QUELLO CHE FA TALE IL CRISTIANO
Quel che fa tale il cristiano è la fede non l’etica o l’impegno sociale. Molti cristiani hanno fatto proprie senza neppure avvedersene delle prospettive storiche del mondo moderno la cui essenza è però ateistica e anticristiana di Francesco Lamendola
«Quel che fa il cristiano è la fede, non l’etica o l’impegno sociale»: parrebbe una verità così ovvia, da non esservi alcun bisogno di affermarla in modo esplicito; eppure, se Vittorio Messori non l’avesse formulata con questa chiarezza, molti cristiani, o sedicenti tali, potrebbero anche seguitare ad ignorarla e a spacciare per “cristianesimo” quello che cristianesimo non è.
L’etica e l’impegno sociale sono cose belle, bellissime; indicano un animo nobile, uno spirito generoso: ma non sono l’essenza del cristiano. L’essenza del cristiano è la fede. Inutile dire che il cristiano non è, di per se stesso, un santo: come uomo (o come donna) può anche essere una natura mediocre, pavida, egoista; ma non è dalla vita senza macchia che lo si riconosce (sarà Dio, semmai, a giudicarlo), né dalla profusione dell’impegno sociale, pur se in queste cose può tralucere la bellezza della sua fede. L’essenza del cristiano è nel fatto di credere: di credere in Dio, unico Signore del Cielo e della terra, creatore di tutte le cose, visibili ed invisibili; nel suo Figlio unigenito, Gesù Cristo, fattosi uomo per amore degli uomini, morto sulla croce, sepolto e risorto per la loro salvezza; e nello Spirito santo, che permea l’intera creazione con il suo soffio potente e vivificante, e che aiuta, incoraggia, sostiene gli esseri umani nel loro pellegrinaggio terreno, li indirizza verso il bene e li conferma nella loro fede, che è anche fede nella vita eterna e nel ritorno finale a Dio.
Da alcuni decenni, però, e specialmente dopo il Concilio Vaticano II, molte cose, forse un po’ troppe, sembrano essere cambiate, non solo tra i fedeli, ma anche nella stessa gerarchia della Chiesa, fra i vescovi, fra i teologi, fra alcuni membri del clero diocesano: sempre meno si parla della fede e sempre più si parla dell’etica cristiana e dell’impegno sociale dei cristiani; come se queste cose, pur – lo ribadiamo – nobili e legittime, costituissero, di per sé, l’essenza del cristianesimo. Perfino dell’etica, se ne parla sempre più in termini puramente umani: non si parla più del Bene e del Male, ma dei beni e dei mali che l’uomo incontra nella sua vita, che può realizzare con le sue scelte, che può riconoscere con le sue sole forze. Sempre meno si parla del peccato, e meno ancora del Peccato originale: pare che il cristiano “adulto” sia capace, se lo vuole davvero, di operare il bene e di evitare il male, e di farlo secondo il suo buon senso e la sua coscienza, quasi senza bisogno di rivolgersi a Dio, senza chiedere a Lui aiuto e consiglio, senza affidarsi a Lui per supplire all’umana fragilità e corroborarla col dono soprannaturale della Grazia.
Quanto all’impegno sociale, si direbbe che lì, e quasi soltanto lì, si riconosca se un cristiano è veramente tale: se è sensibile e sollecito ai bisogno della comunità, se si prende a cuore le difficoltà dei più bisognosi (magari giudicati secondo un criterio di visibilità e di spettacolarità, e non di reale urgenza), se si impegna in politica e nella pubblica amministrazione. Non già se si impegna sui temi etici: l’aborto, l’eutanasia, i matrimoni omosessuali; semmai, si presume che si impegni a favore di tali opzioni, o, quanto meno, che si mostri benevolmente intenzionato a tollerarle, in maniera più o meno tacita, dando per scontato che il numero fa la giustizia e che quanto viene approvato dal Parlamento non deve più essere posto in discussione: no, non su queste cose, ma sui temi della povertà, preferibilmente degli stranieri, della giustizia, preferibilmente in senso neo-marxista, e della rivendicazione dei diritti, possibilmente in chiave populista e femminista. Per fare un esempio: quei cristiani che non hanno mosso un dito per soccorrere le famiglie che vivono il dramma di un disabile grave, o di un malato terminale, o di un demente fisicamente pericoloso, o che sono ridotte alla miseria dalla perdita del posto di lavoro, o che lottano eroicamente per tenere in piedi il matrimonio dei coniugi e il rapporto tra genitori e figli, si sdilinquiscono, si agitano e si mobilitano massicciamente per soccorrere gli stranieri che entrano clandestinamente, a decine di migliaia, nel nostro Paese, sfruttando l’arma del ricatto morale e impietosendo gli organi d’informazione con il pericolo dell’annegamento nei mari antistanti le nostre coste; o davanti alle coppie omosessuali che rivendicano la pari dignità delle loro unioni con il matrimonio vero e proprio; o davanti alle donne ingiustamente discriminate perché le quote rosa non sono ancora sufficienti ad instaurare, per legge, la perfetta parità numerica in Parlamento; o per le donne “costrette” ad abortire; o per i familiari che vogliono la sospensione delle cure per un loro congiunto clinicamente inguaribile.
