GRAZIA E MALVAGITA' DELLA STORIA
L’alternativa assoluta alla malvagità della storia non è l’antistoria ma la Grazia. La storia umana intesa in senso finito e immanentistico è puramente la storia del male. Allora che cosa opporle come reagire?
di Francesco Lamendola
La storia umana, intesa in senso finito e immanentistico, è, puramente e semplicemente, la storia del male: di come il male dilaga nel mondo, di come fa soffrire gl’innocenti (e, talvolta, anche i colpevoli), di come corrompe, inquina e avvelena anche le buone intenzioni, i programmi onesti, le anime rette. Che, poi, il male della storia sia solo e unicamente di origine umana; che gli uomini, da soli, siano capaci di tanta perseveranza e di tanta perfidia e crudeltà nel perseguimento deliberato del male, è un altro discorso.
Quando si pensa che per gli antichi Romani – uomini, donne e ragazzi – il massimo piacere e il sommo divertimento erano quelli di assistere, mangiando e ridendo, al massacro di migliaia di esseri umani, costretti a sbudellarsi a vicenda con la spada e col tridente, o a battersi con le bestie feroci, o ad essere divorati, inermi, da orsi, leoni e pantere, o arsi vivi, o crocifissi, o torturati in mille altre maniere, una più diabolicamente sadica dell’altra – la ruota, le tenaglie roventi, la flagellazione, il cavalletto per slogare le membra -, allora è difficile pensare che non vi sia una ispirazione che viene dal profondo dell’Inferno. Ma anche quando si pensa ai bombardamento aerei della guerra moderna, al modo in cui furono incendiate e distrutte, con le bombe al fosforo bianco, grandi città come Amburgo, Dresda, Tokyo, bruciando vive centinaia di migliaia di persone, o a come furono gettate le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e, ancora, a come i piloti degli aerei si divertissero a scrivere sui loro ordigni, prima di partire in volo, frasi inneggianti alla distruzione, alla morte e al rogo dei nemici, i quali erano, in effetti, solamente dei vecchi, delle donne e dei bambini, molti dei quali finirono orrendamente ustionati, o contaminati dalle radiazioni, e si spensero, magari a distanza di anni, su un letto d’ospedale, dopo infiniti e indicibili tormenti: anche in tali casi si fa fatica a non vedere, in tanta malvagità, in tanto compiacimento e in tale perseveranza nel male, una ispirazione diabolica.
Se, poi, dalla grande storia, quella dei popoli, delle nazioni, degli imperi, si passa alla piccola storia di ogni giorno, alla vita quotidiana delle persone qualsiasi, ci si accorge che quella è figlia di questa: che, nelle relazioni fra le persone comuni, non regnano l’onestà, la lealtà e la benevolenza, ma la cattiveria, la superbia e l’invidia; che il buono, il mite, colui che ha un animo nobile, finisce spesso e volentieri stritolati dall’egoismo, dal cinismo e dalla spregiudicatezza dei furbi, dei prepotenti, dei disonesti; che il merito raramente viene premiato, e la bontà quasi mai ricompensata; che nelle famiglie, nelle professioni, negli affari, nella politica, ad avere l’ultima parola non sono, il più delle volte, le persone di retto sentire e di alti principi, non sono le persone che possiedono bontà e spirito di sacrificio, ma gli intriganti, i malevoli, i perfidi, coloro che si fanno strada con gli espedienti, con le menzogne, con le insinuazioni, con le amicizie potenti, con i mezzi più subdoli e sleali. Fanno carriera non i migliori, ma i più astuti; non i più bravi, ma i più ambiziosi; non i migliori, ma – troppo spesso – proprio i peggiori. A ricevere lodi, onori e riconoscimenti sono ben di rado coloro che realmente li meriterebbero, vuoi per la loro eccellenza, vuoi per l’abnegazione e l’altruismo; molto più spesso accade che a riceverli siano quanti sanno dissimulare, sanno mentire, sanno presentarsi per ciò che non sono, indossando ogni volta le maschere che più convengono loro, che meglio servono le loro ambizioni e la loro brama di emergere ad ogni costo.
E a tutto ciò si accompagnano i disordini morali, il relativismo, gli appetiti sfrenati, la promiscuità sessuale, la lussuria sfrenata e senza pudore, l’incesto, la pedofilia, il sadismo, l’inversione, ogni sorta di perversione, sempre più spesso non già nascosti e tenute segreti, ma esibiti, ostentati, sbattuti in faccia al prossimo, con il malvagio intento di turbare, scandalizzare, ferire i sentimenti altrui: e il tutto – supremo sfregio e culmine dell’abiezione - mascherato da battaglia in favore dei diritti della persona umana, da rivendicazione della propria incoercibile sfera di libertà, persino da contributo alla costruzione di un mondo più “giusto” e più “tollerante”, vale a dire di un mondo “migliore”.
