ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 30 marzo 2016

Analogie?

Gandalf, voce di uno che grida nel deserto



Forse il personaggio di cui ci apprestiamo a fornire una descrizione, diciamo così, “metafisica” cioè che si spinga un poco oltre le mere apparenze, è il più amato fra le creature di Tolkien. Di certo è il più rappresentato, forse a causa dell’aspetto ieratico, simbolico, a volte oscuro e impenetrabile che il vecchioBarbagrigia evoca nella mente del lettore. Gandalf è certamente una figura difficile da inquadrare, e carpirne l’anima non è cosa facile giacché è un personaggio fluido, etereo, sfuggente. Come nel libro infatti appare e scompare in maniera repentina, allo stesso modo è quasi impossibile riuscire ad intrattenersi, letterariamente parlando, con lui più di qualche minuto, perché è egli stesso a non consentircelo.

Ma chi è Gandalf? Ascoltiamo cosa dice in proposito nonno Tolkien: “Alla fine della seconda settimana di settembre, un carro proveniente dal Ponte sul Brandivino traversò Lungacque in pieno giorno. Era guidato da un vecchio con un aguzzo cappello blu, un largo mantello grigio ed una sciarpa color argento. Aveva una folta barba e sopracciglia cespugliose che spuntavano oltre le falde del cappello […]. Il vecchio era Gandalf in persona, lo Stregone la cui fama nella Contea era dovuta in primo luogo alla sua abilità nel maneggiare fuochi, fumi e luci. Il suo vero lavoro era di gran lunga più difficile e pericoloso, ma la gente della Contea non lo sospettava nemmeno”[1].

La descrizione, come si vede, è sfuggente e lo stesso Tolkien è avaro di dettagli, anzi ce lo presenta attraverso gli occhi degli hobbit che lo considerano poco più di un “prestigiatore”. Ma la vera natura di Gandalf si svela attraverso le sue parole e le sue azioni, in osservanza dell’adagio aristotelico-tomista «agere sequitur esse» (“l’agire è una conseguenza dell’essere, cioè della natura delle cose, che le fa essere ciò che sono”). Ma proprio questo è il punto: qual è la natura di Gandalf? Egli è uno stregone, certamente, ma è molto di più di un semplice magus. La sua identità sembra sfuggisse allo stesso Tolkien, tant’è che sarebbe meglio porre la questione in questi termini: “Che cosa è Gandalf?”. La sua prima comparsa assoluta così ce lo presenta: “ecco arrivare Gandalf. Gandalf! Se di lui aveste sentito solo un quarto di quello che ho sentito io, e anch’io ho sentito ben poco di tutto quello che c’è da sentire, vi aspettereste subito una qualche storia fuor dal comune[2]. Tolkien, da scrittore e narratore sapiente non ci fornisce una descrizione dettagliata di ciò che Gandalf è in se stesso, contrariamente all’odierna civiltà dell’immagine che invece annichilisce la fantasia, facoltà così importante per la vita dell’uomo perché possiede la capacità di riportarlo allo stato di interiore e ingenua fanciullezza richiesta per entrare nel Regno dei Cieli.

No, Tolkien non è invadente e pedante, nondimeno appare impegnativo e attraente perché solletica e sollecita la fantasia del lettore. Lo afferma lui stesso in una lettera: “Penso che sia meglio non affermare esplicitamente ogni cosa…la verità deve essere scoperta o indovinata dalle prove fornite[3]. Pedagogia, questa, eminentemente divina.

In questo senso, la realizzazione cinematografica del Signore degli Anelli ha senza dubbio molti meriti ma altrettante colpe, come quella di aver ridotto e a volte contaminato l’essenza di alcuni personaggi. Fra quelli che hanno subito una maggiore perdita di spessore vi è certamente Gandalf. Il libro, infatti, ce lo presenta come un personaggio, prima facie, poco simpatico tutt’altro che bonaccione. Lo stregone grigio è, anzi, piuttosto burbero e ispido come la sua barba, pungente nei suoi ammonimenti come il suo cappello a punta.



Eppure, allo stesso tempo, Gandalf è una figura estremamente confortante, è il sostegno e la guida della Compagnia ma anche dei sovrani degli elfi e degli uomini. Egli giunge al momento opportuno, “al mutar della marea” nelle vicende della Terra di Mezzo. L’ammirazione che quasi sfocia in una venerazione per la figura di Gandalf, fu palpabile già subito dopo la pubblicazione del Signore degli Anelli negli Stati Uniti quando, verso la fine degli anni cinquanta, si potevano vedere nella metropolitana di New York scritte di questo genere: “Gandalf for President”.

In una delle sue lettere, Tolkien cerca di fornire una spiegazione, a dire il vero piuttosto vaga, sull’origine della “razza” degli Istari cui Gandalf appartiene: “La loro origine – dice – è conosciuta solo da pochissimi (come per esempio Elrond e Galadriel) nella Terza Era. Si dice che siano comparsi per la prima volta intorno all’anno 1000 della Terza Era, quando l’ombra di Sauron cominciò nuovamente a prendere forma. Hanno sempre un aspetto anziano, ma diventano ancora più vecchi esercitando la loro opera, lentamente, e spariscono con la fine degli Anelli. Si pensava che fossero “Emissari” (all’interno di questo racconto emissari dal lontano Occidente al di là dal mare), e il loro vero compito, mantenuto da Gandalf e distorto da Saruman, era quello di rafforzare e portare alla luce i poteri naturali dei nemici di Sauron. L’opposto di Gandalf era Sauron”[4].

Ma direi di fermarmi qui con le citazioni tolkieniane perché io, al contrario di Tolkien, non sono né un vero scrittore né tanto meno un filologo, ma mi piace cercare Dio in ogni cosa e trovare in ciò che leggo, vedo e ascolto la presenza di Colui che ogni cosa ha fatto. Sono consapevole che una tale ammissione comporti, dalla prospettiva di chi legge, una diminuzione di valore di quanto scrivo e una sorta di “autogol letterario”, eppure non pretendo di considerarmi quello che non sono né di proporre ciò che scrivo come frutto di un lavorio meritevole di considerazione. Le mie non sono altro che meditazioni ad alta voce, che non pretendono in alcun modo di rettificare i pensieri e le intenzioni del professore di Oxford ma soltanto di approfondire, come già detto, la ricchezza di senso racchiusa in un’opera d’arte, qual è il Signore degli Anelli, lasciata in buona parte, per ammissione del suo stesso autore, incompiuta e aperta.

