Ridere non faceva ridere. Schifo, quello sì, ma per via degli insetti ingurgitati per compiacere il capo. Lo show (?) blasfemo di Beppe Grillo a Torino rivela in tutta la sua chiarezza la povertà di inventiva di un comico che, evidentemente in crisi di ispirazione, ha pensato di buttarla sull’irriverenza per cercare di attirare l’attenzione su di sé. Infatti c’è riuscito. Il Corriere ne ha parlato subito, il Pd addirittura si è infervorato manco fosse il custode della dottrina e almeno per un po’ si è potuto parlare di uno spettacolo che diversamente non avrebbe occupato neanche una riga di cronaca.
La pagliacciata di sabato sera all’Auditorium del Lingotto si è materializzata quando il fondatore del Movimento Cinque Stelle ha preso una ciotola e ha iniziato a imboccare alcuni esponenti pentastellati con dei grilli rinsecchiti. «E’ il corpo di Grillo», ha detto e la tristezza non era tanto nel guru ormai decaduto che per tirare avanti inscenava un sacro convito tanto blasfemo quanto ridicolo, piuttosto nelle reazioni dei militanti, tra cui un senatore e la candidata sindaco di Torino: sorridenti a denti stretti, peggio della claque a disposizione del megadirettore che umiliava Fantozzi, la quale almeno doveva solo omaggiare la signora. C'è più dignità nelle vergini in batteria pronte a soddisfare il tiranno coreano. E più eroismo nella minoranza Pd che fa finta di fare la guerra a Renzi.
Povero Grillo. Quando negli anni ’80 faceva ridere davvero occupava le prime serate in tv. Poi i palasport pieni e una lunga cavalcata politica che deve avergli montato la testa: militanti invasati e iniziati, la conquista del potere, il controllo delle menti attraverso una gestione del movimento Cinque Stelle settaria e iniziatica. Adesso, formalmente rientrato nel mondo dello spettacolo, la triste parabola discendente di un ricco e furbo santone, che chiama i militanti politici a pagare il biglietto del suo show. E li umilia con una comunione che offende non solo i credenti, ma riesce a stomacare anche chi non crede.
Difficile provare a “sociologizzare” l’orrido teatrino del comico genovese. Cosa avrà voluto dimostrare? Quale messaggio nascosto avrà voluto veicolare ai suoi? Inutile cercare risposte, perché risposte non ce sono. Il tutto si è svolto secondo il copione tetro della banalità del sacrilego: fine a se stesso se non per quel bisogno ossessivo di risultare esoterici anche davanti a 800 persone. Appena la metà di quanti l’auditorium ne potesse contenere.
Forse una morale da questa storiaccia si potrebbe tirare fuori: che il movimento Cinque Stelle non avesse particolare interesse verso la Chiesa e il messaggio cristiano era cosa nota. Ora sappiamo anche che è anche profondamente ostile alla sensibilità dei cattolici, molti dei quali lo hanno votato perché in fondo, le trivelle, la differenziata etc...
A proposito di cattolici. Non poteva mancare il fervorino del Pd, che con il sottosegretario Luca Lotti si è detto disgustato per la sceneggiata. Aggiungendo: «Da padre mi domando se sia giusto ironizzare su quello che per me è un sacramento», dando così prova di un relativismo niente male. Perché quello che per Lotti è un sacramento lo è anche per un altro. Non è che smette di essere tale se qualcuno non ci crede. In quanto a difensore della dottrina Lotti dovrebbe fare almeno un ripassino.
http://www.lanuovabq.it/it/articoli-che-pena-il-grilloblasfemo-15826.htm
Cos’è il peccato? La confusione imperante lo ha fatto passare di moda e oggi nessuno lo sa più
“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro” (Is 5, 20)
“Orribil furon li peccati miei / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei” (Purg. III, 121 – 123)
Il mondo moderno, come ha escluso Dio dal proprio orizzonte, così ne ha escluso anche il demonio il quale, invece, in questo momento storico esulta e brinda con la sua corte al suo più importante successo che è proprio quello di aver convinto l’umanità della sua inesistenza.
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Un articolo del Prof. Corrado Gnerre[1] mi offre lo spunto per riflettere (e, lo confesso umilmente, anche il motivo di piangere, dato che lo scristianizzato mondo moderno mi ha fatto diventare una piagnucolona) su un tremendo fenomeno del nostro tempo che sembra dimenticato da tutti, a cominciare (altro motivo di dolore) anche dal clero cattolico: il senso del peccato. E tutto ciò è avvenuto nonostante il XX secolo abbia visto l’avvento di due Papi dichiarati santi (Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II) e di altri due (Pio XII e Paolo VI) che probabilmente saranno prima o poi canonizzati. Come ha potuto verificarsi questo fenomeno, che a me sembra una profonda contraddizione negli eventi, alimentata proprio da colui che vuole apportare divisione e discordia?