Il senso di tutto ciò è che un cristiano moderno deve essere “maturo”, “adulto” e “responsabile”;: deve far vedere di non essere secondo a nessuno in quanto a senso etico e a impegno sociale, non in quanto animato dalla fede cristiana, ma sullo stesso piano, immanentistico e materialistico, su cui si muovono le persone di estrazione laicista, tutte protese a “migliorare il mondo” e totalmente dimentiche, o contrarie, all’idea che la condizione umana sia bensì perfettibile, ma non suscettibile di giungere alla perfezione, tanto meno con le sole forze dell’uomo; insomma un cristiano che sia capace di gareggiare con la società edonista, efficientista e utilitarista, sul suo stesso terreno, facendo propria la sua prospettiva e vergognandosi un poco della propria, così come della propria identità e, in ultima analisi, della propria Speranza ultraterrena.
Strano che nessuno, o troppo pochi, si siano accorti che, da quando la Chiesa postconciliare ha imboccato questa strada, da quando furoreggiano uomini di Chiesa come il cardinale Martini, o imperversano teologi come Küng e Mancuso, tutti impegnati a “umanizzare” il messaggio cristiano, cioè, in buona sostanza, a spogliarlo della sua dimensione soprannaturale, della Grazia divina, della presenza dello Spirito santo; da quando si agisce freneticamente, ma si prega sempre di meno e sempre meno si crede al sacrificio dell’Eucarestia; da quando ci si è caricati di tutti i problemi sociali, politici ed economici di questo mondo, ma si è smesso di adorare e predicare Gesù Cristo, Figlio di Dio e Dio egli stesso, i seminari si sono letteralmente svuotati, i conventi si sono fatti deserti, le parrocchie sono rimaste abbandonate a se stesse, e i pochi preti rimasti si barcamenano ciascuno fra due o tre, mentre il catechismo è diventato una formalità per accedere alla Comunione e alla Cresima, viste come eventi mondani e consumisti e non più come Sacramenti, e le prediche di molti parroci sono diventate sempre più simili a dei comizi profani, nei quali si parla di tutto un po’, ma sempre meno di Dio, del Bene e del Male, del peccato, della conversione, della confessione, della penitenza, della redenzione, del mistero dei Novissimi: morte, giudizio, Inferno e Paradiso.
Scriveva Vittorio Messori (in «Qualche ragione per credere», Milano, Mondadori, 1997, pp. 15-19):
«… Sai bene anche tu che, dalla fine del Concilio Vaticano II, i battezzati, i praticanti, i preti, le suore sono sempre di meno; e i documenti, i convegni, i dibattiti sempre di più. Ebbene, nell’alluvione di parole scritte e parlate che tracimano da tutti i livelli della Gerarchia e dagli infiniti uffici della nuova burocrazia clericale non si fa che proporre comportamenti che derivano dalla fede, dando questa per scontata. Troppo spesso si fa della “morale”, quando non del moralismo, mettendo tra parentesi la fede, come fosse un dati acquisito.
Si parla di “cristianesimo”, ma non ci si interroga sul Cristo. Proprio adesso che credere – soprattutto nel senso per noi pieno, “cattolico” – è diventato l’anticonformismo per eccellenza, quasi nessuno viene incontro con “qualche ragione per credere” a chi si ostina a prendere ancora sul serio il vangelo.