Dunque, procediamo. La composizione trinitaria di ogni realtà e di ogni essere finanche il più infimo, come insegnano sant’Agostino e san Bonaventura, è per me via al «Factorem coeli et terrae» il quale, come sigillo, ha impresso la propria immagine ad ogni realtà creata seminando tanti piccoli indizi nel mondo, di modo che ci guidino, discretamente, come le briciole di Hansel e Gretel alla “Casa paterna”. Ad esempio un vento freddo d’autunno fra le colline brulle e silenziose della Toscana; una rossa coccinella che sale lenta, un filo d’erba verde; un vecchio tronco maestoso all’esterno e vuoto al suo interno, divenuto rifugio a qualche famiglia di topolini; una goccia d’acqua caduta su una pozzanghera, residuo di una tempesta e preludio a una nuova bufera in un cielo di vitreo argento simile al mithril; creste di montagne nebbiose che ricordano i viaggi della Compagnia verso il monte del Destino; l’odore di biscotti che si spande dalla cucina in tutta la casa mentre fuori si respira aria di Natale; un saio marrone e consunto di panno grezzo che sgrana una corona del Rosario mentre avanza per la via boscosa come Radagast il Bruno. Ecco, questi gli indizi di verità, bontà e bellezza che il Creatore seminò nel mondo quali segni evidenti di quell’“Amor che move il sole e l’altre stelle”. Tali sono i segni e le visioni che lo sguardo di Gandalf, di Frodo e di John Ronald Reuel Tolkien incontra mentre si avviano verso i porti grigi nell’ultimo viaggio. “La morte – dice Gandalf – è soltanto un’altra via, dovremo prenderla tutti”, ma il modo in cui ci si dispone ad intraprendere un viaggio, ben lo sapeva Tolkien, determina il suo successo o la sua rovina. In questo viaggio, infatti, se non si è ben equipaggiati e rettamente orientati verso la mèta, ci si può perdere e smarrire per l’eternità.



Gandalf, essendo emissario dei Valar (potremmo dire, parafrasando, «del Cielo»), è stato mandato sulla Terra di Mezzo proprio per raddrizzare le vie e appianare i sentieri per preparare la venuta del Re, come risuona nel Tempo santo d’Avvento la novena in preparazione del Natale: “Ecce Rex veniet Dominus terrae, et ipse auferet jugum captivitatis nostrae”. È pur vero che Tolkien lo definisce una sorta di “messaggero angelico” eppure per il suo aspetto, per il suo ruolo e per le sue gesta, Gandalf appare più simile a un profeta dell’Antico Testamento, sembra cioè essere più un «ish Elohìm» ossia un “uomo di Dio”.

Egli viaggia attraverso le contrade della Terra di Mezzo ad esortare, insegnare, correggere e guidare popoli e re, hobbit, uomini ed elfi parlando con l’autorità profetica di colui che solo, appunto, è la “bocca di Dio”. Gandalf dice la verità, insegna il bene, è prudente e, per questo, previdente, dalla sua bocca escono parole sagge e giuste: “Os iusti meditabitur sapientiam, et lingua ejus loquetur judicium” (Ps 36, 30). L’opposizione di Gandalf messaggero di verità, alla “Bocca di Sauron”, personaggio oscuro di cui Tolkien non indica neanche il nome, è forte tanto quanto la verità si oppone alla menzogna.

Gandalf è colui che “andrà davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per volgere i cuori dei padri ai figli e i ribelli alla saggezza dei giusti, per preparare al Signore un popolo ben disposto” (Lc 1,17). Ma la sua vera antitesi è Saruman che in qualche modo rappresenta uno dei falsi profeti. Ma dello stregone bianco, divenuto poi Saruman il multicolore (interessante coincidenza con il “pacifismo multicolore” contemporaneo), ci occuperemo nello specifico in una trattazione a parte.

L’azione principale che vediamo svolgere da Gandalf che in questo senso si, come uno “spirito buono”, aleggia fra le pagine della Terra di Mezzo, è quella di infondere coraggio, di additare la via e scuotere gli animi rattrappiti, tiepidi come quello di Bilbo, spingendolo energicamente verso l’avventura della vita, verso ideali e valori che trascendono il piccolo mondo, un po’ materialista, della Contea. “Imparerai più nei boschi che nei libri, gli alberi e le rocce ti insegneranno le cose che mai nessun maestro ti dirà”. Questa frase, se non sapessimo che appartiene a San Bernardo da Chiaravalle, potremmo tranquillamente pensare che sia di Mithrandir, epiteto elfico che significa «Grigio Pellegrino o Viandante», usato in Gondor per chiamare Gandalf. E non è forse questa una caratteristica tipica dei profeti, il viaggiare e il peregrinare?

In particolare la missione di Gandalf è quella di battistrada al viaggio di Aragorn verso il suo trono, preparando il ritorno del Re. Inoltre, Mithrandir agisce come un pastore che si sforza di radunare il gregge disperso e confuso, correndo sulle ali di Ombromanto («Shadowfax» in inglese) ai quattro angoli della Terra di Mezzo per compattare le ultime resistenze e convogliare le energie dei popoli liberi della Terra di Mezzo in uno sforzo comune contro il Male che rischia di inghiottire ogni cosa. Perciò quello che all’inizio sembrava soltanto un amico degli hobbit, stimatore dell’erba pipa di Pianilungone si rivela essere un condottiero di armate. Egli è anche sentinella e custode in particolare di Frodo, il portatore dell’Anello: “Dallo a Frodo – dice a Bilbo – ed io veglierò su di lui”[5].

