Ho trovato in rete un solo articolo critico (1). Un articolo in cui si ricorda il suo tenace ed ossessivo antifascismo, che considerava tutt’uno con il nazismo. Un minimo di senso della realtà storica avrebbe dovuto separare i due movimenti: fascismo dal nazismo. Il secondo non essendo esportabile fuori dalle popolazioni germaniche. Mentre il primo è ancora ben vivo e vegeto in molte nazioni, sia pure sotto mentite vesti. Nessuno lo dice ma in Cina vige un sistema politico nazional-fascista, come in molti paesi usciti da un recente passato di regime comunista.
Dice Scianca: Eco «odiava quelli .. che non sono di sinistra, che non sono antifascisti. Ci odiava perché l’odio è stato la cifra del suo impegno metapolitico. Un odio mai triviale, si badi, bensì raffinato, colto, ironico. Il peggiore. C’è anche grandezza intellettuale, in questo odio, ovviamente, grandezza che non si può minimamente sottrarre a un personaggio che ha saputo incarnare un idealtipo sociale, anzi, forse ha persino contribuito a crearlo: se noi oggi immaginiamo l’intellettuale democratico, il firmatore inesausto di petizioni, la firma tagliente che stabilisce il bene e il male tramite dotte citazioni e sofisticati giochi di parole, il progressista disprezzatore del popolo che non è alla sua altezza – ecco se immaginiamo questo tipo umano, noi oggi inevitabilmente ricreiamo mentalmente l’immagine di Umberto Eco, e lo facciamo anche qualora non l’avessimo mai conosciuto, perché egli ha saputo dare il suo volto a una figura tipica.
Non poteva mancare la sua firma, quindi, nella “lettera di autodenuncia” pubblicata nell’ottobre 1971 dal quotidiano Lotta Continua … : «”Quando i cittadini … affermano che in questa società ‘l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe’, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono ‘se è vero che i padroni sono dei ladri, è giusto andare a riprendere quello che hanno rubato’, lo diciamo con loro. Quando essi gridano ‘lotta di classe, armiamo le masse’, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a ‘combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento’, ci impegniamo con loro”. Ma Eco non impugnerà mai le armi, preferendo … la“guerriglia semiologica”, come lui stesso dichiarava in un seminario con questo titolo tenuto nel 1967 a New York.…Eco spiegava che “il pensiero è una vigilanza continua, uno sforzo per discernere ciò che è pericoloso anche in circostanze e discorsi in apparenza innocenti”. .. Il 24 aprile del 1995, invece, tenne alla Columbia University di New York, nell’ambito delle celebrazioni per la “liberazione dell’Europa dal nazifascismo”, un famoso discorso in cui definiva i tratti dell’Ur-Fascismo, ovvero del fascismo eterno, che si può presentare in qualsiasi forma. Il fascismo che è sempre tra noi, che si può celare ovunque. “L’Ur-Fascismo – diceva – è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse ‘Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane’. Ahimè, la vita non è così facile. L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo”. La missione dell’intellettuale è quindi quella di cercare, come un rabdomante, i filoni celati del fascismo eternamente ritornante.
E poiché il fascismo può essere ovunque, siccome può travestirsi, siccome il mimetismo è una delle caratteristiche con cui il fascismo normalmente si dà, allora tutti sono sospetti o sospettabili. E anche la negazione, alla bisogna, può essere interpretata come una affermazione rimossa, secondo un delirante abuso del freudismo. La cultura ridotta a crimonologia politica:una pietra miliare nella storia del libero pensiero.
Poiché il fascismo torna sempre ed è solito camuffarsi, poteva forse sfuggire all’accusa di essere il nuovo Mussolini quel Silvio Berlusconi che per vent’anni ha fatto ammattire (ed è forse la parte migliore del suo lascito politico) tutta la sinistra, soprattutto quella colta, sgomenta di fronte al fatto che il popolo se ne sbattesse di farsi guidare da tale élite illuminata? Eco avrà per Berlusconi una sorta di ossessione, non tanto, però, rivolta verso l’uomo, quanto verso la categoria antropologica che egli sosteneva fosse incarnata dal patron delle reti Mediaset. In un’intervista al Manifesto, il semiologo ben esprimeva questa tesi della superiorità antropologica della sinistra, pur trovando disdicevole che essa non fosse blindata e certificata attraverso un governo dittatoriale degli ottimati progressisti, che mettesse una volta tanto in riga questo schifoso popolo di evasori e di fascisti. “Il problema – diceva Eco – non è cacciare Berlusconi con un colpo di stato, contro il 75 per cento degli italiani, al quale in fondo le cose vanno bene così”. Sì, il 75%, ovvero “quella maggioranza naturalmente berlusconiana che non vuole pagare le tasse, ha voglia di andare a 150 chilometri all’ora sulle autostrade, vuole evitare carabinieri e giudici, trova giustissimo che uno se può se la spassi con Ruby, trova naturale che un deputato vada dove meglio gli conviene.” Bisognerebbe, invece, cambiare gli italiani in quanto tali attraverso “un’azione più profonda, di persuasione ed educazione”. Rieducare il popolo: stavolta senza gulag, però, basta una rubrica su L’Espresso. »
Per essere stato in gioventù un dirigente dell’azione cattolica, Umberto Eco ne ha fatta di strada!
Ma c’è un altro articolo (2) degno di nota. E’ un articolo di Ferraris, dove si vorrebbe tessere uno dei tanti elogi indirizzati ad Eco. Invece si dimostra la sua superficialità e l’insaziabile bisogno di stupire, ricorrendo anche a mezzi piuttosto meschini. L’articolo a sua volta ci fa ricordare un pezzo che appartiene alla serie delle tanto decantate “bustine di Minerva” (3), la serie in cui Eco fa un’esposizione estemporanea di pensieri che vorrebbero essere originali e taglienti.
Ogni tanto (2) negli incontri conviviali con allievi e simpatizzanti, come avviene sempre, si verificavano momenti di silenzio. Allora il maestro se ne usciva dicendo: “E poi, c’è quel problema della morte“. A New York, nel 2011, parlando con Putnam del carattere vincolante della realtà, diceva che la cosa veramente inemendabile, quello che nessuna vita potrà mai correggere, è la morte. La coscienza acuta di questa mortalità è stata, come spesso avviene, la vera musa, filosofica e no, di Eco. L’origine del suo incontenibile buon umore, anzitutto”.
Innanzitutto sembra che chi scrive non abbia un’idea molto concreta circa la morte, fatto ed argomento laicamente rimosso. Che la morte induca sic et simpliciter al buon umore rivela quantomeno una dose eccessiva di superficialità. Non si vede come si possa definire filosofo un personaggio così descritto.
