) venivano prediletti il legno di noce, abete e quercia, mentre per altre parti (come ad esempio paratie, ponti e scale) si utilizzavano pioppo, olmo e faggio.
Tutti coloro che lavoravano nei cantieri navali veneziani (calafati, maestri d'ascia fonditori e calatori), avevano l'uso di tramandare alle generazioni successive la propria arte, il cui perfezionamento creava il divario di qualità tra le flotte cristiane e quelle musulmane. Quando l'unione occidentale verrà messa ancor più in discussione con la divisione tra protestanti e cattolici, molti ingegneri olandesi ed inglesi, grazie agli alti stipendi promessi, andarono a realizzare opere navali nei cantieri di Istanbul.
Nonostante questo, il "gap" qualitativo tra le flotte da guerra veneziane e quelle turche non fu mai veramente colmato dagli islamici.
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La battaglia navale

La tecnica, nelle battaglie tra galee, era assai semplice: si tentava di speronare l'avversario, o di frantumare i remi dell'imbarcazione nemica, una volta immobilizzata, la nave era preda del tiro degli archibugieri e dei balestrieri avversari. Quando le armi da tiro avevano scaricato gran parte delle munizioni, partiva la fase d'abbordaggio vera e propria, effettuata tramite rampini che avvicinavano le navi e permettevano l'uso di ponti mobili per lo "sbarco". La fase successiva all'abbordaggio era sicuramente quella più cruenta. Molti combattimenti si riducevano ad una carneficina senza quartiere, determinata dagli angusti spazi; inoltre, molti di coloro che cadevano feriti in mare, finivano affogati spinti a fondo dalle loro pesanti armature. Differenza fondamentale tra i le linee turche e quelle cristiane era quella che, se gli occidentali contavano anche sul supporto militare dei rematori, questo non poteva avvenire nelle navi turche, dove la maggior parte dei rematori erano cristiani.
Per quanto riguarda l'artiglieria, si tratta ancora di una fase evoluzionistica per le marine militari. I pezzi d'artiglieria erano disposti a prora e per chiglia, ma non essendo spostabili sparavano solo in direzione di rotta. Le artiglierie erano generalmente composte da tre a sei pezzi, per nave, da 50 l'uno (la misura è il peso in libbre del proiettile che sparava il pezzo). Si tratta di batterie assai inferiori per potenza di fuoco se paragonate ai futuri velieri, che utilizzando le due murate per disporre i cannoni avevano a disposizione molta più potenza di fuoco.
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La battaglia di Lepanto - Dipinto anonimo
Tutto quanto detto finora, rientra sempre nell'ottica della flotta cristiana, in quanto, le artiglierie musulmane dopo l'assedio di Costantinopoli, erano diventate di numero ridotto e di qualità assai scadente.
Oltre alle galee, le galeazze, furono le vere sorprese della battaglia di Lepanto. Più "alte" delle galee, e con numerose artiglierie disposte anche sulle murate, vennero usate per bersagliare le navi ottomane ad una distanza dalla quale era difficile rispondere, e successivamente dopo essere state spostate a rimorchio (troppo pesanti per essere manovrate da sole) dalle altre galee, vennero utilizzate come corpo di "artiglieria galleggiante".
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Le armi da fuoco

La chiave di volta della sconfitta islamica nelle acque di Lepanto va individuata oltre il solo valore dei combattenti cristiani. La tecnologia militare occidentale aveva nettamente surclassato quella orientale, divenendo decisiva.
Le linee cristiane infatti, disponevano di affidabilissime artiglierie, provenienti dalle fonderie germaniche, che assicuravano maggiore penetrazione e precisione, ed erano di qualità sicuramente superiore a quelle turche. Gli stessi artiglieri europei avevano alle spalle una preparazione specializzata nell'uso delle macchine da guerra di cui non disponevano né i loro colleghi turchi, né i loro ufficiali, spesso inadeguati a quel tipo di ruolo.
Ma la superiorità cristiana non si fermava alle armi da fuoco. Il combattente di marina europeo utilizzava protezioni contro le quali gli efficientissimi archi turchi poco potevano. Le tondeggianti e resistenti protezioni europee garantivano la salvezza dai dardi islamici e permettevano liberamente ogni tipo di movimento.
Per quanto riguarda l'attrezzatura offensiva, gli occidentali utilizzavano balestre ed archibugi (in misura minore) per il combattimento a distanza, mentre per il corpo a corpo si servivano di alabarde, asce, spiedi e spade a lama larga.
Confrontando gli armamenti appena descritti con l'antiquata attrezzatura turca (la cui peculiare arma da distanza era rappresentata dall'arco composito), si può facilmente immaginare lo svolgimento dei combattimenti e le motivazioni di una così schiacciante disfatta per la flotta della "Sublime Porta".
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Le forze in campo