Ma c’è un altro elemento per lo più trascurato o ignorato dai commentatori di Tolkien, che è l’aspetto eminentemente sacerdotale di Gandalf. Infatti, se facciamo attenzione, la simbologia e i segni che caratterizzano Saruman e Gandalf sono anzitutto i loro bordoni, simili ai pastorali dei vescovi, il loro aspetto da old wise che ricorda le immagini dei padri della Chiesa, e la loro appartenenza ad un vero e proprio ordine superiore di saggi, costituiti pastori di tutti i popoli della Terra di Mezzo. Saruman infatti è anzitutto il sommo sacerdote del suo ordine e non a caso il colore che contraddistingue il suo grado supremo è il bianco che, in seguito al suo tradimento, passerà a Gandalf insieme allo scettro e al bastone, segni del potere e dell’autorità. L’analogia tra Caifa e San Pietro che lo sostituirà come nuovo Sommo Sacerdote nel regno che viene, che è la Chiesa Cattolica, si sovrappone e aderisce in maniera impressionante alla vicenda di Saruman e Gandalf.

Ma c’è di più. Il nostro buon vecchio Barbagrigia è al contempo, come altri personaggi tolkieniani, una figura eminentemente cristologica. La sua morte e la sua risurrezione ne sono un rimando implicito ma chiaro. “«Un Balrog», mormorò Gandalf. «Adesso capisco». Vacillò, e si sostenne faticosamente col bastone. «Che sorte malefica! Ed io sono già stanco»”. La debolezza e lo sconcerto di Gandalf difronte al suo destino di sacrificio consapevole che è giunta “la sua ora”, sembra rievocare quell’estremo momento in cui Nostro Signore, stanco, debole e prostrato dall’angoscia sentì tutto il peso dei nostri peccati nel Getsemani. Molti santi e mistici dichiarano che proprio quello fu il momento più doloroso e buio di tutta la Passione di Cristo. “«Attraversate il ponte!», gridò Gandalf, radunando le proprie forze. «Fuggite! Questo è un nemico troppo forte per chiunque di voi. Devo difendere io lo stretto passaggio»”. Ecco che comincia a svelarsi la missione personale di Gandalf. Il suo compito piomba all’improvviso su di lui inesorabile come il destino: deve difendere lo “stretto passaggio”, ossia quella via stretta che conduce alla vita, che richiede inevitabilmente una vittima di espiazione. L’ostacolo che si frappone fra la morte, il Demonio e noi è il Sacrificio di Nostro Signore, ovvero la Sua Santa Croce, simbolo di ignominia, obbrobrio e sconfitta eppure di gloria, di amore e di vittoria. E in quell’imperativo “fuggite!” di Gandalf ritroviamo il precetto divino di fuggire il male, non pretendendo di affrontarlo con la nostra fragile umanità, perché esso è un nemico superiore alle nostre forze. Solo la Croce di Nostro Signore ha vinto il Mondo e il Demonio, guadagnandoci la corazza della Grazia per presentarci, a suo tempo, dinanzi al Nero Cancello con Lui alla testa per sfidare la Morte.

Il momento dello scontro è terribile e la descrizione che Tolkien ne fornisce, penetrante. Il Balrog “avanzò lentamente sul ponte, e d’un tratto si eresse ad una immensa altezza, estendendo le ali da una parete all’altra; ma Gandalf si scorgeva ancora, un bagliore nelle tenebre; pareva piccolo, e del tutto solo: grigio e curvo come un albero avvizzito prima dell’assalto di una tempesta”. Quanto dovette sembrare piccolo e debole Nostro Signore appeso sulla Croce, solo e nudo dinanzi alla vittoria (apparente) dei suoi nemici. Appeso al patibolo di morte che diventerà poi l’Albero della Vita, Nostro Signore, come Gandalf a Khazad-dum, si lascia trascinare nello sprofondo della morte nascondendosi per un poco allo sguardo dei suoi amici, ma solo per tornarne Liberatore e Redentore.

Nell’affrontare il Demone del mondo Antico, Gandalf si immerge nell’abisso e in quel momento tutto sembra perduto. Colui che era la guida e il pastore lascia orfani i membri della Compagnia i quali, addolorati ed abbattuti, cominciano a disgregarsi e a perdere la speranza di riuscire nella loro impresa. Gandalf affronta quel nemico, superiore alle forze di qualsiasi altro mortale, da solo, nell’abisso infernale in un duello mirabile come recita la sequenza di Pasqua: “Mors et vita duello conflixere mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus”. Dal torrione più basso alla cima più alta lo scontro prosegue all’insaputa del mondo. Ma da quello scontro invisibile dipende la salvezza della Terra di Mezzo.

Ad ogni buon conto, nonostante la curiosità sia molta e le domande che vorremmo porre a Tolkien siano numerose, credo che la domanda «chi (o che cosa) sia, Gandalf?» sia destinata a non trovare una risposta compiuta e definitiva. E come neppure il nostro buon vecchio nonno Tolkien ha voluto né potuto levare il velo che avvolge alcune delle sue “creature”, non sarò di certo io ad avere la presunzione di tentarlo. Il mistero, dunque, rimane al pari di quello che avvolge la figura del profeta Elia rapito in cielo su di un carro di fuoco. Eppure, con gli indizi in nostro possesso possiamo formulare un’ipotesi, a mio avviso, più che verosimile: Gandalf “è colui del quale è scritto: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero, che preparerà la tua via davanti a te»” (Lc 7,27). La sua essenza, infatti, si identifica con la sua missione e questa si esaurisce con l’avvento del Re, del quale egli è stato precursore e consigliere. Solo quando il Re avrà preso possesso del regno e ristabilito ogni cosa, solo allora il Grigio Pellegrino potrà prendere congedo dalla Terra di Mezzo per sciogliere le vele verso il meritato riposo.

