Natale non è eccezionale
La cultura secolarista affamata di modernità (e molti cattolici) cerca ogni anno motivazioni esterne che rendano straordinario il 25 dicembre. E’ così che si uccide il senso cristiano, cioè rituale, della festa
Un dettaglio della Natività coi Santi Lorenzo e Francesco d'Assisi del Caravaggio
Sul Natale non c’è niente da dire; non più di quanto i giornali sentano il bisogno di scrivere riguardo alla Pentecoste o all’Ascensione o alle svariate feste che si nascondono nelle pieghe del calendario e sfilano sotto l’indifferenza collettiva e il giustificato silenzio dell’informazione martellante. Un giornale dovrebbe dare notizie: a cosa serve che parli invece di una ricorrenza, ossia di un giorno il cui arrivo è tanto prevedibile da essere segnato in rosso e in cui si reitera stancamente ogni anno una lista di cose da fare – i regali, il panettone, gli auguri – da cui pagine sempre più stracche di quotidiani cercano di spremere qualcosa di diverso da raccontare al solito pubblico, o un modo diverso di raccontargli le solite cose?
ARTICOLI CORRELATI I kamikaze del 25 dicembre Il ritorno del sole La preparazione psicologica al Natale comincia adesso La stucchevole “superiorità etica” di chi critica i sostenitori del presepe a scuola Natale di canto e disincantoIntanto però tutti scrivono contro il Natale, per smania di dire qualcosa di memorabile su un argomento poco stimolante. Andiamo a spedire i biglietti augurali e la ressa ci schiaccia contro il bancone di un ufficio postale che nel resto dell’anno rimane deserto. Usciamo a fare due passi e quando lambiamo inconsapevoli la soglia di un negozio alla moda ci ritroviamo trasportati dal furore montante della folla in direzione opposta alle nostre intenzioni. In una corsia di supermercato valutiamo sovrappensiero quali biscotti comperare per la colazione dell’indomani e finiamo calpestati da masse fiere di ribadire l’egemonia sul panettone in via d’esaurimento. Allora rincasiamo e scriviamo un’intemerata contro il Natale consumistico, dicendoci disinteressati e certi di star rendendo un servizio alla società in declino richiamandola accoratamente allo spirito sincero della festa primigenia; del tutto ignari invece di star sotto sotto vergando l’accorata difesa delle tomaie delle nostre scarpe vittime dello scalpiccio incontrollato degli acquirenti, del nostro diritto a due metri quadri di respiro quando siamo in un ufficio pubblico, dei frollini frantumati all’impatto cogli avventori più esagitati. Scriviamo contro il Natale per dire che il Natale non è quello che tutti vivono ma quello che riteniamo che ciascuno dovrebbe vivere, o che almeno vorremmo vivere noi in santa pace.
Tale difesa del nostro diritto individuale camuffata da impegno sociale si esacerba entro gli ambienti intellettuali progressisti trasformandosi in assalto al nucleo stesso dell’essenza del Natale. Così come lo pensate e lo vivete voi – scrivono i soloni dell’erudizione umanistica e scientifica – il Natale non esiste. Andate alla messa di mezzanotte? Ebbene siete dei superstiziosi ignoranti che non hanno studiato storia antica e non sanno di star celebrando al solstizio d’inverno la festa del sole invitto, natura pagana sotto manto cristiano, anniversario naïf del periodo in cui inizia ad aumentare la luce quotidiana già simboleggiato da culture più antiche e radicate di quella cristiana – il culto di Mitra nell’antica Persia, ad esempio – con la nascita di un altro dio luminoso da un’altra madre vergine. Comprate regali ai vostri bambini? Peggio per voi, ricambieranno portandovi un ritaglio della Stampa in cui si spiega che Babbo Natale potrebbe depositare tutti i pacchi dono d’ordinanza solo e soltanto se volasse alla velocità della luce, stando allo studio di un gruppo di ricerca scandinavo (gli studi sull’inesistenza di Babbo Natale sono sovente scandinavi).