Le forze erano così divise: 210 imbarcazioni per i cristiani, per un totale di 80.000 uomini, di cui 30.000 combattenti e 50.000 tra marinai e rematori. Le imbarcazioni erano di varia nazionalità, proprio per rappresentare al meglio le forze della Lega Santa. Vi erano infatti galere spagnole, genovesi, pontificie e sabaude, oltre alle prime galeazze veneziane, dotate dell'artiglieria che avrebbe influenzato le battaglie navali del futuro.
I turchi rispondevano con una flotta da 265 navi, con 221 galere, 38 galeotte e 18 fuste al comando di Mehmet Alì Pasha.
Va notato come la "propulsione" delle navi turche fosse composta esclusivamente da schiavi cristiani, ai quali non venivano risparmiati torture e maltrattamenti prima delle battaglie. Differente fu il comportamento di Don Giovanni D'Austria, il quale, dopo aver distribuito elmi, corazze ed armi a tutti i rematori, aveva astutamente promesso loro la libertà in caso di vittoria.
Il ruolo dei rematori non può essere dimenticato assai facilmente, particolarmente in un conflitto dove erano protagonisti d'obbligo anche loro. Sta di fatto che, durante le fasi più dure della battaglia, alcuni gruppi di schiavi, liberatisi dalle catene, presero di mira i propri aguzzini turchi. Su alcune navi attaccarono gli islamici alle spalle, mentre su altre, sparsero del sego sui ponti per far scivolare i turchi quando tentavano gli arrembaggi alle navi cristiane.
Nelle acque di Lepanto (nel golfo di Patrasso) le flotte si divisero in grossi gruppi. Il comandante generale prendeva posizione nella più grande galera della flotta (detta reale), per farsi riconoscere meglio dalle proprie forze e manovrare con più cura. Vi erano comunque anche altre navi di importanza fondamentale, quelle dette "capitane", sulle quali stazionavano gli ufficiali responsabili di ognuno dei gruppi della flotta.
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Gli schieramenti

Le flotte avversarie si schierarono in direzione nord-sud per una lunghezza di circa 7 chilometri.
L'ala sinistra dei cristiani, la più vicina alla costa, era composta da 64 galee venete al comando di Agostino Barbarigo. Sull'ala destra, quella spostata verso il mare aperto, vi erano le 54 galee genovesi comandate da Giannandrea Doria. La posizione centrale era occupata da altre 64 galee ai comandi di Don Giovanni D'Austria per gli spagnoli, Sebastiano Venier per i veneziani e Marcantonio Colonna per i pontifici. In testa ad ogni settore, le galeazze veneziane avevano il compito di aprire lo scontro e di "disordinare" le linee avversarie con le loro artiglierie.
La disposizione Turca era praticamente speculare a quella cristiana. Alla destra si pose Mehemet Shoraq (detto "Scirocco") con 52 galee e 2 galeotte; alla destra Uluch Alì con 61 galee e 32 galeotte; al centro l'ammiraglio Alì con 87 galee e 2 galeotte.
La retroguardia cristiana, posizionata dietro il blocco centrale, era composta da 30 galee agli ordini del Marchese di Santa Cruz; mentre le retrovie turche erano formate da 8 galee.
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La battaglia

La cattura di Shoraq

L'immagine che abbiamo dello schieramento iniziale turco, ci fa pensare come l'intenzione ottomana fosse quella di sfruttare la superiorità numerica della propria ala sinistra (quella di Uluch Alì), nei confronti della destra cristiana (quella dei genovesi guidati dal Doria), per aggirare la flotta della Lega.
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Battaglia di Lepanto - Schieramento iniziale
Sta di fatto che la prima parte dello schieramento turco che si mosse fu l'ala destra guidata da Mehemet Shoraq, che tentò di incunearsi tra i veneziani del Barbarigo e la costa, per aggirare la sinistra nemica. La contromanovra veneta, che prenderà le imbarcazioni turche sul fianco, costerà la vita dello stesso capitano veneziano Barbarigo, ma distruggerà tutta l'ala dello "Scirocco" che verrà anche catturato.