Non a caso la Chiesa in questo santo tempo di Avvento, ci ammonisce e dispone alla venuta del Messia con la predicazione di san Giovanni Battista, pellegrino e profeta nelle terre intorno al Giordano. Egli, il Battista, vissuto nel nascondimento, la cui vera identità sfuggì ai suoi stessi contemporanei fu colui che traghettò l’antica Legge alla Grazia di Cristo. Poveramente vestito, ma rivestito dello spirito e della forza di Elia, San Giovanni condivide con Gandalf la missione profetica e ancor più l’altissimo compito di essere l’araldo del Gran Re, “di lui parlò infatti il profeta Isaia quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»” (Mt 3,3).

Così, san Giovanni, cede il passo al Figlio di Dio: “fissando lo sguardo su Gesù, che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!». I suoi due discepoli, avendolo udito parlare, seguirono Gesù” (Gv 1,36-37). Similmente, Gandalf, giunto al dunque, avendo terminato la corsa e combattuto la buona battaglia, esce dalla scena di questo mondo dicendo: “Cari amici, qui sulle rive del Mare finisce la nostra compagnia nella Terra di Mezzo. Andate in pace! Non dirò: «Non piangete», perché non tutte le lacrime sono un male”. E quanto siano vere queste parole ce lo attesta l’Inno della Novena in preparazione del Santo Natale: “Omnes simul cum lacrymis, precemur indulgentiam”. Fratelli d’esilio, leviamo, dunque, il capo perché la nostra liberazione è vicina.



Sancte Joànnes Baptista: ora pro nobis.

[1] Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano 1999, pp. 51-52.

[2] Lo Hobbit, Adelphi, Milano 2002, p. 16.

[3] Lettera n. 268 in La realtà in trasparenza, Bompiani, Milano 2002, p. 398.

[4] Lettera n. 144, op. cit., p. 204.

[5] Il Signore degli Anelli, op. cit., p. 63.

Boromir, il Peccatore riscattato

                    

Vorrei dedicare questa nuova trattazione sui personaggi tolkieniani ad una figura a me particolarmente cara: Boromir di Gondor.

La “simpatia”, nel senso etimologico del termine di «con passione» (dal greco «syn – patìa» = sentire insieme), che questo personaggio mi ha sempre suscitato deriva dalla sua radicale e drammatica umanità. Fra tutti i personaggi della Compagnia che si offrono di accompagnare Frodo nella sua missione “redentrice”, Boromir è, a parer mio, il più “umano”. Non a caso è l’unico vero rappresentante del mondo degli uomini. Non lo stesso per Aragorn il quale è, in un certo senso, al di sopra dell’uomo, è più che un uomo. Ma lasciamo il discorso sull’Erede di Nùmenor per una prossima trattazione, dedichiamoci piuttosto all’“uomo” Boromir.


Figlio del sovrintendente di Gondor, Boromir ha un destino segnato dalla frustrazione e dalla delusione: egli infatti non è l’erede al trono di Gondor perché il padre non è il Re. Ciò a cui Boromir al massimo può ambire è divenire anche lui sovrintendente di Gondor, ma mai il Re e sa bene che quell’onore non spetta a lui. Boromir si trova a dover combattere, soffrire e difendere un regno e un trono che non gli appartengono, è il semplice figlio del custode del trono. Triste quindi il suo fato contrassegnato dalla fatica e dal dolore eppure al contempo bellissimo e onorevole il ruolo di combattente e di guida che deve svolgere.

Egli è il “servo buono e fedele” della parabola evangelica che deve vegliare e custodire la casa dai nemici, continuare a servire il padrone anche se il padrone di casa è assente attendendolo con pazienza e perseveranza. Boromir è un altro meraviglioso paradigma tolkeniano dell’“uomo” e meglio ancora del cristiano, il quale non ha la sua gloria in questo mondo ossia non può sedersi già qui sul Trono regale ma lo deve servire e difendere fedelmente in attesa del “Ritorno del Gran Re”, soltanto allora, se avrà perseverato fino alla fine, potrà sentirsi dire dal Re: «euge serve bone et fidelis quia super pauca fuisti fidelis supra multa te constituam intra in gaudium domini tui» (Mt 25,23).

In lui non troviamo la purezza quasi angelica di Legolas, né la dignità regale di Aragorn, né l’umiltà di Frodo né la saggezza di Gandalf. Egli è un uomo e in quanto tale porta in sé sia l’altezza che la bassezza, la contraddizione e la nobiltà d’animo, la buona volontà e la debolezza della carne, la virtù e il vizio. Boromir non è il cavaliere senza macchia e senza paura, egli è un cavaliere che sperimenta su di sé il potere della tentazione e la tentazione del potere e, in essa, cade. Ognuno di noi potrebbe facilmente ritrovarsi in quella sincera adesione al bene che spinse Boromir ad offrirsi generosamente al servizio del Signore e, al contempo, nel fallimento di chi nel tentativo di fare il bene e nella sequela di Cristo cade nel peccato: chi è senza peccato scagli la prima pietra (oppure provi a portare l’Anello).

Ma a differenza di Gollum e di Denethor, ossia di qualsiasi peccatore ostinato, Boromir non si abbandona alla disperazione né persevera nel male anzi riconosce il proprio peccato. «Che cosa ho fatto?» si chiede esterrefatto e addolorato non appena prende coscienza di aver tentato di sottrarre l’Anello a Frodo. L’umiliazione che deve subire anche dinanzi agli altri membri della Compagnia è cocente, nessuno di loro infatti ha ceduto alla tentazione mentre lui, il figlio di Denethor, è stato il debole della Compagnia. Ma la sua debolezza non poteva essere più meravigliosa e salutare. La debolezza umana infatti, come insegnano gli autori spirituali, è il trono su cui si siede l’Onnipotenza e la Misericordia divina. Essa è la via perché si manifesti in noi la Potenza di Dio. Inoltre, Boromir dimostra un sincero pentimento e una vera conversione, perché resta a combattere, si rialza, accetta il proprio fallimento e cerca di rimediare, come? Riscattandosi con l’estremo sacrificio di sé. Nel tradimento, Boromir, non dimostra solo di essere un uomo vero mostrando la sua debolezza ma di essere uno vero uomo, un autentico «vir» che dimostra, appunto, virilità. Si lascia toccare dalla Grazia per reagire dinanzi allo sgomento per il proprio peccato, superando la seconda e ben peggiore tentazione del Maligno: lo scoraggiamento che conduce alla disperazione. Boromir è un esempio di santità perché si converte. Tutti i santi, o quasi, incominciano la loro vita di santità, che potrebbe durare anche pochi istanti (come il buon Ladrone san Dismas) con una radicale conversione dei costumi, con la quale abbandonano l’uomo vecchio per rivestirsi di Cristo. Molti martiri furono santi soltanto per quell’ultimo gesto estremo che gli valse il riscatto di tutta la vita oltreché il premio dell’eternità giacché «la carità copre una moltitudine di peccati», e «non c’è carità più grande di questa: dare la vita per i propri amici».