Innanzitutto sembra che chi scrive non abbia un’idea molto concreta circa la morte, fatto ed argomento laicamente rimosso. Che la morte induca sic et simpliciter al buon umore rivela quantomeno una dose eccessiva di superficialità. Non si vede come si possa definire filosofo un personaggio così descritto.
Infatti se, sempre parlando della morte, andiamo a vedere l’articolo (3), di cui ho accennato sopra, troviamo le parole autentiche del maestro Umberto Eco: «Non sono sicuro di dire una cosa originale, ma uno dei massimi problemi dell’essere umano è come affrontare la morte. Pare che il problema sia difficile per i non credenti (come affrontare il Nulla che ci attende dopo?) ma le statistiche dicono che la questione imbarazza anche moltissimi credenti, i quali fermamente ritengono che ci sia una vita dopo la morte e tuttavia pensano che la vita della morte sia in se stessa talmente piacevole da ritenere sgradevole abbandonarla; per cui anelano, sì, a raggiungere il coro degli angeli, ma il più tardi possibile.
Un discepolo (Critone) mi ha chiesto: “Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?” Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Allo stupore di Critone ho chiarito. “Vedi,” gli ho detto, “come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani di ambo i sessi danzano divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, … imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente ….?
Un discepolo (Critone) mi ha chiesto: “Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?” Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni. Allo stupore di Critone ho chiarito. “Vedi,” gli ho detto, “come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani di ambo i sessi danzano divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, … imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente ….?
Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.
Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?”
Critone mi ha allora domandato: “Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?” Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.
Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta. Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire. Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media,… i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte.
E’ naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena (anzi, è splendido) morire.
Critone mi ha allora detto: “Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione”. “Vedi”, gli ho detto, “sei già sulla buona strada.»
Forse Eco era un filosofo che si prendeva qualche passatempo. Forse …
Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?”
Critone mi ha allora domandato: “Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?” Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.
Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta. Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire. Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media,… i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte.
E’ naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena (anzi, è splendido) morire.
Critone mi ha allora detto: “Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione”. “Vedi”, gli ho detto, “sei già sulla buona strada.»
Forse Eco era un filosofo che si prendeva qualche passatempo. Forse …
Note
1) Adriano Scianca. “Umberto Eco l’Ur-Antifascista che ridusse il pensiero a vigilanza democratica”, 22 febbraio 2016
2) Maurizio Ferraris, “Umberto Eco e la “musa” della morte”, 21-2-2016
3) Umberto Eco, La ‘Bustina di Minerva’ : ‘Come prepararsi serenamente alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo’. Ironica lettera a un discepolo immaginario che il semiologo scrisse nel 1997. Pubblicata sull’Espresso il 12 giugno 1997 Riportata sull’Espresso del 20 febbraio 2016 –
ECO FU SOPRATTUTTO IDEOLOGO
Ma Eco fu soprattutto ideologo. Mascherato Eco esprime quell'ideologia illuminista radical che traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il Nemico dal Capitale ai reazionari includendo cristiano-borghesi di Marcello Veneziani
Ma Eco fu soprattutto ideologo
di
Marcello Veneziani
L'Eco di quarant'anni fa torna a bussare in libreria. Lo ristampa Bompiani e viene riproposto col suo titolo anodino, Il costume di casa, e un sottotitolo allusivo: Evidenze e misteri dell'ideologia italiana negli anni sessanta. Il libro è assai istruttivo e non solo perché coincide con un'epoca cruciale che culmina nel '68 e poi si intristisce nei cupi anni seguenti. È un libro coevo, per capire il clima, alla firma di Umberto Eco apposta al manifesto di Lotta Continua contro il commissario Calabresi, poco dopo ucciso su mandato dei medesimi lottacontinuai. Pagine interessanti, non c'è dubbio, a tratti acute, da cui traggo quattro o cinque spunti utili per capire il presente. Parto da quel tempo. Negli anni sessanta c'era in Italia una vera borghesia, dignitosa e ipocrita, come è poi la borghesia, che aveva senso del decoro e della morale, un discreto amor patrio, un reverenziale rispetto per le tradizioni culturali e religiose, anche se talvolta fariseo. Le sue basi erano i costumi di vita ereditati, la buona educazione e alcune lezioni impartite dalla scuola del tempo.
Eco demolisce quei santuari ad uno ad uno: il senso della tradizione e dei buoni costumi, il senso religioso e il legame con la morale comune, la meritocrazia e “l'illusione della verità”. Auspica una “guerriglia semiologica” (in quegli anni erano parole di piombo), nega il rispetto del latino - “L'ossessione del latino è una manifestazione di pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: Voglio che anche i miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io, altrimenti non potranno ubbidirmi quando comando”- distrugge i buoni sentimenti e la sua scia retorica, che promanavano dal libro Cuore, libro di formazione di più generazioni che servì a edificare un sentire comune dell'Italia postunitaria e che per Eco è invece “turpe esempio di pedagogia piccolo borghese, paternalistica e sadicamente umbertina”; elogia Franti il cattivo e vede in lui il modello positivo dei contestatori, anzi di più, lo vede come ispiratore di Gaetano Bresci, l'anarchico che uccise all'alba del '900 Re Umberto a Monza. Capite che benzina Eco abbia gettato sul fuoco di quegli anni feroci. Il cattivo maestro Eco poi contesta il filosofo Abbagnano che elogia la selezione e il merito, sostenendo che la selezione sia solo una legge di natura da correggere con la cultura e la solidarietà e auspica “che non ci sia più una società dove predomina la competitività”. Declassa la religione a fiaba e suggerisce non di avversarla come facevano gli atei dichiarati ma più subdolamente di relativizzarla presentandola come fiaba tra le fiabe. Giudica impossibile un Picasso che dipinga l'Alcazar fascista come dipinse Guernica antifascista; dimenticando il filone futurista e fior d'artisti fascisti. (A proposito dell'uso politicamente ambiguo della pittura, cito l'esempio di Guttuso che riprodusse un suo manifesto fascista antiamericano degli anni '40 in un manifesto comunista antiamericano degli anni 60 in tema di Vietnam. Riciclaggio ideologico).
Eco poi si allarma, come Pasolini e altri, perché sta crescendo agli inizi degli anni settanta la cultura di destra in Italia, ci sono autori ed editori (Il Borghese, Volpe, la Rusconi diretta da Cattabiani). E le dedica uno sprezzante articolo, confondendo volutamente pensatori e picchiatori, “magistrati retrivi” (allora le toghe erano considerate protofasciste) e riviste culturali. Particolare l'acredine verso il suo concittadino alessandrino Armando Plebe, all'epoca approdato a destra ma di cui Eco nega perfino la provenienza marxista (Plebe fu invece l'unico filosofo italiano vivente a essere citato come marxista nell'Enciclopedia sovietica). Eco disprezza autori come Guareschi e Prezzolini, Evola e Zolla, Panfilo Gentile e “il risibile pensiero reazionario”. E fa una notazione volgare: “la nuova destra rinasce soltanto perché un certo capitale editoriale sta offrendo occasioni contrattuali convenienti a studiosi e scrittori, alcuni dei quali rimanevano isolati per vocazione, e altri non sono che arrampicatori frustrati”. Un'analisi così rozza e faziosa non l'abbiamo letta neanche nei volantini delle Brigate rosse. Fa torto al suo acume. E' come se spiegassimo la cultura di sinistra con i soldi venuti dall'Urss o le firme de l'Espresso-La Repubblica con i soldi di Debenedetti...