La mischia attorno alle "ammiraglie"

Mentre la parte destra dello schieramento turco cade, le galeazze veneziane aprono il fuoco contro le navi turche, costrette ad accorciare le distanze, per non venire massacrate dall'artiglieria veneta. La nave ammiraglia turca dell'ammiraglio Alì, avanzò così tanto da speronare quella dello stesso Don Giovanni D'Austria, inaugurando un putiferio di imbarcazioni che giungevano, da ambo i lati, in soccorso dei propri comandanti.
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Battaglia di Lepanto - La mischia
Ma nonostante l'ardore profuso dai 400 giannizzeri che tentarono di conquistare la nave "reale" cristiana, gli archibugieri spagnoli ebbero la meglio. In aggiunta, con l'arrivo delle galee "Capitane" del Venier e di Colonna, la nave ammiraglia dei turchi fu presa e la testa dello stesso Alì fu issata sul pennone come monito per gli islamici. Senza più guida, il blocco centrale turco cede e viene sbaragliato. In queste fasi d'abbordaggio si copre di gloria il 75enne veneziano Venier, che combatte come un giovane leone ed è tra i primi a sfidare i dardi nemici.

Il sacrificio delle galeazze siciliane

Quando la battaglia è in corso le galee genovesi compiono una manovra che poteva mettere a repentaglio l'intero esito della battaglia. Trascinati forse dal vento o dalle correnti, le galee genovesi si allargarono ulteriormente verso il mare aperto, lasciando un varco dove Uluch Alì doveva affrontare solo le poche galee maltesi per poi ritrovarsi ad attaccare alle spalle l'intera flotta cristiana.
Ma proprio quando l'aggiramento era in dirittura d'arrivo, l'azione turca venne bloccata dall'estremo sacrificio del valorosissimo don Giovanni di Cadorna e delle sue galee siciliane, che si immolarono per dare il tempo alle galee di retrovia di accorrere.
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Battaglia di Lepanto - Verso la fine

La fine

A questo punto Uluch, per non richiare di venir stretto in una morsa dal Doria e dalle galee del centro che stavano accorrendo, decide di ritirarsi con le navi superstiti.
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Bilancio Finale

Il bilancio finale dello scontro di Lepanto è nettamente a favore dei remi cristiani.
Le perdite turche ammontarono a 25.000 morti, 30 galere affondate e 100 catturate. Sul fronte opposto, i cristiani, persero 7.500 uomini e 15 navi.
Le cifre danno la dimensione di quanto netta fosse stata la vittoria occidentale, ma forse non rendono ancora bene l'idea di quanto ampio fosse il divario tecnologico tra le due parti in conflitto.
Se infatti da una parte, quella turca, venivano ancora utilizzati gli archi e le protezioni per i membri armati dell'equipaggio erano piuttosto leggere, sul fronte cristiano la metallurgia proteggeva gli uomini con corazze ed elmi resistenti, e li dotava di armi da fuoco che avevano una efficacia sicuramente maggiore di quella turca.
Il conflitto, e la vittoria cristiana di Lepanto, risulteranno di vitale importanza per tutta la cantieristica europea. Ne è piena dimostrazione il fatto che, nei secoli successivi, le battaglie sul mare non saranno più combattute da scafi a remi, ma solo da scafi esclusivamente a vela.
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Le Conseguenze

La vittoria cristiana di Lepanto fu decisiva per l'intera comunità mediterranea dell'Europa. Se la fine ufficiale dell'impero Ottomano è databile al 1918, l'inizio della regressione dell'espansionismo islamico parte proprio dal 7 ottobre 1571.
Qualora le imponenti flotte turche fossero riuscite ad avere la meglio su quelle cristiane, gran parte dell'Italia (esclusa Venezia) sarebbe passata sotto l'egida ottomana, e col tempo anche il traffico marittimo che collegava la Spagna ai suoi domini imperiali si sarebbe fermato, portando la potenza turca ad un'espansione che nemmeno gli Asburgo sarebbero stati in grado di fermare. Francia e Principi luterani e calvinisti non sarebbero stati in grado di reggere l'urto da soli, la barriera del Danubio sarebbe stata facilmente superata, e l'intera storia europea dei secoli XVI-XX sarebbe stata mutata in maniera inimmaginabile.
In conclusione, Lepanto rappresenta lo scontro che decise il futuro di due culture incapaci di convivere pacificamente, ma soprattutto una delle poche occasioni storiche in cui, buona parte della comunità europea occidentale si è riunita sotto un'unica forza per sconfiggere un' avversario comune e garantirsi un futuro indipendente.

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