Il riscatto finale di Boromir, a mio avviso, vale più di tutte le prodezze di Aragorn o di tutte le angeliche meraviglie degli elfi. L’infedeltà di Boromir è più utile a me di quanto non lo sia la fedeltà silenziosa e anonima di Legolas. Azzardo un paragone con quanto dice San Gregorio Magno sull’incredulità di San Tommaso Apostolo. Dice il grande Papa benedettino che: “valse più la miscredenza di San Tommaso per confermare la Fede della Chiesa, piuttosto che la docilità di tutti gli altri Discepoli”. Anche san Tommaso poi, come Boromir, darà la vita per il Re. La sua debolezza sarà l’occasione disposta dalla Provvidenza per realizzare i suoi piani salvifici. È grazie a quella colluttazione con Boromir che Frodo deciderà finalmente di intraprendere la Via della Croce da solo, perché sa che a lui soltanto è stato affidato il pesante fardello del peccato e che quell’estremo sacrificio spetta a lui solo. Ciò non toglie che gli altri membri della Compagnia daranno prova della loro fedeltà. Lo stesso Boromir morirà “sulla breccia” per difendere i piccoli hobbit.

In questa vicenda mi pare di scorgere una commovente analogia tra Boromir e la figura di San Pietro. Anche il Principe degli Apostoli, infatti, si offrirà generosamente di seguire il Divin Maestro fino alla morte, salvo poi cadere dopo poche ore, nel peccato più vile: il tradimento. Ma anche la vicenda di San Pietro, al contempo meravigliosamente drammatica e toccante, non termina in una tragedia come per il traditore impenitente Iscariota. Al contrario, San Pietro piangerà lacrime di vera compunzione, di dolore sincero, di amore penitente e riscatterà quel peccato ignominioso con la morte infame di Croce ad imitazione del Maestro. Unico fra i discepoli a condividere la morte di Croce di Nostro Signore Gesù Cristo, San Pietro darà prova di fedeltà e vera imitazione rifiutandosi di riprodurre in sé il Segno della Salvezza: chiederà di essere crocifisso a testa in giù tanto era il sentimento della sua indegnità rispetto al Figlio di Dio Crocifisso.

Un’altra analogia fra Boromir e San Pietro, e in lui tutti i suoi successori al soglio pontificio, è il fatto che anche il Papa è soltanto il “custode del Trono” non è il Re. Il Papa, cioè, non è il sovrano di Gondor, ne è il custode, non è l’Erede, è il servo posto a capo della servitù. Sempre san Gregorio Magno dirà che il Papa è il «Servus Servorum Dei», è un vero e proprio “Sovrintendente” non già il Re atteso. Egli deve custodire il Regno di Gondor che è la Chiesa, difenderlo dai nemici della Fede, combattere per i suoi sudditi, i fedeli cattolici, in attesa del ritorno del Re che finalmente verrà a porre fine al male del mondo e con esso ad ogni cosa.

Ciò significa che nonostante il tradimento del Sovrintendente di Gondor, il vecchio e corrotto Denethor, lasciatosi corrompere dallo spirito del mondo e assisosi indebitamente sul Trono che non gli spetta, ritornerà il Vero Re e ristabilirà ogni cosa. Ritornerà ne siamo certi «e questo – come dice Gandalf – è un pensiero molto incoraggiante». In tempi come quelli che ci troviamo a vivere in cui i “sovrintendenti” hanno voluto guardare nel Palantìr, aprendosi imprudentemente al dialogo con il mondo che è sotto il potere di Satana e rimanendone ammaliati non possiamo più aspettare il loro intervento o confidare nella loro guida, perché essi hanno smarrito la ragione e con essa la fede: dobbiamo radunare le forze e conservare il seme della fede e della speranza.

Resistere e dare la vita “sulla breccia” come Boromir, come San Pietro, come San Tommaso questo possiamo e dobbiamo fare. Soltanto nella perseveranza, umile, tenace, fiduciosa e penitente potremmo dire al termine della nostra vita ad imitazione di San Paolo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede».

Ci è data la possibilità, oggi, di fare la nostra bella professione di fede insieme a Boromir dicendo al Cristo che viene, Egli che è il primogenito fra molti fratelli, Egli che è il Comandante che ci guida in battaglia, Egli che è il Re dell’Universo: «Io ti avrei seguito Fratello mio, mio Capitano, mio Re…» fino alla morte.

Viva Boromir e Viva Cristo Re!

https://gloria.tv/article/P2tcLgPiNjZ
Prendiamo in esame il piccolo-grande protagonista del Signore degli Anelli:Messer Frodo Baggins.



Anzitutto dobbiamo rilevare come questo personaggio non si possa realmente comprendere, né d’altra parte avrebbe senso, se non in relazione al protagonista “implicito” del libro: l’Anello. La vita di Frodo difatti è intrecciata all’esistenza dell’Anello e tutto il suo ruolo si svolge e si esaurisce in riferimento ad esso. Vedremo, perciò, come l’Unico Anello sia anch’esso un vero e proprio “personaggio”.

Ma perché l’oggetto che tiene in scacco tutti i personaggi del libro, Sauron incluso, è un “anello”? Perché mai Tolkien ha scelto proprio questo oggetto e non un altro come punto focale e catalizzatore di tutto il suo racconto? Certamente il riferimento letterario a Sigfrido e alla saga dei Nibelunghi che il dotto professore di Oxford conosceva molto bene è indubbio, ma il valore simbolico e il ruolo dell’Anello è troppo profondo e centrale per poter essere soltanto una citazione dotta o una mera “copia” delle epopee nordiche.

