Cento anni fa, il 24 aprile del 1916, l’Irlanda insorse per rivendicare la propria indipendenza, dopo secoli di occupazione inglese, un’occupazione che per trecento anni aveva significato in primo luogo persecuzione religiosa, con la Chiesa cattolica costretta nelle catacombe, alla clandestinità. L’insurrezione si concluse con un fallimento, ma a causa della durissima repressione inglese che ne seguì, riuscì a risvegliare nel popolo irlandese la consapevolezza della propria identità nazionale.
Quest'isola, da cui nel Medioevo erano venuti monaci e cavalieri, studiosi e folli mistici, poeti sublimi ed evangelizzatori instancabili, aveva subito per secoli il tentativo ossessionante degli invasori di strapparle l'anima. Le fu tolta l'antica lingua gaelica, la libertà, la cultura, ma nessuno riuscì mai a toglierle la fede. Una fede che significava amore testardo e fedele per la verità e la giustizia annunciati da Cristo e che avevano forgiato un popolo unico nella storia.
Tutto cambiò davvero, in quel lunedì di Pasqua, come ebbe a scrivere Yeats? In realtà la storia irlandese, anche nel ‘900, anche dopo la Rivolta, è stata attraversata da un elemento di continuità: la sua fede. É scritto che il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani, e il martirio civile ma anche religioso del 1916 generò dei nuovi irlandesi, consapevoli pienamente dei propri diritti e soprattutto della propria identità. Iniziò, soprattutto grazie alle politiche culturali di de Valera, un pieno recupero delle sue radici: la cultura celtica arcaica, l'età dell'oro della civiltà monastica, il tempo delle persecuzioni, le diverse espressioni del cristianesimo irlandese. Questo tipo di fede, intensa, mistica, innamorata, è stata dunque in grado di generare una nuova civiltà, che ha retto per 1.500 anni, che ha affrontato prove, che ha seminato in ogni parte del mondo e dato frutti, dando luogo ad una civiltà, quella dei monasteri, le cui rovine possiamo oggi ammirare con rimpianto: la Glendalough di St.Kevin, Monasterboice, Mellifont, Clonmacnoise.
Quelle enormi croci, quelle torri rotonde dalle quali si cercava febbrilmente di avvistare l'arrivo degli invasori vichinghi, quegli eremi rocciosi sperduti nell'Atlantico come Skellig Michael, dai quali salpavano i fragili curragh che si inoltravano nel deserto d'acqua dell'Oceano senza timonieri, "essendo Cristo il Pilota", come aveva fatto San Brendano. Quei codici miniati, primo tra tutti il Book of Kells che ammiriamo esterrefatti, sono la testimonianza di una cultura unica e irripetibile fondata sull'avvenimento cristiano. Gli irlandesi rimasero testardamente cattolici, ossia cristiani dell'unica, antica fede che era stata loro trasmessa. Ciò significò il martirio, la miseria, la sofferenza, la diaspora, ma nulla mai valse a far recedere gli irlandesi da ciò che avevano di più caro, che più di ogni altra ragione, etnica, culturale o sociale ne costituiva l'identità.
Oggi, tuttavia, per la prima volta, nel corso di tanti secoli, si è aperta una linea di frattura fra la Chiesa e la società irlandese attuale, che si è avviata a diventare una delle “società liquide” della post modernità, con una classe politica alla rincorsa di ogni possibile espressione del polically correct. Era per una società di questo tipo che combatterono gli eroi del ’16? Sembra un paradosso, ma dopo aver tanto a lungo lottato per l’indipendenza l’Irlanda attuale sembra tornata ad essere un Paese colonizzato. Colonizzato da tutte le mode politiche e culturali che vengono dall’esterno, e non solo dall’Inghilterra. A che è valsa, allora, tanta sofferenza, se il destino dell’Irlanda era quello di diventare una piccola, simpatica provincia periferica di un mondo globalizzato? Per non rendere vano tutto questo, l’Irlanda deve ritrovare la propria anima.
A distanza di un secolo dalla Rivolta di Pasqua, l’Irlanda deve ritrovare se stessa, deve ritrovare le ragioni del suo essere una comunità di destino, con un lungo cammino alle spalle, e il futuro che attende questa giovane Nazione nell’ambito dell’Europa. L’Irlanda deve ritrovare lo spirito degli uomini del ’16, il cui fallimento portò infine al trionfo della causa per cui loro e le generazioni passate si erano battuti. Bisogna tornare alla Proclamazione del Lunedì di Pasqua, al suo spirito, alla sua forza morale.
Paolo Guliano, Per l’onore di Irlanda. L’insurrezione irlandese del 1916, Edizione il Cerchio
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