Il Prof. Gnerre ha preso lo spunto dal terribile episodio di violenza e di sangue verificatosi recentemente a Roma, in cui dei “giovani – bene” hanno assassinato un loro coetaneo “solo per vedere l’effetto che fa”. A questo io aggiungo la“coppia dell’acido” che a Milano ha devastato per vendetta (sbagliando anche persona) il volto di un disgraziato ragazzo, come aveva fatto precedentemente anche un avvocato (quindi non certo un ignorante o un essere primitivo) per vendicarsi della fidanzata che lo aveva lasciato. Poi mi torna in mente che alcuni anni fa, due ragazze affiliate a una setta satanica assassinarono brutalmente una povera suora che si prendeva cura di loro e che morì perdonandole. Se a questi episodi aggiungiamo le infermiere che praticano iniezioni letali agli anziani pazienti affidati alle loro cure e gli orrori di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache, c’è veramente da domandarsi se l’umanità stia perdendo il più elementare barlume della ragione retrocedendo inconsapevolmente sul sentiero della civiltà. Ma non solo questo: quello che si è perso (ed è la perdita più tragica) è il senso del peccato contro Dio e contro il prossimo. La domanda che mi angoscia è: come è stato possibile che avvenisse tutto questo?
Il Prof. Gnerre dà a questi fatti atroci una spiegazione teologica che io condivido in pieno: in questo inizio del XXI secolo il demonio ha preso il sopravvento sulle azioni umane provocando una “rivoluzione culturale” a 360 gradi che, a sua volta, ha messo in discussione le categorie del Bene e del Male assimilandole e rendendole pertanto indistinguibili le une dalle altre. Non parliamo poi del “peccato mortale” pastoralmente ben delineato dal Catechismo di S. Pio X! Questo è stato completamente derubricato e neppure i Papi che ho citato sono riusciti ad arginare questo nefasto fenomeno, già espresso dal Profeta Isaia nella frase che ho citato in epigrafe e che vediamo verificarsi ogni giorno a livello sociale, politico, antropologico, culturale e, purtroppo, anche religioso. E’ quello che pratica oggi l’umanità contrabbandando certe aberrazioni come intangibili diritti umani, “chiamando bene il male e male il bene” e alimentando così il senso di confusione che alligna nelle menti e nei cuori del popolo di Dio e, aggiungo con dolore, anche della Chiesa istituzionale.
Aggiungerò, perciò, qualche glossa allo scritto del Prof. Gnerre, al quale anzitutto va la mia gratitudine per avermi insegnato col suo articolo un detto (che non conoscevo) di un altro grande Santo, Padre Pio da Pietrelcina, che trovo estremamente veritiero nella sua icasticità, perché mi sembra che accomuni quell’umile e santo frate ai Profeti dell’Antico Testamento: “Verranno presto giorni in cui ai figli non basteranno lacrime per piangere gli errori dei propri genitori …”.
Mai parole, oltre a quelle pronunciate da Cristo mentre, carico della croce, saliva al Calvario, (“Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli … perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”, Lc 23, 28 ss) mi sono sembrate più vere. Il momento storico che stiamo vivendo ne è la dimostrazione concreta perché quando l’uomo rifiuta Dio, come è avvenuto nel XX secolo in campo filosofico, politico, sociale e perfino nella vita spicciola quotidiana, allora perde il senso del peccato e inizia la sua irrefrenabile discesa verso la decadenza storica, umana, civile, sociale che già vediamo attuarsi intorno a noi, coinvolgendo tutte le generazioni successive, spiazzate perché non trovano sicuri punti di riferimento in coloro che sono venuti prima di loro, dato che questi ultimi non hanno avuto nulla da insegnare loro e, come avviene per il “legno secco”, corrono il tremendo rischio di essere bruciati anche più del “legno verde”,sicuramente meno responsabile. E’ la perfetta realizzazione delle profezie di Gesù e di Padre Pio.