Bisogna notare, infatti, che caratteristica dell’Unico Anello è il suo influsso sulla volontà di coloro che vi entrano in contatto. La forza attraente dell’Anello su tutti coloro che lo guardano è paragonabile alla forza attraente che i beni finiti, ossia il piacere sia intellettuale che sensibile, esercitano sulla volontà dell’uomo; in altre parole l’azione che l’Anello, non a caso chiamato “del potere”, svolge per conto dell’Oscuro Signore è la “tentazione”. Al pari della tentazione al peccato, l’Anello si “adatta” alla dimensione della mano di colui che ne entra in possesso o meglio in contatto giacché, in realtà, nessuno è “padrone” dell’Anello neppure Sauron che ne è l’autore. Al contrario si potrebbe dire che l’Anello diventa il padrone di colui che lo usa schiavizzandolo, allo stesso modo in cui il peccato, liberamente commesso dall’uomo, lo rende schiavo del peccato come dice San Paolo.La triste storia dell’hobbit Smeagol divenuto la spregevole creatura Gollum ne è l’esempio più drammatico.

Ma perché si chiama l’Anello “del Potere”? a quale potere fa riferimento? Solo alla supremazia dell’Oscuro Signore sui popoli della Terra di Mezzo? Questo non avrebbe alcun senso giacché tutti quanti sono tentati dal potere dell’Anello ma non per sottomettere le nazioni. Anzi, i buoni come Gandalf, Galadriel o Boromir sono attirati dall’Anello ma non manifestamente per compiere il male. Il male sempre si presenta come bene altrimenti non riuscirebbe ad indurre gli uomini a compierlo, solo il Demonio compie il male per il male non provando in esso né piacere né soddisfazione.

Dicevamo, perciò, che i buoni sono sì tentati di usare l’Anello ma per fare del bene. Come si vede la dinamica del peccato originale come quella del peccato attuale di ogni uomo è la stessa: fare affidamento sulla propria forza di volontà o sulle proprie buone intenzioni. Quando l’uomo pecca decide di fare il male per raggiungere un bene, vuole cioè farsi arbitro del bene e del male, utilizzando il male come via verso il bene. Nel peccato l’uomo vuole disporre del bene e del male, vuole cioè diventare come e più di Dio con le proprie forze. Questa è una costante ciclica nella storia dell’umanità dalla Torre di Babele all’ideologia filantropico-pacifista odierna radicata nel naturalismo antropologico. Ciò che fa difetto però non è che l’uomo desideri divenire come Dio giacché questo è stato il piano di Dio fin da prima della creazione. Dio, infatti, ha messo nel cuore dell’uomo il desiderio del Bene Infinito e dell’Eterna Felicità che è Dio stesso, Egli aveva già stabilito di far partecipare gratuitamente Adamo ed Eva della propria natura divina. I progenitori perciò sarebbero si diventati “come déi” ma per Grazia e non con le loro forze. Ma l’essenza del peccato è proprio questa, voler cioè fare il bene attribuendo a se stessi la capacità di farlo anziché a Dio che è l’autore di ogni bene e il Bene stesso.

La tentazione, poi, differisce da persona a persona a seconda dell’indole, delle inclinazioni, delle circostanze e del ruolo ma per tutti essa spinge al male anche se sotto la veste del bene, un bene parziale, apparente, non ordinato al fine e che in definitiva diviene male per colui che lo desidera perché lo distoglie dal Fine Ultimo che è il Bene Assoluto. Non può esistere la “tentazione al bene” e ciò mette in luce l’essenza perversa del peccato che lo rende inutilizzabile, ossia segnato da un divieto. Detto in termini moralmente più appropriati “il fine buono non giustifica mai i mezzi illeciti cioè cattivi”.



Nel caso dell’Anello, al pari di un qualsiasi altro oggetto o azione malvagia in sé stessa, la regola sarà: non è possibile utilizzare un mezzo intrinsecamente malvagio per ottenere un qualsiasi bene. Questa sarà la lezione che tutti i protagonisti del Signore degli Anelli dovranno imparare loro malgrado e ciò porterà alcuni all’autodistruzione (Gollum, Denethor, Saruman), altri alla frustrazione (Bilbo, Boromir), e tutti all’impotenza di poter utilizzare l’Anello per il bene nonostante le buone intenzioni.

A questo punto diventa più chiaro come l’Anello sia la rappresentazione allegorica del “peccato” ed è per questa stessa ragione che i buoni non possono utilizzarlo, l’unica possibilità che resta loro è distruggerlo, distruggere cioè il peccato, causa di ogni male sulla terra. Ma per adempiere a questa missione indispensabile alla salvezza della Terra di Mezzo è necessario che qualcuno “porti il peso del peccato” ossia che si faccia “portatore” del male per essenza per distruggerlo una volta per tutte. Colui che lo porterà dovrà essere uno che non ne subirà il malefico influsso tentatore, dovrà riuscire a vincere la tentazione di usarlo che è, come sempre il male, la via più facile. È necessario colui che la Sacra Scrittura definisce “l’innocente di mani e puro di cuore” (Psal 23,4). Serve qualcuno che si offra “liberamente” in sacrificio d’espiazione per tutti, che porti il peso del peccato di tutti senza lasciarsi vincere da esso, in definitiva serve un capro espiatorio: una vittima.

È interessante che Tolkien ritenga che per gli hobbit il passaggio alla maggiore età avvenga proprio ai 33 anni, gli anni della pienezza di Nostro Signore, gli anni in cui la virilità raggiunge il suo vertice, l’età in cui il Figlio di Dio scelse di abbracciare la Croce. Vero è che Frodo aveva sui cinquant’anni quando partì da Casa Baggins e non trentatré, ciononostante il concetto fondamentale è che il “portatore dell’Anello” è una persona matura, non un giovincello avventato. In realtà scopriamo che Frodo aveva la stessa età di Tolkien quando pose mano al Signore degli Anelli, i due cioè erano coetanei.