Eco avverte i suoi lettori che “il capitalismo come entità metafisica e metastorica non esiste”. Al fascismo, invece, Eco attribuisce entità metafisica e metastorica elevandolo a Urfascismo: il fascismo come eterna dannazione. Sul rapporto tra cultura e capitalismo la considerazione becera fatta sugli autori di destra si inverte quando invece si tratta di un autore “di sinistra”: anche se “ha un rapporto economico con i mezzi di produzione” lui non ne dipende, perché conta “il rapporto critico dialettico in cui egli si pone con il sistema”. Traduco: se la cultura di destra trova investitori è asservita al Capitale e lo fa mossa solo dai soldi; se la cultura di sinistra è finanziata dal Capitale, invece usa gli investitori ma non si fa usare e ha scopi nobili... Può vivere “di prebende largite da chi detiene i mezzi di produzione” perché quel che conta è “la presa di coscienza” (Io direi ben'altra presa...). Loro prezzolati, noi illuminati.
Il testo è utile perché rivela la matrice di Eco: prima che semiologo è ideologo. Mascherato. Esprime quell'ideologia illuminista radical che traghetta la sinistra dal comunismo al neocapitalismo, spostando il Nemico dai padroni ai fascisti, dal Capitale ai reazionari, in cui Eco include cristiano-borghesi e maggioranze silenziose. L'antifascismo assurge a religione civile, a priori assoluto nella lotta tra Liberazione e Tradizione, che sostituisce la lotta di classe.
Questo testo mostra le origini colte della barbarie odierna e della relativa intolleranza. Se viviamo in un'epoca che rigetta la cultura classica, l'amor patrio, le buone maniere, le buone letture, la meritocrazia, la scuola selettiva, forse non è frutto semplicemente del berlusconismo... Infine il testo di Eco dimostra che la destra viene demonizzata anche quando non si può ridurre al rozzo cliché dei picchiatori o dei prepotenti, o mutatis mutandis dei leghisti o dei berluscones. Ma si accanisce sprezzante anche sulla destra colta, i suoi libri, i suoi editori, scrittori e filosofi, oggi da cancellare ieri da eliminare; come accadde a Gentile, prototipo dell'intellettuale out. Un assassinio pensato in seno alla cultura e nutrito col fiele dell'ideologia. Il passato, a volte, echeggia.
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Il professor Umberto Eco scrive per la rinata Alfabeta un “alfabeto per intellettuali disorganici” in cui toglie a chi non è di sinistra pure il magro piacere di dirsi disorganico, scorretto e non allineato. E lo avoca a sé e ai suoi.
Che dice Eco nel suo vademecum per gl'intellettuali? Dice che le invettive contro gli intellettuali vengono sempre da destra e mai da sinistra. Confermo. Superando la nausea di usare ancora queste categorie del millennio scorso, osservo: sì, a destra c'è il gusto dell'invettiva, a volte anche del teppismo intellettuale, lo riconosco. Ma a destra si critica, si attacca, si stronca perfino, un libro o un intellettuale organico o potente. A sinistra invece si censura, si ignora, si condanna a morte civile. O se è un traditore, lo si caccia e lo si sconfessa, destinandolo alla damnatio memoriae; da Vittorini a Pansa, passando per una marea di casi. Quelli di destra avranno mille difetti ma leggono e criticano gli intellettuali di sinistra. L'inverso non accade: la sinistra, intellettuale e politica, ignora e cancella i non conformi o quelli che giudica perdutamente “di destra”.
Dante era di destra, dice Eco, e sentitamente lo ringrazio anche se mi ribello in cuor mio all'idea di ridurre un Grande a una parte. Ma non capisco perché liquidare chi ama Pound facendone la caricatura nella figura dello skinhead. O ritenere dissennato Evola che ha scritto opere possenti e fu apprezzato da giganti come Benn e Junger, Croce, Eliade e Guénon; criticatelo finché volete, non ne mancano i motivi, ma non era un demente o un invasato.
Eco compie poi un terribile autogol. Scrive che “il vero intellettuale è colui che sa criticare quelli della propria parte, perché per criticare il nemico bastano gli uomini dell'ufficio stampa”. Beh, ho letto svariati attacchi e battute di Eco contro Berlusconi e la destra, ma non ricordo una sola sua critica “alla propria parte”. E la stessa cosa vale per quasi tutti gli eminenti intellettuali della sua “parte”. Allora domando: Eco si è dimesso da intellettuale ed è stato assunto come ufficio stampa del Partito?
Fa un grande passo avanti Eco quando riconosce che gli intellettuali esistono anche a destra e svolgono da reazionari e da conservatori una funzione critica. Non fa nomi, Eco, fedele al negazionismo di cui sopra; si limita a citare Galli della Loggia che né lui né quelli di destra definirebbero di destra. Ma è già un bel passo avanti riconoscere perlomeno l'esistenza dell'Intellettuale Ignoto, reazionario e conservatore, riconoscerne lo spessore e la dignità, e ammettere pure che c'è un'insofferenza del potere nei suoi confronti.
Grillo Parlante è la definizione di Intellettuale che più piace a Eco. Ridurre l'intellettuale al ruolo di ficcanaso molesto, come vuole Eco, significa farne una specie di difensore civico o di petulante beppegrillo.
Penso ai grandi intellettuali del passato e non mi sento di ridurre il loro ruolo a insetti pinocchieschi come il grillo parlante. L'intellettuale vero è animato da passione di verità, è un'intelligenza attiva, scava, indaga, studia, appassiona e si appassiona, e a volte anche denuncia. Ma non si esaurisce allo sportello in difesa del consumatore. Intellettuale può essere solo una generica definizione di base, ma poi ci vuole altro per capire veramente il suo ruolo. Un intellettuale va definito per quel che fa: scrittore, scienziato, insegnante, filosofo, profeta, ricercatore, e via dicendo. Intellettuale è una basic definition che dice poco e nulla. Aboliamola.