Che cosa opporre a tutto questo male, a tutta questa violenza, a tutto questo perverso piacere di sguazzare nel fango? Se la storia degli uomini è la storia della violenza, della cattiveria, della menzogna, dell’ingiustizia, che cosa opporle, come reagire? Coloro i quali restano prigionieri dell’orizzonte limitato della storia chiusa in se stessa, prontamente rispondono: rovesciando la situazione. Si fa, pertanto, una bella rivolta, una bella rivoluzione; si fa del “buon” terrorismo, si uccidono i malvagi, si puniscono i rei, si eliminano gli ingiusti: ed ecco che il mondo ritornerà ad essere un luogo abitabile, ecco che la storia umana cesserà di essere il luogo dello sfruttamento e della malvagità, e diventerà il luogo della fratellanza e della solidarietà. Funesta illusione, smentita infinite volte dall’evidenza stessa dei fatti, eppure sempre risorgente e sempre pronta a sedurre milioni di esseri umani! Quando mai una rivoluzione violenta, quando mai la “santa” ghigliottina, quando mai il terrorismo politico hanno ripristinato la giustizia, hanno restituito ordine e pace alle nazioni, hanno permesso di realizzare una società migliore, ordinata, pacifica, armoniosa? Un albero, diceva Qualcuno, si riconosce dai frutti: ma come potrebbe un albero cattivo, un albero velenoso, un albero intrinsecamente malefico, portare dei frutti buoni, rendere migliore il campo ove è cresciuto e in cui affonda le radici? Porterà fatalmente dei frutti velenosi, spargerà ulteriore malvagità, moltiplicherà le ingiustizie, i rancori, il desiderio di vendetta, l’odio implacabile.
La riflessione sul senso della storia umana e del male in essa presente è sempre stata al centro del pensiero di Alessandro Manzoni, e non solo nei Promessi sposi, ma anche nelle opere minori, a cominciare dalle due tragedie. Egli, da cristiano, vede chiaramente che al male della storia non si può opporre il male di una “antistoria” che pretenda di ribaltare la situazione, e nemmeno, come scrittore, ritiene che gli si possa opporre l’ironia o l’umorismo (come invece cercheranno di fare, con pessimi risultati, gli scrittori del Novecento, da Pirandello al “teatro della crudeltà”); perché il male presente nella storia è una cosa terribilmente seria, che esige una risposta altrettanto seria: e nessun cerebralismo, nessun pirandellismo, nessun surrealismo, nessun lazzo e cachinno e sberleffo, alla maniera di Alfred Jarry e del suo Ubu re, potranno mai fornire gli strumenti per rispondere ad essa nella sola maniera possibile: ossia cercando di superarla. Il problema è che, appunto, finché si resta entro l’orizzonte dell’immanenza, una risposta soddisfacente non esiste; l’unica risposta non può essere che metafisica, soprannaturale: non può essere che la Grazia divina. E il cristianesimo, la religione del Dio che si fa uomo per condividere la sofferenza degli esseri umani, bevendone l’amaro calice sino alla feccia, è l’unica risposta che riesca a placare l’inquietudine e lo sbigottimento umani davanti al grande mistero del male, pur sena avere la pretesa di fornire una esauriente spiegazione sul piano meramente razionale. Perché il Male, in ultima analisi, è mistero; è uno dei più grandi misteri del cristianesimo: e quando diciamo “mistero”, intendiamo dire qualcosa che la ragione degli esseri finiti non è in grado di penetrare sino in fondo, ma che non contrasta affatto con la logica umana, anzi, in un certo senso scaturisce proprio dallo scacco della ragione umana, dalla constatazione che essa può arrivare solo fino ad un certo punto, mentre la brama di sapere, di capire, di trovare una risposta, non cessa e non si acquieta, semmai cresce ancor più davanti alla constatazione che la ragione è impotente a risponderle, con le sue sole forze.
Scrive, a proposito di Manzoni davanti a questo grande problema, il critico letterario Angelo Marchese (Genova, 1937-Firenze, 2000), nel suo commento a I promessi sposi (Milano, Mondadori, 1985, pp. XXVII-XXVIII):
Compito dello scrittore è rappresentare artisticamente la negatività della storia, sempre impastata di violenza e di menzogna, e di rovesciare con la forza critica dell’ironia e dell’umorismo i miti ideologici d’ogni colore (l’autoritarismo, soprattutto, ma anche l’irrazionale sovversivismo: si veda la paradossale vicenda della statua di Filippo II-Bruto , nel cap. XIV). Manzoni smaschera ogni idolatria storicistica e l’idea stessa di una storia “magistra vitae”, osservando all’interno del cosiddetto progresso il permanere di strutture psicologiche, culturali e “civili” oppressive e mistificatorie.