Ad ogni modo la scelta di Frodo di addossarsi quel penoso “fardello” non è priva di sofferenza, e la consapevolezza che dalla propria fedeltà o infedeltà dipenderà il destino di molti segna il suo cammino aumentandone il peso morale. Lui sa che deve farsi forte per i deboli, andare avanti quando gli altri cederanno e questo è forse un peso maggiore della stessa tentazione dell’Anello. “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni”, esclamò Frodo. “Anch’io” annuì Gandalf, “vale per tutti coloro che vivono in tempi come questi. Ma non tocca a noi decidere. Possiamo solo decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso”. Questa consapevolezza richiama un altro dogma fondamentale della nostra divina Fede Cattolica ossia laCommunio sanctorum. Tale articolo del Credo ci rivela che c’è una compartecipazione ai beni spirituali fra i santi, e il bene che ogni anima battezzata compirà per carità di Dio ridonderà a bene dell’intero Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa Cattolica. C’è quindi una circolazione della Grazia e un sostegno reciproco tra la Chiesa militante, la Chiesa Purgante e la Chiesa Trionfante dei beati. A questo stesso principio, ossia che ogni buona azione porta frutto a suo tempo, fa riferimento Gandalf quando ricorda a Frodo che Bilbo pur potendo fare il male non lo fece. “La pietà di Bilbo – dice Gandalf– può decidere il destino di molti”.

La somiglianza tra Frodo Baggins e Nostro Signore Gesù Cristo emerge velatamente, grazie all’intensità della narrazione e alla carica simbolica di cui Tolkien disponeva essendo un cattolico estremamente profondo e sensibile. Infatti, lo hobbit è il più piccolo essere della Terra di Mezzo, certamente non scelto per la sua forza né per la sua saggezza quanto per la sua umiltà. Il legame degli hobbit con la terra, con l’humus esprime proprio la caratteristica della loro semplicità edumiltà. Queste creature infatti vivono sotto terra, coltivano la terra, la rendono bella, piacevole e accogliente; hanno i piedi grandi ben piantati a terra. Potremmo quasi dire che gli hobbit vengano dalla terra e ciò ci riporta alla creazione dell’uomo plasmato da Dio con la polvere della terra. La stessa parola latina homo ha la sua radice etimologica precristiana nella parolahumus, segno chiaro della costituzione ontologicamente terrestre dell’uomo in accordo con quanto rivela la Genesi.

Proprio queste umili origini di Frodo Baggins rendono il suo eroismoradicalmente opposto a quello dei romanzi cavallereschi classici e ancor più a qualsiasi eroe prodotto dalla letteratura umanista e antropocentrica contemporanea: i supereroi dei fumetti americani ne sono la più ridicola e banale espressione.

Chi mai, infatti, avrebbe pensato fra i grandi re degli uomini e i sapienti re degli elfi che il “salvatore” della Terra di Mezzo sarebbe giunto dalla sperduta e insignificante contrada della “Contea”? Ciò richiama l’esclamazione dubbiosa di Natanaele: “Può mai venire qualcosa di buono da Nazareth?” (Gv 1,46) e la risposta di San Paolo spiega quanto i piani della Divina Provvidenza siano lontani e imperscrutabili alla sapienza umana: “La stoltezza di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini (e degli elfi, per non parlare dei nani)”.

Lo stesso viaggio verso il Monte Fato ricalca in maniera analogica le modalità e il fine del viaggio di Nostro Signore al Calvario, ossia il ritorno sul luogo dove il peccato originale è stato compiuto, reimpiegando lo stesso mezzo con cui era stata perpetrata la grande offesa contro Dio.

C’è una tradizione e delle rivelazioni private secondo cui Adamo fu seppellito su quello che sarà il Gòlgota cioè il monte Calvario. Tali tradizioni affermano poi che il legno dell’albero della conoscenza del bene del male da cui i progenitori presero il frutto del peccato, sarà lo stesso legno riemerso dopo secoli e utilizzato dai giudei per fabbricare la Croce alla quale inchiodarono Nostro Signore. Per questo nel Prefazio della Santa Croce la Chiesa prega: «unde mors oriebàtur, inde vita resùrgeret: et, qui in ligno vincébat, in ligno quoque vincerétur» («affinché donde aveva avuto origine la morte, di là scaturisse la vita; e chi nel legno aveva vinto, proprio nel legno fosse vinto»). Nel caso dell’Anello del Potere l’elemento d’origine non è il legno ma il fuoco. Quel fuoco da cui fu tratto l’Anello è lo stesso fuoco che lo distruggerà.





Anche gli altri membri della Compagnia dell’Anello si offrono di accompagnare la “vittima” cioè Frodo nel suo viaggio al Monte Calvario, liberamente offertosi come Cristo per la salvezza del mondo. Dice Frodo: “Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle”. In una parola: sacrificio. La morte di uno è il prezzo per la salvezza di molti. Quello che la Compagnia compie, dunque, è una vera e propria Via Crucis. Singolare poi il fatto che Frodo nel momento estremo della distruzione dell’Anello simbolo del Peccato si trovi solo, eccettuato Samwise Gamgee suo fedele servitore. L’“eroe” in questo caso non si trova a dover affrontare un drago o un mostro esteriore come Beowulf o Re Artù, ma deve vincere se stesso e l’interiore attrazione che il male esercita sulla sua volontà; quello di Frodo è un terribile combattimento interiore. Il resto dei membri che con lui erano partiti, non ci sono più, egli è da solo sul Monte, solo dinanzi al Male e all’estrema tentazione dell’Anello che sembra sopraffarlo rendendo vano tutto il viaggio compiuto fin là. In questa sconfitta finale e tragica del Portatore dell’Anello si vede inoltre come tra Frodo e il Cristo vi sia soltanto una analogia e non una identificazione. Sappiamo, poi, che Tolkien non ebbe l’intenzione esplicita di fare di Frodo una sorta di “figura messianica” ma, come abbiamo detto nel precedente articolo, una vera opera d’arte supera e sublima la semplice intenzione dell’artista realizzando non soltanto il desiderio della volontà ma anche tutto quel bagaglio di valori, di credenze e di virtù vissute che costituiscono la personalità stessa dell’artista. Da un’opera d’arte, infatti, conosciamo dell’artista molto di più di quanto egli non voglia effettivamente mostrare. Per questo dinanzi agli orrori e alle aberrazioni della cosiddetta “arte contemporanea” conosciamo lo stato dell’anima di questi artisti maledetti ovvero che sono anime vuote, morte alla Grazia e abbrutite dal peccato e questo lo esprimono nell’arte che producono che è ontologicamente, metafisicamente, inevitabilmente “BRUTTA”.