Esiste anche, per la verità, un’ala intellettuale moderata il cui precipuo interesse è consigliare a chiunque di regalare libri invece che fatuità, convinta così di nobilitare una festa che nacque come annuncio a pastorelli e oggi è ridotta a esortazione sui social network a stupire tutti donando a tappeto un saggio sulla svalutazione della rupia. Quest’ala moderata, ottimistica per costituzione e persuasa che la cultura migliori davvero le persone quando abbiamo sott’occhio fior di prove sperimentali avverse, non tiene presente che a Natale i libri non vanno regalati a dei poveri innocenti che magari desideravano un profumo o un balocco; vanno bensì nascosti sotto la giacca per eclissarsi a casa dei parenti, dire “scusate un attimo” e rintanarsi in un ripostiglio con qualcosa da fare nell’attesa che tutti sciamino via completamente dimentichi della nostra presenza silente.
Denudato, vilipeso, il Natale commentato riceve il massimo oltraggio nel mito del Natale eccezionale, che uccide il senso cristiano, ovvero rituale, della festa. Il Natale mette in difficoltà gli esegeti del 25 dicembre poiché si tratta di una ricorrenza ciclica, che regola i propri ritmi sull’eterno mentre la cultura secolarista, affamata di modernità, cerca di trovare ogni anno motivazioni speciali che rendano straordinario il singolo Natale incombente. In fin dei conti, bisogna venderlo. Quest’anno allora arriva il Natale del plenilunio, come non avveniva da trentott’anni e per la cui replica dovremo aspettare il 2034 senza domandarci se sia effettivamente eccezionale un evento che si ripete almeno tre volte al secolo e soprattutto se non sia eccessiva tutta quest’attenzione dedicata al plenilunio, senza nemmeno essere licantropi, in un periodo dell’anno in cui se tutto va bene generalmente è nuvoloso. Allora arriva l’eccezionale Natale dello stato di guerra: è la prima volta in cui i bambini più grandicelli, quelli sui dieci anni, scrivono a Babbo Natale di proteggerli dalle minacce terroristiche o direttamente di ricevere armi da immediata difesa; e noi leggiamo scossi le stentate letterine in stampatello che rendono questo Natale straordinario perché così diverso dai precedenti trascorsi nella bambagia, senza domandarci se non sia strano che dei bambini di dieci anni, grandi abbastanza da desiderare di maneggiare un fucile, credano a Babbo Natale abbastanza da scrivergli senza cercarne l’indirizzo su internet.
Denudato, vilipeso, il Natale commentato riceve il massimo oltraggio nel mito del Natale eccezionale, che uccide il senso cristiano, ovvero rituale, della festa. Il Natale mette in difficoltà gli esegeti del 25 dicembre poiché si tratta di una ricorrenza ciclica, che regola i propri ritmi sull’eterno mentre la cultura secolarista, affamata di modernità, cerca di trovare ogni anno motivazioni speciali che rendano straordinario il singolo Natale incombente. In fin dei conti, bisogna venderlo. Quest’anno allora arriva il Natale del plenilunio, come non avveniva da trentott’anni e per la cui replica dovremo aspettare il 2034 senza domandarci se sia effettivamente eccezionale un evento che si ripete almeno tre volte al secolo e soprattutto se non sia eccessiva tutta quest’attenzione dedicata al plenilunio, senza nemmeno essere licantropi, in un periodo dell’anno in cui se tutto va bene generalmente è nuvoloso. Allora arriva l’eccezionale Natale dello stato di guerra: è la prima volta in cui i bambini più grandicelli, quelli sui dieci anni, scrivono a Babbo Natale di proteggerli dalle minacce terroristiche o direttamente di ricevere armi da immediata difesa; e noi leggiamo scossi le stentate letterine in stampatello che rendono questo Natale straordinario perché così diverso dai precedenti trascorsi nella bambagia, senza domandarci se non sia strano che dei bambini di dieci anni, grandi abbastanza da desiderare di maneggiare un fucile, credano a Babbo Natale abbastanza da scrivergli senza cercarne l’indirizzo su internet.