Marcello Veneziani
http://www.ilcorrieredelleregioni.it/index.php?option=com_content&view=article&id=8088:eco-fu-soprattutto-ideologo&catid=121:lo-smemorato-siberiano&Itemid=152
UMBERTO ECO, QUEL RISO DISSACRATORIO DELL'ORDINE NATURALE E CRISTIANO DI UN APOLOGETA MANCATO
Il 23 febbraio 2016 si è svolto a Milano il “funerale laico” dello scrittore Umberto Eco, morto il 19 febbraio a 84 anni. Eco è stato uno dei peggiori prodotti della cultura torinese ed italiana del XX secolo. La sua ascendenza torinese va sottolineata perché il Piemonte è stato una fucina di grandi santi nel XIX secolo, ma anche di intellettuali laicisti e anti-cattolici nel ventesimo.
La “scuola torinese”, ben descritta da Augusto Del Noce, è passata, grazie all’influsso di Antonio Gramsci (1891-1937) e di Piero Gobetti (1901-1925), dall’idealismo al marx-illuminismo, mantenendo sempre la sua anima immanentista ed anti-cattolica. Nel secondo dopoguerra, questa linea culturale esercitò un’egemonia talmente forte da attrarre a sé non pochi cattolici. Umberto Eco, nato ad Alessandria nel 1932, dirigente diocesano a 16 anni dell’Azione Cattolica, era, come egli stesso ricorda, non solo un attivista, ma «un credente da comunione quotidiana».
Partecipò alla campagna elettorale del 1948 attaccando manifesti e distribuendo volantini anticomunisti. Collaborò quindi con la presidenza dell’Azione Cattolica a Roma, mentre studiava all’Università di Torino, dove si laureò nel 1954, con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino, poi pubblicata nel suo unico libro che valga la pena di leggere (Il problema estetico in san Tommaso, 1956).
È in quell’anno 1954 che egli abbandonò la fede cattolica. Come maturò la sua apostasia? Di certo essa fu ragionata, convinta e definitiva. Eco disse con irrisione di aver perso la fede leggendo san Tommaso d’Aquino. Ma la fede non si perde, si rifiuta e, alle origini del suo allontanamento dalla verità non c’è san Tommaso, ma il nominalismo filosofico, che è un’interpretazione decadente e deformata della dottrina tomista. Eco rimase fino alla fine un nominalista radicale, per il quale non esistono verità universali, ma solo nomi, segni, convenzioni. Guglielmo di Occam, il padre del nominalismo, è raffigurato in Guglielmo da Baskerville, il protagonista del suo romanzo più celebre, Il nome della rosa (1980), che si chiude con un motto nominalista: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus».
L’essenza della rosa (come di ogni cosa) si riduce a un nome; noi non abbiamo che nomi, apparenze, illusioni, nessuna verità e nessuna certezza. Un altro personaggio del romanzo, Adso, afferma che «Gott ist ein lautes Nichts», “Dio è un puro nulla”. Tutto in ultima analisi è gioco, danza sul nulla. Questo concetto è lo stesso di un altro romanzo filosofico, Il pendolo di Foucault (1989). Dietro la metafora del pendolo c’è un Dio che si confonde con nulla, il male, il buio assoluto.
Il vero pendolo del pensiero di Eco fu in realtà l’oscillazione tra il razionalismo assoluto degli illuministi e l’irrazionalismo dell’occultismo, della cabala, della gnosi, che egli combatté ma da cui fu morbosamente attratto. Se il nominalismo svuota la realtà del suo significato, l’esito inevitabile è infatti la caduta nell’irrazionale. Per uscirne non resta che lo scetticismo assoluto. Se Norberto Bobbio (1909-2004) costituisce la versione neo-kantiana dell’illuminismo torinese del Novecento, Umberto Eco ne incarna quella neo-libertina. Uno dei suoi ultimi romanzi, Il Cimitero di Praga (2010), è l’apologia implicita di quel cinismo morale che segue necessariamente all’assenza di vero e di bene.
Nelle oltre cinquecento pagine del libro non c’è un solo impeto ideale, né figura che si muova spinta da amore o idealismo. «L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala», fa dire Eco a Rachkovskij, uno dei protagonisti. E tuttavia, malgrado le figure spregevoli e i fatti criminosi di cui il libro è infarcito, manca nelle sue pagine quella nota tragica che sola può far grande un’opera letteraria.
Il tono è quello sarcastico di una commedia in cui l’autore si fa beffe di tutto e di tutti, perché l’unica cosa in cui veramente crede sono i filets de barbue sauce hollandaise che si mangiano da Laperouse al quais des Grands-Augustin, le écrevisses bordelaises o le mousses de Volailles del Café Anglais di rue Gramont, i filets de poularde piqués aux truffes del Rocher du Cancale in rue Montorgueil. Il cibo è l’unica cosa che esce trionfante dal romanzo, continuamente celebrato dal protagonista, che confessa: «La cucina mi ha sempre soddisfatto più del sesso. Forse un’impronta che mi hanno lasciato i preti». Non a caso, nel 1992, Eco fu ricoverato in ospedale e dato quasi per morto a causa di una colossale indigestione.
Eco è stato tecnicamente un grande giocoliere, perché si è preso gioco di tutti: dei suoi lettori, dei suoi critici e soprattutto dei cattolici che lo invitavano nei loro convegni alla stregua di un oracolo. Come per gioco, in occasione del referendum sul divorzio del 1974, egli rivolse ai divorzisti dalle colonne dell’Espresso, l’appello per una intelligente impostazione della loro campagna propagandistica con queste parole:
La “scuola torinese”, ben descritta da Augusto Del Noce, è passata, grazie all’influsso di Antonio Gramsci (1891-1937) e di Piero Gobetti (1901-1925), dall’idealismo al marx-illuminismo, mantenendo sempre la sua anima immanentista ed anti-cattolica. Nel secondo dopoguerra, questa linea culturale esercitò un’egemonia talmente forte da attrarre a sé non pochi cattolici. Umberto Eco, nato ad Alessandria nel 1932, dirigente diocesano a 16 anni dell’Azione Cattolica, era, come egli stesso ricorda, non solo un attivista, ma «un credente da comunione quotidiana».
Partecipò alla campagna elettorale del 1948 attaccando manifesti e distribuendo volantini anticomunisti. Collaborò quindi con la presidenza dell’Azione Cattolica a Roma, mentre studiava all’Università di Torino, dove si laureò nel 1954, con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino, poi pubblicata nel suo unico libro che valga la pena di leggere (Il problema estetico in san Tommaso, 1956).
È in quell’anno 1954 che egli abbandonò la fede cattolica. Come maturò la sua apostasia? Di certo essa fu ragionata, convinta e definitiva. Eco disse con irrisione di aver perso la fede leggendo san Tommaso d’Aquino. Ma la fede non si perde, si rifiuta e, alle origini del suo allontanamento dalla verità non c’è san Tommaso, ma il nominalismo filosofico, che è un’interpretazione decadente e deformata della dottrina tomista. Eco rimase fino alla fine un nominalista radicale, per il quale non esistono verità universali, ma solo nomi, segni, convenzioni. Guglielmo di Occam, il padre del nominalismo, è raffigurato in Guglielmo da Baskerville, il protagonista del suo romanzo più celebre, Il nome della rosa (1980), che si chiude con un motto nominalista: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus».