Sai bene che, nei seminari, per quei non molti che ancora li frequentano, hanno addirittura abolito (o, nei casi migliori, trasformato in qualcosa di vago e inefficace, come i risultati mostrano) quella che si chiamava “apologetica”. E, cioè, la difesa della dignità dell’intelligenza del credente; lo sforzo per cercare di mostrare che CREDENTE non è sinonimo di CREDULO; néCRISTIANO diCRETINO, malgrado abbiano (e, secondo me, è motivo di fierezza) la stesa etimologia:CHRÈTIEN che, non a caso nel Settecento illuminista francese, si trasforma in CRÉTIN. […]
[Talvolta, il cristiano] è un moralista innocuo e un po’ lagnoso: uno che esorta a crociate contro la pornografia, che si commuove sempre e comunque parlando di famiglia e bambini, che raccomanda di non abbandonare né vecchi (pardon, anziani…), né cani e gatti quando si va in vacanza, che si indigna della violenza in Tv, che perseguita i fumatori e si intenerisce per i drogati, che predica contro il consumismo, che di fronte a ogni problema esorta a “dialogo” o “solidarietà” o che auspica “riforme” o “interventi legislativi”, che crede doveroso fare il guastafeste parlando sempre e comunque di “Terzo Mondo” e di “barriere architettoniche”, che si adegua all’ipocrisia dell’eufemismo per tentar di rimuovere il dramma del male cambiando le parole (storpi, dementi, deformi diventano “persone diversamente dotate”…), che organizza la raccolta della carta da riciclare e il banchetto in piazza per raccogliere offerte per la ricerca su malattie alla moda… […]
[Per reagire a questa prospettiva] ribadiamo subito una gerarchia di valori che è fondamentale, ma che sembra sovvertita in certa catechesi tutta “morale” e “socialità”: ciò che “fa” il cristiano è la FEDE, non l’ETICA o l’IMPEGNO SOCIALE, che non sono che effetti di quella causa. Il tuo parroco non cesserebbe cristiano, cattolico, se vivesse nel modo meno morale e meno “engagé”; cesserebbe di esserlo se non annunciasse più il vangelo secondo il dogma e la Tradizione ella Chiesa. Lo Spirito santo garantisce,[…] Del resto, è una situazione su cui Gesù stesso aveva avvertito: “Non fate quello che fanno!”; ma, al contempo, “quanto vi dicono, fatelo e osservatelo” (Mt. 23, 3).
Non è vero che “basta comportarsi bene” per essere cristiani: se non “crediamo bene” non sappiamo neppure distinguere il bene dal male. Quanti “filantropi” si impegnano – con generosità, in buona fede – in cause che a viste umane sono eccellenti e che sono invece errate e dannose nella prospettiva evangelica! Quanti “volontari” rischiano di essere più dannosi che utili a coloro che, pur con slancio altruistico, si vorrebbero aiutare!
“Bien penser pour bien agir”, pensare bene per agire bene, diceva Pascal. O la fede precede l’impegno, o non c’è più cristianesimo: per parlare difficile, non c’è “orto prassi” senza “ortodossia”, è il PENSIERO che deve guidare la VITA. Per questo, per il vangelo, la maggiore e prima delle carità è l’annuncio della verità. nel papa, il “vicario di Cristo”, l’ortodossia dell’insegnamento, non l’illibatezza dei costumi.»
Questo linguaggio è troppo duro, per i delicati e sensibili padiglioni auricolari dei cattolici dell’impegno, progressisti, modernisti, e, naturalmente, “adulti” e “maturi”? Pazienza.
Il fatto è che molti cristiani hanno fatto proprie, senza neppure avvedersene, le categorie mentali e la prospettiva storica del mondo moderno, la cui essenza è ateistica e anticristiana. In ultima analisi, il loro problema fondamentale è il seguente: non accettano l’esistenza del male. Li scandalizza; lo trovano intollerabile. Come san Pietro che dice a Gesù: «Ciò non ti avvenga mai», dopo che Lui gli ha annunciato la sua Passione ormai vicina, essi non accettano di dover seguitare a vivere in mondo dove ci sono il disordine, il male e la sofferenza. Vogliono eliminare tutte queste cose cattive: non ne vedono l’utilità, non ne riconoscono il valore. Non pensano che nella sofferenza, nella malattia e nella prospettiva della morte vi è una immensa carica di rigenerazione, un immenso potenziale di spiritualità. Da bravi ometti del Terzo millennio, tutti nutriti di cultura dei diritti e di mentalità illuminista e positivista, hanno dichiarato guerra alle catastrofi, ai terremoti, alle carestie, ai tumori, alla povertà, all’analfabetismo, al lavoro dei bambini (anche se necessario al sostentamento delle famiglie), al maltrattamento dei minori (compreso un meritatissimo ceffone che un padre volesse affibbiare al figlio debosciato), alle guerre, alle rivoluzioni (a meno che siano di sinistra), al reato di immigrazione clandestina, al femminicidio (ma non all’androcidio), al razzismo, all’antisemitismo (vero o presunto), all’imperialismo, al revisionismo, al negazionismo (inteso anche come semplice contestazione delle cifre ufficiali sull’Olocausto), al complottismo, alle barriere architettoniche, al Crocifisso nei luoghi pubblici (vedi le recenti sparate del vescovo di Padova, monsignor Cipolla), alle canzoni di Natale, al Presepio e ad ogni forma di discriminazione, vera o presunta, nei confronti di chicchessia (chi sono loro per giudicare due omosessuali che si vogliono sposare e desiderano adottare dei bambini?). Saranno anche dei bravi ometti, ma dubitiamo che siano pure dei cristiani. Perché il cristiano si riconosce dalla fede, che è amore di Dio e del prossimo; non dal buonismo…
Quel che fa tale il cristiano è la fede; non l’etica o l’impegno sociale
di Francesco Lamendola
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