Il giorno di Natale di vent’anni fa moriva il filosofo francese di origine ebraica Emmanuel Lévinas. La sua filosofia, assieme a quella di Martin Buber, è molto accreditata all’interno del mondo intellettuale ed accademico cattolico. Su Avvenire del 22 dicembre, Silvano Petrosino glorificava Lévinas, portando a testimoni della sua grandezza Jacques Derrida e Martin Heidegger. E’ legittimo chiedersi se i due testimoni siano attendibili dal punto di vista cattolico e anche se lo sia la stessa glorificazione di Lévinas.
In ogni filosofo – più o meno – c’è del buono. Ma questo non vuol dire che quel filosofo sia buono, nel senso di consono, congruo, adatto, compatibile con la fede cattolica, la quale non solo esige di avere un rapporto serio con la ragione, ma anche di averlo con un certo tipo di ragione e non con altri. Nei confronti della ragione, la fede cattolica ha non solo delle esigenze parziali ma complessive. Non si accontenta di spunti ma vuole l’intera coerenza. Nella filosofia di Lévinas si possono trovare buoni spunti sul significato dell’altro inteso come nostro prossimo, come in Martin Buber si possono trovare nobili riflessioni sul tema della relazione Io-Tu o dell’incontro. La cosiddetta “filosofia dialogica” dei due pensatori ebrei è attraente ed apre squarci affascinanti sulla vita umana. Ci si chiede però se questo sia sufficiente per essere una filosofia adatta alle pretese della fede cattolica. Nella Fides et ratio non appaiono i nomi né di Lévinas né di Buber come esempi di pensatori affidabili.
Jacques Derrida, uno dei testimoni presi da Avvenire per glorificare Lévinas, sosteneva che “il senso è sempre prodotto”. Tesi ben più profondamente sostenuta, prima di lui, dall’altro testimone chiamato a deporre a favore: Martin Heidegger. Tesi, però, incompatibile con le pretese filosofiche della fede cattolica e decisamente contestata dalla Fides et ratio. Tesi che non si addice né alle esigenze della verità né a quelle della libertà umana.
Se il senso è sempre prodotto non può accadere mai niente di radicalmente nuovo nella storia umana e gli uomini sarebbero sempre avvoltolati dentro il gomitolo delle loro situazioni, sempre dentro i propri banchi di nebbia. Ma il Natale – giorno della morte di Lévinas ma anche della nascita di Nostro Signore - è proprio lì a ricordarci la possibilità del radicalmente nuovo, ossia dell’irrompere assoluto di un senso non prodotto. E siccome il Bambinello di Betlemme dirà di sé “Io sono il Primo e l’Ultimo” (Apocalisse, 1, 17), vuol dire che il senso viene prima di ogni nostra produzione di senso e, alla fine, ricapitolerà ogni nostra produzione di senso, dandovi compimento.
Il punto, allora, è il seguente: la filosofia di Lévinas accetta questa idea che ogni senso è prodotto? La mia risposta è sì. La sua filosofia si colloca dentro questa prospettiva in quanto accetta quanto Cornelio Fabro chiamava il “trascendentale moderno”. Si tratta dell’idea che l’uomo sia sempre dentro una relazione con le cose e con gli altri, relazione che lo precede e che lo costituisce. Privo, quindi, di trascendenza. Anche Petrosino su Avvenire lo dice: “il soggetto si trova fin dal principio e fino alla fine della sua avventura esistenziale coinvolto in una scena all’interno della quale egli gioca sempre e inevitabilmente il ruolo dell’attore e mai quello del semplice spettatore”. Facciamo parlare Lévinas: “L’uomo è sempre in situazione anche prima di essere situato”. La sua filosofia – egli dice – si colloca dentro “l’abbandono di un essere inteso come contenuto che caratterizza tutta l’ontologia contemporanea”. La verità per lui è “coinvolgimento”, l’essere è dialogo, “la consistenza dell’io si risolve in relazioni”, alla coscienza “nulla è esterno”, il “pensiero trae da sé tutto quello che viene dal di fuori”.
Come si vede da queste poche battute, il pensiero di Lévinas, pur nella sua ricchezza di spunti ed evocazioni, rimane dentro la negazione dell’accesso conoscitivo all’essere che, invece, è stato sempre presentato dal magistero come un presupposto fondamentale per una filosofia in armonia con la fede cattolica. Rimane dentro, in definitiva, a quanto teorizzato da Derrida: il senso è sempre prodotto. Se l’uomo è relazione e, quindi, coinvolgimento, egli rimarrà sempre “dentro” il contesto con cui è in relazione e in cui è coinvolto. Nessuna irruzione dal di fuori gli permetterà mai di alzare la testa.
Lévinas voleva fondare un’etica senza metafisica, ma l’esercizio della nostra libertà rimane privo di prospettiva adeguata senza apertura metafisica ad una verità trascendente. E tale apertura o c’è fin dall’inizio sul piano strettamente conoscitivo oppure non ci sarà mai. La trascendenza non è una dimensione che si possa conquistare a tappe. In questo caso il senso tornerebbe ad essere prodotto.
L’apertura alla trascendenza è un dono, che la nostra intelligenza scopre immediatamente nel proprio stesso esercizio. La metafisica sta all’inizio sia della dottrina della conoscenza che dell’etica, diversamente da quanto Lévinas sosteneva E proprio per garantire meglio un aspetto – quello del dono – su cui Lévinas e Buber hanno pure scritto pagine bellissime. Ma che nel loro pensiero rimane privo del fondamento ultimo.
Oggi si dice che il pluralismo teologico e filosofico sono non solo da accettare ma da valutare provvidenzialmente. Ma così non è: la fede cattolica non è teologicamente e filosoficamente indifferente. Viceversa Giovanni Paolo II si sarebbe potuto risparmiare di scrivere la Fides et ratio. Il discernimento filosofico coerente con la pretesa della fede continua ad essere un dovere per l’intellettuale cattolico. E per la valutazione servono altri testimoni che non Derrida ed Heidegger.
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