L’essenza della rosa (come di ogni cosa) si riduce a un nome; noi non abbiamo che nomi, apparenze, illusioni, nessuna verità e nessuna certezza. Un altro personaggio del romanzo, Adso, afferma che «Gott ist ein lautes Nichts», “Dio è un puro nulla”. Tutto in ultima analisi è gioco, danza sul nulla. Questo concetto è lo stesso di un altro romanzo filosofico, Il pendolo di Foucault (1989). Dietro la metafora del pendolo c’è un Dio che si confonde con nulla, il male, il buio assoluto.
Il vero pendolo del pensiero di Eco fu in realtà l’oscillazione tra il razionalismo assoluto degli illuministi e l’irrazionalismo dell’occultismo, della cabala, della gnosi, che egli combatté ma da cui fu morbosamente attratto. Se il nominalismo svuota la realtà del suo significato, l’esito inevitabile è infatti la caduta nell’irrazionale. Per uscirne non resta che lo scetticismo assoluto. Se Norberto Bobbio (1909-2004) costituisce la versione neo-kantiana dell’illuminismo torinese del Novecento, Umberto Eco ne incarna quella neo-libertina. Uno dei suoi ultimi romanzi, Il Cimitero di Praga (2010), è l’apologia implicita di quel cinismo morale che segue necessariamente all’assenza di vero e di bene.
Nelle oltre cinquecento pagine del libro non c’è un solo impeto ideale, né figura che si muova spinta da amore o idealismo. «L’odio è la vera passione primordiale. È l’amore che è una situazione anomala», fa dire Eco a Rachkovskij, uno dei protagonisti. E tuttavia, malgrado le figure spregevoli e i fatti criminosi di cui il libro è infarcito, manca nelle sue pagine quella nota tragica che sola può far grande un’opera letteraria.
Il tono è quello sarcastico di una commedia in cui l’autore si fa beffe di tutto e di tutti, perché l’unica cosa in cui veramente crede sono i filets de barbue sauce hollandaise che si mangiano da Laperouse al quais des Grands-Augustin, le écrevisses bordelaises o le mousses de Volailles del Café Anglais di rue Gramont, i filets de poularde piqués aux truffes del Rocher du Cancale in rue Montorgueil. Il cibo è l’unica cosa che esce trionfante dal romanzo, continuamente celebrato dal protagonista, che confessa: «La cucina mi ha sempre soddisfatto più del sesso. Forse un’impronta che mi hanno lasciato i preti». Non a caso, nel 1992, Eco fu ricoverato in ospedale e dato quasi per morto a causa di una colossale indigestione.
Eco è stato tecnicamente un grande giocoliere, perché si è preso gioco di tutti: dei suoi lettori, dei suoi critici e soprattutto dei cattolici che lo invitavano nei loro convegni alla stregua di un oracolo. Come per gioco, in occasione del referendum sul divorzio del 1974, egli rivolse ai divorzisti dalle colonne dell’Espresso, l’appello per una intelligente impostazione della loro campagna propagandistica con queste parole:
«La campagna per il referendum dovrà essere scevra di presupposti teorici, spregiudicata, immediata, volta a un effetto a breve scadenza. Diretta eminentemente a un pubblico facile preda di sollecitazioni emotive, dovrà vendere una immagine positiva del divorzio che ribalti esattamente gli appelli emotivi di parte avversa… I temi di questa campagna di « vendita » dovrebbero essere: il divorzio fa bene alla famiglia, il divorzio fa bene alle donne, il divorzio fa bene ai bambini… Da anni i pubblicitari italiani vivono un loro dramma di identità: colti e informati, si sanno oggetto di una critica sociologica che li indica come servi fedeli del potere consumistico… Tentano campagne gratuite per la difesa del verde e la donazione del sangue. Ma si sentono esclusi dai grandi problemi del proprio tempo, condannati a vendere saponette. La battaglia per il referendum sarà la prova della sincerità di tante aspirazioni civili più volte asserite. Basta che un gruppo di agenzie esperte, dinamiche, spregiudicate, democratiche, si coordini e si autofinanzi per sostenere una campagna del genere. Basta un giro di telefonate, due riunioni, un mese di lavoro intenso. Distruggere un tabù in pochi mesi è una sfida che dovrebbe far venire l’acquolina in bocca a ogni pubblicitario che ami il suo mestiere…».
Il tabù da distruggere era la famiglia, che, per un relativista come lui, non aveva nessuna ragione di esistere. La distruzione della famiglia in Italia, dal 1974 è proseguita, per tappe successive. Eco l’ha accompagnata con compiacimento, uscendo di scena alla vigilia dell’approvazione delle unioni omosessuali, che è l’esito conclusivo dell’introduzione del divorzio, quarant’anni prima. La famiglia naturale viene sostituita da quella innaturale.
Il relativismo celebra il suo apparente trionfo. Umberto Eco ha contribuito fortemente a quest’opera di dissacrazione dell’ordine naturale e cristiano, eppure ciò di cui egli dovrà rispondere non è tanto il male che ha fatto, quanto il bene che avrebbe potuto fare se non avesse deliberatamene rifiutato la Verità. A che serve ricevere quaranta lauree honoris causa e vendere trenta milioni di copie per un solo libro (Il nome della rosa), se non si guadagna la felicità eterna? Il giovane attivista di Azione Cattolica avrebbe potuto essere un san Francesco Saverio in quella terra di missione che oggi è l’Europa. Ma non accolse quelle parole che sant’Ignazio rivolgeva a san Francesco Saverio e che Dio fa risuonare in ogni cuore cristiano: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?»
Il tabù da distruggere era la famiglia, che, per un relativista come lui, non aveva nessuna ragione di esistere. La distruzione della famiglia in Italia, dal 1974 è proseguita, per tappe successive. Eco l’ha accompagnata con compiacimento, uscendo di scena alla vigilia dell’approvazione delle unioni omosessuali, che è l’esito conclusivo dell’introduzione del divorzio, quarant’anni prima. La famiglia naturale viene sostituita da quella innaturale.