L’alternativa assoluta alla storia non è, per Manzoni, l’antistoria degli umili degli umili come Renzo: è semplicemente la grazia, che permea il sacrario della coscienza, fondandone l’autenticità e la libertà. Il pessimismo del grande romanziere è il pessimismo di un’intelligenza illuminata da una spiritualità e da una cultura che negano ogni armonico disegno della storia, ogni razionalità intrinseca al pulviscolare moto degli eventi e, tanto più, una blasfema provvidenzialità che ne giustificherebbe gli orrori il senso di Dio non si evince dal mondo, come vorrebbe una pacificante teodicea (alla Pangloss, il personaggio del “Candido” di Voltaire). Eppure nel Manzoni c’è l’ottimismo tragico della fede che spinge, nonostante tutto, alla prova dell’impegno, al servizio e al sacrificio, secondo il modello di vita di un padre Cristoforo o di un cardinal Federigo. C’è la prospettiva di una “allegrezza raccolta e tranquilla”, il testamento spirituale del buon frate ai due giovani finalmente ricongiunti. Il Manzoni ci fa intendere che dentro a una storia negativa e immodificabile si salvano solo i rapporti autentici, rinsaldati dall’amore.
Molto ci sarebbe da dire – e una volta o l’altra lo diremo – su questa propensione illuministica di Manzoni ad assumere il punto di vista di un Voltaire contro quello di un Leibniz; a diffidare o respingere l’idea stessa della teodicea; perché, se è vero che, umanamente parlando, il cristiano è, e non può che essere, alquanto pessimista circa la storia umana, tuttavia, in quanto credente in un Dio che ha trionfato del male e additato la via per oltrepassarlo, egli deve essere ottimista; e se è vero che, nella dimensione del finito, l’uomo difficilmente può giungere al Bene, cioè a Dio (il che non vuol dire che sia impossibile, come il caso di tanti santi dimostra), è altrettanto vero che il cristiano ha sempre lo sguardo rivolto in alto, sorretto dalla Fede, dalla Speranza e dalla Carità, le quali lo aiutano a intravedere ciò che si cela dietro le vie, tortuose e malagevoli, della realtà umana. Al tempo stesso, pare manchi a Manzoni la percezione del Male con la maiuscola, residuo, forse, dalla sua formazione culturale illuminista: ma il cristiano sa che, come esiste il Bene, c’è pue il Male.
È triste, e anche paradossale, che, oggi, un numero crescente di cristiani, o sedicenti tali, nonostante tanti esempi continuamente offerti dalla storia, si siano fatti seguaci di una filosofia della praxis che consiste nel tentativo d’instaurare fin d’ora il Regno di Dio sulla terra, in un senso prettamente materiale; che essi paiano convinti che, una volta sconfitte le malattie, la povertà, le ingiustizie, l’analfabetismo, la storia si volgerà in bene, anzi, diventerà essa stessa il regno del Bene: quasi che sia possibile migliorare l’opera di Dio, se non nella dimensione dell’assoluto, almeno in quella del finito. Invece l’opera di Dio non è migliorabile, e per una ragione assai semplice: che essa si fonda sul libero arbitrio, ossia sul rispetto della libertà umana da parte di Dio stesso. Dio, che è Amore, non ha voluto degli uomini schiavi, ma degli uomini liberi; e nella libertà c’è la possibilità della scelta sbagliata, della scelta del Male invece del Bene. Il male presente nella storia deriva da questa deviazione della volontà umana rispetto al suo fine naturale: e nessuna riforma politica o sociale, nessuna rivoluzione, di destra o di sinistra, nessuna iniziativa finanziaria, economica o culturale, potranno mai cambiare questo stato di cose: ossia che la storia è, e resterà, il regno dell’ingiustizia e della violenza, nel quale gli uomini di buona volontà seguiteranno a versare il loro sudore, le loro lacrime, a profondere i loro sforzi e i loro sacrifici, per illuminare almeno un poco le tenebre dell’ingiustizia e della malvagità e per indicare la strada, ma sempre con l’aiuto di Dio e non da se stessi, ai loro simili bisognosi di una guida, di un sostegno, di un conforto.
Questo, naturalmente, pone un grosso problema, specialmente a quei cristiani che hanno fatto proprie le filosofie del progresso, dello sviluppo, della modernità. Essi ritengono che giudicare la storia come il regno del male equivalga a rinchiudersi in un angolino isolato, rifiutandosi di combattere la buona battaglia per il miglioramento del mondo. Naturalmente non è così, e basterebbe poco per rendersene conto: l’autentico messaggio cristiano non è un invito alla rinuncia o alla passività, ma, certamente, è anche un invito alla rassegnazione e alla accettazione. Il cristiano non subisce il male e, se può, lo combatte; tuttavia non pretende di sradicarlo, perché tale compito non spetta a lui, ma a Dio; quel che gli si chiede, è di attenuarlo e lenirlo, con l’aiuto della Grazia…
L’alternativa assoluta alla malvagità della storia non è l’antistoria, ma la Grazia
di Francesco Lamendola
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