Ma torniamo alla Bellezza, che è uno con la Bontà e la Verità. La debolezza di Frodo, dunque, è coerentemente figura e paradigma del cristiano. Ogni cristiano, infatti, incede su questa “Terra di Mezzo” sul cammino verso il Monte “Fato” che è la Croce del Calvario, fra continue cadute e sinceri pentimenti. Il messaggio sotteso a tutta la narrazione deve essere chiaro: la vita dell’uomo su questa terra è un Purgatorio, nata e segnata dalla sofferenza. “Gli anni della vita dell’uomo sono settanta, ottanta per i più robusti ma quasi tutti fatica e sofferenza” dice la Sacra Scrittura. Tolkien, essendo nato in un’epoca “più cattolica”, aveva ben presente questa realtà, o meglio aveva ben presente “La realtà”, consapevole che l’uomo vive, esiste al solo scopo di guadagnarsi con l’ascesi, la mortificazione interiore e il sacrificio di carità i Beni eterni che la tignola non consuma né i ladri possono rapinare. Inutile lamentarsi delle sofferenze del tempo presente, non sta a noi decidere, dice Gandalf, il cristiano sa che il tempo non dipende da lui ma l’impiego che farà del tempo sì, e su questo verrà giudicato. Il Serafico padre San Francesco d’Assisi era solito ammonire i suoi frati dicendo loro: “Fratres, dum tempus habemus operemur bonum”.

Ed è proprio nel Tempo che la Provvidenza Divina supera e soccorre le deboli forze dell’uomo. Quando tutto sembra perduto, quando la disfatta sembra completa sul “Monte il Signore provvede”, e quell’essere meschino e malvagio che è Gollum, grazie a quell’incomprensibile atto di pietà di Bilbo, diviene in quell’ora estrema lo strumento della Provvidenza per portare a termine la missione di Frodo. Ciò manifesta la visione teleologica ed escatologica cristiana del Male il quale, in fin dei conti, per quanto possa sforzarsi nei suoi scopi oscuri, resta sempre uno strumento nelle mani della Sapienza Divina, e malgrado se stesso concorrerà a compiere i disegni divini. Il Male, quindi, non sfugge all’Onnipotenza divina, come il sinedrio e Giuda Iscariota aizzati da Satana credono di raggiungere i propri scopi, in realtà sono strumento per compiere il piano divino di Redenzione fissato fin dall’inizio dei tempi e che era stato annunciato dai profeti.

Infine il vero Signore degli Anelli non è Sauron ma neppure Frodo giacché anch’egli ne subisce il fascino. Sant’Antonio da Padova diceva che è vero signore soltanto colui che riesce a signoreggiare se stesso, colui che è dominus sui. Nel Signore degli Anelli solo Sam nella sua semplicità di “giardiniere”, riesce a vincere la seducente attrattiva dell’Anello del Potere creato dall’angelo caduto per ghermire e incatenare nell’oscurità. Accompagnando il suo padrone verso il Monte, Sam condivide il giogo e il peso dell’Anello come il Cireneo la Croce di Nostro Signore.

In ultima analisi, la missione di distruzione dell’Anello rivela come per vincere la tentazione al peccato e praticare le virtù sia necessario il sostegno e il conforto di un amico. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, del sostegno e della preghiera altrui. L’amicizia cristiana si basa infatti sull’Imitazione di Cristo che ha comandato di servirci gli uni gli altri e di amarci come Lui ci ha amato morendo per noi sulla Croce. Alla vita cristiana è necessario il sostegno e la carità fraterna, la fedeltà, la lealtà, l’amicizia cristiana, lo spirito di sacrificio per amore del fratello e dell’amico. Quale altra religione umana insegna l’immolazione di sé per amore di Dio e del prossimo? Nessuna.

Ma la libera e generosa offerta di Frodo lo condurrà molto al di là del Monte Fato. La sua missione non finirà con un ritorno a Casa Baggins. La vita terrena, la verdeggiante Contea, la locanda, i canti e le amicizie hanno perso per lui, ormai, ogni attrattiva: desidera soltanto la Pace. Il suo Calvario gli ha meritato l’ingresso nel Riposo eterno, alla beatitudine dei santi, al di là dell’oceano, lontano ad ovest.

«Paradiso, o paradiso!» esclamava gemente San Filippo Neri infiammato per il desiderio della vita eterna. Esso è la Meta ultima di questo penoso viaggio che è la vita, per coloro che avranno perseverato fino alla fine. Tale è la disposizione interiore che il cristiano dovrebbe nutrire nel cuore: il costante, intimo, ardente e gemente desiderio di essere per sempre con Cristo e in Cristo in Paradiso per essere ricongiunto all’Amore del suo cuore e per Lui rinunciare al mondo intero.

Tale atteggiamento traspare delicato nella dipartita di Frodo che Tolkien narra con toni di mistica poesia quasi desiderasse essere egli stesso, con Frodo, su quella nave per Valinor: “Allora Frodo baciò Merry e Pipino e per ultimo Sam, e salì a bordo; le vele furono issate, il vento soffiò, e lentamente la nave scivolò via lungo il grigio estuario; e la luce della fiala di Galadriel che Frodo teneva alta scintillò e svanì. La nave veleggiò nell’Alto Mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba”.

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