Il relativismo celebra il suo apparente trionfo. Umberto Eco ha contribuito fortemente a quest’opera di dissacrazione dell’ordine naturale e cristiano, eppure ciò di cui egli dovrà rispondere non è tanto il male che ha fatto, quanto il bene che avrebbe potuto fare se non avesse deliberatamene rifiutato la Verità. A che serve ricevere quaranta lauree honoris causa e vendere trenta milioni di copie per un solo libro (Il nome della rosa), se non si guadagna la felicità eterna? Il giovane attivista di Azione Cattolica avrebbe potuto essere un san Francesco Saverio in quella terra di missione che oggi è l’Europa. Ma non accolse quelle parole che sant’Ignazio rivolgeva a san Francesco Saverio e che Dio fa risuonare in ogni cuore cristiano: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?»
http://www.iltimone.org/34350,News.html
La filosofia, la teologia e la volgarità arrogante di Umberto Eco
di Costanzo Preve - 21/02/2016Fonte: Arianna editrice Ripubblichiamo questo testo del compianto Costanzo Preve (ndr)
Teologia e filosofia per studenti della scuola dell’obbligo. Considerazioni su Joseph Ratzinger, Umberto Eco, Vito Mancuso e Telmo Pievani.
1. Umberto Eco ha concesso un’intervista al giornale tedesco Berliner Zeitung del 19/9/2011. Cito dal virgolettato riportato da “Repubblica”, 20/9/2011. Afferma Eco: “Ratzinger non è un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale. Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane, e nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole. In sei mesi, potrei organizzare io stesso un seminario sul tema del relativismo. Si può stare certi che alla fine presenterei almeno venti posizioni filosofiche differenti. Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto XVI, come se fossero una posizione unitaria, è estremamente naif”. 2. Ho conosciuto molti anni fa Umberto Eco in un seminario residenziale dei gesuiti all’Aloysianum di Gallarate. Era esattamente quello che sembra: un brillante e superficiale retore, che supplisce alla mancanza di profondità con un fuoco d’artificio di erudizione. Ma qui siamo alla vera e propria “boria dei dotti” di cui parla Vico (sia pure in un altro contesto), per cui persino Ratzinger è sottoposto alla correzione delle tesine con matita rossa e blu. Ho superato purtroppo da tempo l’età della scuola dell’obbligo. Ma voglio dire la mia. Affronterò prima il tema della teologia, e poi quello della filosofia. Dico subito che per me Ratzinger è un filosofo di primo livello, del tutto indipendentemente dal suo ruolo di papa e dal fatto che personalmente non sono in alcun modo una pecorella del suo gregge. 3. La religione cristiana non consiste affatto in teologia, ma semplicemente in Fede, Speranza e Carità. Di tutte e tre queste dimensioni, tendo a mettere al primo posto la Carità, e so di essere in buona compagnia. La cosiddetta “teologia” è semplicemente l’applicazione alla fede religiosa della terminologia concettuale della filosofia greca classica (e Platone ed Aristotele in primo luogo), e non è a mio avviso assolutamente necessaria per la pratica religiosa. Esattamente come l’epistemologia per la scienza, che non ne ha nessunissimo bisogno e che va comunque avanti per conto suo, nello stesso identico modo la pratica religiosa, individuale o collettiva, va avanti da sola senza teologia. Il bisogno di giustificare “teologicamente” la fede cristiana è un fatto storico emerso tra il XII ed il XIV secolo dopo Cristo in Europa occidentale (considero la patristica greca un caso diverso- lì non si trattava di giustificare, ma di comprendere meglio), come risposta ai nuovi bisogni culturali della civiltà comunale. Da allora si assiste a due processi culturali paralleli, che a volte si intrecciano, ma che bisogna tenere ben distinti. Da un lato, la pratica religiosa comunitaria è erosa dalla secolarizzazione individualistica, e questo viene impropriamente chiamato “eclissi del sacro nella società moderna”. Dall’altro, ed in modo assolutamente indipendente, l’argomentazione teologica viene erosa dalla critica scientifica di origine illuministica. I due processi sono del tutto distinti, ma i confusionari non riescono a distinguerli. 4. Esaminiamo ora il secondo processo, spesso impropriamente connotato come “laicismo razionalista”. Se per laicismo (ma sarebbe meglio dire laicità) si intende la separazione tra diritto pieno alla cittadinanza politica costituzionale e qualunque pratica religiosa ( professione di ateismo razionalistico), allora io stesso, che aborro il laicismo filosofico come fondamentalismo illuministico astratto mascherato, sono pienamente e convintamente laico. Ma non è questo il laicismo di Eco. Per capirne meglio la natura sono costretto ad aprire una parentesi filosofica apposita. 5. Il laicismo, che personalmente preferisco definire come “fondamentalismo illuministico”, si presenta come l’unico e vero discorso filosofico della modernità (cfr. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza 1987). Habermas connota la modernità come abbandono della pretesa metafisica della conoscenza e della valutazione della totalità, ed è chiaro che qui siamo di fronte a un parricidio nei confronti del suo maestro Adorno, tanto migliore di lui (valutazione mia, CP). In questo modo Kant diventa il primo e anche l’ultimo vero autore moderno, mentre sia Hegel che Marx vengono esplicitamente connotati come “pre-moderni”, e cioè come metafisici secolarizzati della totalità. Devo personalmente ringraziare Habermas per la sua chiarezza, perché leggendo il suo saggio ho finalmente capito che non solo personalmente non ero “moderno”, ma non mi sarebbe mai più importato nulla essere considerato tale. Vale invece la pena individuare il nucleo di questa modernità laica, e diagnosticarne la povertà. La radice filosofica di questa “modernità” sta nella riduzione del problema della verità a quello della certezza del soggetto, o meglio alle modalità gnoseologiche del suo accertamento. Correttamente Lukàcs scrisse che la gnoseologia è la teologia dei tempi moderni e della società capitalistica. A partire dal Cogito di Cartesio fino all’Io penso di Kant si svolge un processo effettivamente “moderno” che riduce integralmente il problema della verità della totalità in certezza epistemologica del soggetto, un soggetto (non dimentichiamolo) de-storicizzato e de-socializzato. In questa concezione la ri-storicizzazione e ri-socializzazione del soggetto, operata da Vico, Fichte, Hegel e Marx viene paradossalmente considerata pre-moderna e non moderna. Ma non siamo che all’anticamera della comprensione del problema. La chiave del moderno relativismo laicista si trova a mio avviso in Max Weber, il “Marx della borghesia”, un neo-kantiano senza coscienza infelice ma consapevole della “gabbia d’acciaio” in cui il capitalismo stava rinchiudendo gli uomini. Come ha osservato una acuta interprete francese, l’esito relativista di Max Weber (il relativismo dei valori portato dal disincanto del mondo) è in realtà ambiguo, perché Max Weber è un comparatista relativista (tutte le religioni e le civiltà sono “valorialmente” egualmente vicine a Dio, e cioè al nulla) ed un epistemologo assolutista, perché la civiltà occidentale è considerata superiore a tutte le altre proprio in nome del razionalismo proceduralistico, il cui esito è appunto il relativismo dei valori e il disincanto del mondo. 