Oppure, rincara l’ala progressista dei nemici del Natale, quello di quest’anno è eccezionale per una coincidenza cronologica di particolare significanza: per la prima volta nella storia la ricorrenza della nascita di Cristo secondo il nostro calendario annuale cade nello stesso giorno della commemorazione della nascita di Maometto secondo il calendario lunare islamico, con tutte le implicazioni multiculti su cui si scatena un Enzo Bianchi e a cui farà eco un’immancabile scuola intitolata a Gandhi o a Sai Baba o a Marilyn Monroe pronta a vantarsi – dove se no? sui famelici quotidiani timorosi di restare sguarniti sotto le feste – della diversità del loro Natale, in cui festeggiano anche gli alunni islamici e non solo, induisti scintoisti sikh e caodaisti, ciascuno mischiando nel calderone il proprio ramadan o capodanno cinese o navratri allo scopo di rendere speciale un Natale che, a lasciarlo soltanto quel che era nelle originarie intenzioni di Gesù Cristo, rischia di restare un giorno qualsiasi inavvertito. La pretesa di un Natale eccezionale per fraternità fra i culti è, dal versante teologico, il correlativo oggettivo di ciò che per gli studiosi di cronologia era Renato Pozzetto col suo “il Natale quando arriva arriva” detto addentando una fetta di panettone fuori stagione.
A rischio di sfogliare fra un anno quotidiani onusti di pagine rimaste bianche, ci tengo ad assicurare che scrivere contro il Natale non ha più senso perché il Natale è finito tempo fa; è diventato qualcosa d’altro, è migrato verso un passato comunemente etichettato come medioevo trasformandosi in una festa omonima che i secolaristi vivono come fastidio insopprimibile. Lo diceva già Chesterton nel 1933, puntualmente ripescato dalla rivista Tempi: “Il Natale deve andarsene! E’ letteralmente inadatto a questo grande futuro che si sta aprendo dinanzi a noi. Non è fondato sulla grande concezione comunitaria che solo nel comunismo può trovare la sua espressione finale. Non favorisce veramente una più alta, più salutare e più vigorosa espansione del capitalismo. Non ci si può aspettare che si adatti alle moderne speranze di un grande futuro sociale. Contraddice il pensiero moderno ed è un ostacolo al progresso moderno”. L’ideale sarebbe che nella generale indifferenza e nella consueta insipienza dell’informazione in materia ecclesiastica si riformasse zitti zitti il calendario liturgico e si spostasse il Natale in un periodo meno inflazionato – facciamo il 18 febbraio? il 3 ottobre? – così come qualche custode mattacchione delle istituzioni patrie proporrebbe di salvaguardarle spostando la capitale in un centro meno tentatore di Roma, che so, a Trento.
Immagino e pregusto noi cattolici felici di tornare nelle catacombe, con gli occhi che brillano incontrando i nostri correligionari che all’uscita da una messa deserta ci fanno gli auguri in silenzio, ammiccando per non farsi scoprire, mentre i giornali tacciono e tutti stiracchiano lavorando una giornata feriale frammezzo alle cifre nere sul calendario. Poi quando l’anno volgerà al solstizio d’inverno e all’inizio di dicembre tutto già sarà stato invaso dalle luminarie intermittenti, dall’erezione di abeti sponsorizzati, da Babbi Natali gonfiabili semoventi e piste di ghiaccio; quando verremo nuovamente schiacciati alla posta, calpestati davanti ai negozi e frantumati al supermercato; quando sui giornali verrà di nuovo spiegato che la data del Natale è una convenzione dovuta al sole invitto e che secondo un più approfondito studio scandinavo si può ragionevolmente escludere che le renne volino; quando sugli almanacchi saranno stati scovati gli elementi che renderanno il Natale presente più unico di quello passato ma meno di quello a venire; quando le pagine di bon ton porranno il problema se sia buona educazione rivolgere alle amiche single un invito a trascorrere le feste in compagnia o lasciarle a languire sole per giornate vuote interminabili coerentemente col diritto alla libera espressione delle loro scelte sentimentali; allora, quando per strada verremo assaliti da un cronista che pur di sfangare il numero minimo di caratteri per il pezzo ci intervisterà domandandoci come trascorreremo il Natale, potremo serenamente rispondergli: “Non lo festeggio, sono cattolico”.
di Antonio Gurrado | 24 Dicembre 2015
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.