6. Vediamo allora dove sta la volgarità arrogante di Umberto Eco quando scrive che il modo di affrontare il relativismo di Ratzinger è inferiore a quello di uno studente della scuola dell’obbligo. In quanto “ismo” è naturale che il relativismo contenga almeno venti differenti varianti storiche e teoriche, e qualunque professore universitario (e liceale) è in grado di enumerarle e distinguerle dottamente. Ma questo avviene per qualunque “ismo” (idealismo, positivismo, storicismo, eccetera). Gli “ismi” sono classi di elementi distinti. Nello stesso tempo gli “ismi” sono astrattamente e concettualmente unificabili. Ad esempio Hegel è idealista, Feuerbach materialista e Weber storicista. Nello stesso tempo il relativismo moderno (non parlo qui dei sofisti greci, per cui il discorso dovrebbe essere diverso) si basa su due fondamenti estremamente unitari. In primo luogo, sulla riduzione integrale del vecchio problema “metafisico” della verità nel nuovo problema epistemologico della corretta certezza (verificabile e falsificabile) di un soggetto preventivamente destoricizzato e de socializzato ( da Cartesio a Kant), che permette di “squalificare” e di delegittimare come “anti-moderni” tutti coloro che parlano di verità (o falsità) della totalità espressiva (Habermas su Hegel e Marx). In secondo luogo, sulla mescolanza di relativismo comparatista e di epistemologia assolutista (solo il razionalismo occidentale viene legittimato, in quanto anti-metafisico), con le note conseguenze in termini di arroganza e di “burbanza” (Eco). 7. E’ un peccato, perché non mi sogno affatto di negare il nucleo di razionalità del pensiero scientifico e di quello laicista. Prendiamo ad esempio l’ultimo libro di Telmo Pievani (cfr. La vita inaspettata, Cortina editore 2010). Pievani difende l’evoluzionismo darwiniano, dandogli una nota fortemente contingentistica e casualistica, ed illustra “il fascino di una evoluzione che non ci aveva previsto”. Come confutazione del cosiddetto “disegno intelligente” (indipendentemente dal fatto che Ratzinger lo difenda esplicitamente o lo adombri solo cautamente, come è da parte sua opportuno fare) il libro di Telmo Pievani è ottimo, e assolutamente convincente. Dirò di più: per quanto ne posso capire, Pievani ha assolutamente ragione. Ma dovrebbe fermarsi qui. Ed invece non si ferma, perché deve assolutamente comunicarci il suo assolutismo metafisico, che è una metafisica della contingenza assoluta. Pievani deve ad ogni costo seguire la linea degli agnostici ed atei razionalisti (Odifreddi, Turchetto, eccetera), criticare le pretese conoscitive della filosofia e le pretese etico-comunitarie della religione. Se rispettasse un poco di più la filosofia classica (e non quella caricatura chiamata epistemologia, inutile a sé e agli altri) conoscerebbe Aristotele, e saprebbe che un conto è la contingenza e la casualità (katà to dynatòn), ed un conto l’essente-in-possibilità, e cioè in potenzialità (dynamei on), e che la natura seguirà forse il primo principio, ma la civiltà umana processuale ed autocosciente il secondo. E allora la richiesta fatta alla riflessione etica e filosofica di basarsi sul “sapere scientifico” resta ambigua e fuorviante. Se il sapere scientifico, che un tempo era il sapere del necessitarismo deterministico basato sul modello meccanicistico della fisica seicentesca, ed oggi è invece il sapere dell’accettazione della casualità e della contingenza (katà to dynatòn), come è possibile che ci si possa fondare sopra il sapere etico e filosofico, che è invece un sapere delle possibilità processuali progettate e volute dal genere umano (dynamei on)? A questo porta il riduzionismo scientistico e la polemica (sia pure più che fondata) contro l’antropomorfismo ingenuo del disegno intelligente (di cui una variante ben difesa, ma molto meno convincente della contingenza di Pievani, può essere letta in Michael Georgiev, Charles Darwin oltre le colonne d’Ercole, Gribaudi, Milano 2009). Non fa mai male sentire anche l’altra campana. 8. In epoca di individualismo assoluto e di rottura di ogni comunitarismo è ovvio che anche la teologia assuma la forma del fai-da-te. Un esempio di questo è il recente saggio di Vito Mancuso (cfr. Io e Dio, Garzanti, Milano 2011). Già il titolo dice tutto. Il fatto di mettere prima l’Io (l’io coscienziale e singolo, non certo l’Io fichtiano come metafora della prassi unificata dell’intera umanità), e soltanto poi Dio, e cioè l’Universale, non deve essere inteso come un empirico difetto narcisistico dell’individuo Mancuso, ma un segno dello spirito del tempo (Zeitgeist), che parte sempre dall’ombelico del soggetto individuale, e che crede (erroneamente) che partendo dall’ombelico si arrivi meglio al cervello ed al cuore. La concezione di Mancuso di Dio come “sorgente e porto dell’essere-energia”, a metà fra Teilhard de Chardin ed uno sciamano siberiano, fa rimpiangere la vecchia concezione tomistica classica. Mancuso vuole continuare ad essere cattolico, quando ormai più nessuna Inquisizione lo obbligherebbe a farlo, e manifesta così il carattere opportunistico della cultura mediatica di oggi, che vuole essere insieme eversiva e conformistica. E’ interessante la reazione dei cosiddetti “laici” italiani, in realtà fondamentalisti illuministici di centro-sinistra. Gustavo Zagrebelsky (cfr. “Repubblica”, 9/9/2011) saluta l’avvento di una nuova teologia fondata sul prima della coscienza contro la chiesa dell’obbedienza. Non è un caso. Per i vari Zagrebelsky l’obbedienza deve essere riservata all’economia (sfida della globalizzazione, giudizio dei mercati, vincolo del debito, dittatura delle agenzie di rating, eccetera), mentre l’ambito del costume e delle religioni deve essere invece interamente liberalizzato (la “modernità” secondo Eugenio Scalfari). Ora, se c’è qualcosa in cui le chiese organizzate possono ancora servire a qualcosa, è proprio sul livello dell’obbedienza, diretto a quel 95% degli essere umani che non intendono ascoltare il linguaggio del dialogo filosofico veritativo razionale (in accordo con Platone e Hegel, chiamo “retori” e non filosofi i negatori della verità). Gian Enrico Rusconi (cfr. “La Stampa”, 18/9/2011) non si accontenta del primato della coscienza (traduzione: del primato dell’arbitrio del volere scambiato per libertà), ma vorrebbe di più, e cioè il “riconoscimento dell’autonomia del pensiero laico” (sic!). Questo mi ricorda i funzionari staliniani, che erano disposti a tollerare il cristianesimo purchè “riconoscesse” la scientificità dell’ateismo, il materialismo dialettico e l’inesistenza di Dio “scientificamente dimostrata”. Benchè Zagrevelsky sia più sobrio di Rusconi, entrambi non contestano l’imposizione individualistico-coscienziale (e cioè l’Io e Dio, con Io davanti e Dio dopo) di Mancuso. Per i “laici” lo spazio pubblico deve essere infatti riservato interamente al “laicismo” (nel senso di relativismo e nichilismo, che non è solo quello di Ratzinger, ma è quello di Nietzsche e di Weber), mentre la religione come fatto pubblico può essere “tollerata” come forma arcaica di Gay Pride e di sfilata femminista. 9. A differenza di Mancuso, non voglio fare il teologo dilettante fai-da-te. Nulla sarebbe più facile. Io non credo nel Dio di Ratzinger, ma nel modo in cui impostano la questione Spinoza e Hegel (migliore del modo “materialistico” in cui imposta il pur ammirevole Feuerbach ed il volenteroso Marx). Ammiro molto la risposta data da Hegel al suo studente Heine, che gli faceva l’apologia della premiazione dei buoni e della punizione dei cattivi nell’aldilà. Hegel lo guardò freddamente e gli disse: “Perché, Lei ha bisogno di una mancia per assistere la sua signora madre malata e per non avvelenare il suo signor fratello maggiore?”. E con questo, l’essenziale della teologia è detto. 10. Passiamo alla filosofia, in cui non sono più uno studente della scuola dell’obbligo, ma un competente specialista. Ho già affermato che la riduzione del molteplice (le varie forme storiche e teoriche di relativismo) all’unità (il concetto unitario di relativismo) è assolutamente giustificata, ed è del resto moneta corrente di tutti i filosofi di professione. In quanto storico della filosofia, so perfettamente che vi sono profonde ragioni per essere relativisti (Weber) e nichilisti (Nietzsche in quanto porta girevole sia per il Superuomo che per l’Oltreuomo). Ma vi sono a mio avviso ragioni più profonde per non esserlo, da Spinoza a Vico, da Fichte a Hegel, da Marx a Lukàcs. Ho scritto in proposito migliaia di pagine, che non posso certo riassumere qui. Semplicemente, non si cada nel “gioco delle tre carte”, strumento per spillare soldi ai babbioni negli atri delle stazioni ferroviarie, per cui le rispettabili opinioni relativistiche e nichilistiche vengono fatte passare per esito obbligato della scienza moderna (Pievani) e della visione laica del mondo (Zagrebelsky e Rusconi). Una volta fatta cadere questa “boria dei dotti” e questa coazione a ripetere del professore universitario che corregge le tesi, tutto poi può essere liberamente detto ed argomentato. 11. Due parole su Ratzinger. Per giudicarlo come teologo, bisogna prima tener conto del fatto che non si chiama soltanto Joseph, ma Benedetto XVI. In proposito, weberiani come Eco, Zagrebelsky e Rusconi dovranno pur sempre ammettere che, oltre all’etica delle opinioni, che pertiene a Ratzinger, egli deve anche ispirarsi all’etica della responsabilità, che invece pertiene a Benedetto XVI. Se io diventassi papa (mai dubitare della Divina Provvidenza!) non potrei certamente contestare il (ridicolo) sangue di San Gennaro o proclamare che nessuna vergine può essere madre di Gesù o che la sindone di Torino è una falso medioevale. Perché portare sconcerto tra i fedeli, che chiedono soprattutto solidarietà e comunità? Quando vedo individui presuntuosi e isolati (Flores d’Arcais, Marcello Pera, eccetera) parlare da pari a pari con Benedetto XVI, come se fossero tutti pensionati al bar con gli amici, sono preso da un senso di ridicolo. Come filosofo, anche lo scrivente si sente eguale a Ratzinger, e così deve essere, perché la filosofia (ce lo ha insegnato l’ateniese Socrate) non conosce gerarchie o auctoritates, ma solo libere argomentazioni. Ma io non sono eguale a Benedetto XVI, per il semplice e noto fatto (che però sfugge in genere ai laici, scientisti o esistenzialisti, neokantiani o positivisti, eccetera) che egli è carico di una responsabilità. Su questa base deve anche allora essere giudicato sia come teologo che come filosofo. 12. A differenza di Umberto Eco, lo giudico un teologo ed un filosofo di alto livello, e cerco di spiegarne brevemente il perché. Come teologo, non posso certo pretendere che dia del Cristo una interpretazione “materialistica” fondata sulla teoria dei modi di produzione (Fernando Belo, Massimo Bontempelli prima maniera de “Il senso della storia antica”, Trevisini), oppure riduca Gesù a zelota armato crocifisso perché accusato di insurrezione (vedi cartiglio INRI, riservato esclusivamente agli zeloti armati del tempo). E’ evidente che il suo Gesù non può essere demitizzato e storicizzato oltre un certo punto. Si tratta di un Gesù serio e credibile, cui personalmente non “credo”, ma che nello stesso tempo evito di ridurre a “Io (Costanzo Preve) e il Gesù di Ratzinger” sulla base della centralità del mio pur rispettabile ombelico. Ritengo anche molto razionale ricorrere alla concezione di Tommaso d’Aquino, che mi sembra stabile molto più di quanto lo sia la teologia universitaria liberale di Hans Küng, per non parlare di Mancuso (two theologians in a boat, to say nothing of the dog). Come filosofo, Ratzinger riprende la concezione normativa della natura umana di Aristotele e più in generale dei greci. Bene, non so che cosa abbia in testa Umberto Eco, ma penso che si tratti di un’ottima filosofia. Un mio fraterno amico, Luca Grecchi, ha costruito sul recupero dei greci una concezione umanistica della filosofia, e questo senza essere affatto un “credente” nel senso di Ratzinger (si vedano le due notevoli interviste a Enrico Berti e a Carmelo Vigna). Certo, Ratzinger non può certo aderire alla filosofia secolarizzata della storia di Fichte, Hegel e Marx, e questo perché quest’ultima a mio avviso è del tutto incompatibile con una teologia del monoteismo cristiano rivelato e con una interpretazione “letterale” della Trinità secondo il concilio di Nicea. E non vedo perché lo si debba pretendere. La superiorità e l’inferiorità di una filosofia non possono essere “sostenute” in assoluto, ma solo in rapporto al “proprio tempo appreso nel pensiero” (Hegel). Sarebbe quindi improprio paragonare Ratzinger a Platone, Aristotele, Spinoza, Kant, Hegel o Marx. Ma se collochiamo Ratzinger nel tempo in cui stiamo vivendo (una dürftige Zeit, un tempo della miseria) la superiorità di Ratzinger sulla spocchia autoreferenziale dei dotti universitari boriosi alla Eco è addirittura tennistica. |
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