Ma che significa la parola “peccato”che ormai sembra passata di moda nella lingua italiana se non per esprimere delusione o rimpianto quando il caso o eventi a noi estranei ostacolano i nostri banali e stupidi progetti? (“Che peccato! Piove e la gita è saltata …!”)? [2]
Infatti, con grande soddisfazione del demonio, oggi il mondo ha perso ogni dimestichezza con quella parola perché non se ne parla più: nessuno crede più di peccare e tanto meno considera il “peccato” come una offesa a Dio e l’allontanamento dalle Sue vie; tutto al più , se il peccato coincide con un reato punito dal Codice Penale, il “mondo” inorridisce, deplora l’evento ed auspica una severa condanna per il reo; ma se questa coincidenza non esiste, si parla al massimo di “senso di colpa” ( e solo nel caso in cui il “peccatore” abbia in qualche modo nuociuto al suo prossimo) da cancellarsi con molte e costose sedute psicoanalitiche. Infatti il senso del peccato comporta elementi che non si trovano nel senso di colpa e che rimandano ad ambiti diversi da quelli delle scienze umane. Sicuramente la psicologia può aiutare ad affrontare il senso di colpa, ma non può nulla contro il senso del peccato: il terapeuta può fare molto per il suo paziente, ma non può purificarlo dal peccato, perché il Sacramento della Penitenza , o della Riconciliazione, mette il penitente in rapporto con una realtà spirituale e trascendente molto diversa dall’esplorazione del profondo di sé e di cui nessuno sospetta più l’esistenza.
Come sempre, procedo nella mia riflessione con la Bibbia sott’occhio. In tutta la tradizione ebraico – cristiana il peccato è il rifiuto dell’uomo di corrispondere all’amore di Dio obbedendo alla Sua legge, così come, secondo la tradizione, fece Lucifero, il più bello degli angeli , il “Portatore di Luce”, quando si ribellò al suo Creatore lanciandoGli il grido “Non serviam!”.
La tradizione vetero – testamentaria esprime il concetto di peccato con diversi vocaboli dal diverso significato: “hattà” (fallire il bersaglio) indica il fallimento dell’uomo che si allontana da Dio e quindi anche dal prossimo; “awon” (torcere, curvare) indica la deviazione dalla retta via[3]; “peshà” (ribellione al sovrano) indica la rivolta contro il progetto di Dio. Perciò la conversione, sempre auspicata e invocata, è vista come un cambiamento di rotta, un tornare indietro di 180 gradi (mi verrebbe da dire, usando termini automobilistici, una “conversione a U”), un ritorno a Dio (“teshuvà”, ossia la “metànoia” di cui avrebbe poi parlato Gesù). Anche la lingua greca del Nuovo Testamento usa, per designare il peccato, un termine (“amartìa”), che il Dizionario Greco – Italiano di Lorenzo Rocci, fedele compagno quotidiano di tanti studenti della mia generazione, assimila nel dialetto attico (il più puro tra i dialetti dell’antica Ellade), al concetto di “errore”, di “fallo” e addirittura di “errore di giudizio”.
E infatti se noi, che apparteniamo alla grande tradizione ebraico – cristiana, ci soffermiamo un momento a riflettere sul significato di quelle espressioni, sia ebraiche che greche, ci rendiamo conto che i nostri “fratelli maggiori”, sia di lingua ebraica che greca, avevano perfettamente compreso la natura del peccato. Tutti noi abbiamo chiara in mente l’idea del Bene Assoluto, tutti noi vorremmo vivere in un mondo dominato dall’Amore, dalla Pace, dalla Solidarietà e dalla Fraternità tra i popoli ma sappiamo anche, conoscendo bene la storia umana , che questa aspirazione è una mera utopia perché, pur sapendo cos’è il Bene, non riusciamo ad attuarlo. L’esempio storico più eclatante è quello della Rivoluzione Francese – di cui i nostri cosiddetti “cugini d’Oltralpe”, fieri della loro laicità, menano gran vanto – la quale, al grido delle bellissime paroleLiberté, Egalité, Fraternité, immerse la Francia in un bagno di sangue. S. Paolo ha espresso meravigliosamente questo mistero descrivendo la “lotta interiore” che egli stesso combatteva: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto … c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7, 14 ss).
Come si spiega tutto ciò? Se è vero che Dio ha creato il mondo per amore e provvede paternamente alle Sue creature, è ovvio che Egli conosce perfettamente (e meglio di noi) cosa è buono e giusto per loro – dato che Lui stesso aveva constatato che la Sua creazione era “cosa buona” (Gen 1, 25) – anche se a volte il Suo progetto non collima con il nostro. Per questo Dio ci ha dato il Decalogo, l’eterna legge di natura inscritta indelebilmente nel cuore e nella mente dell’umanità, da cui discendono in negativo, come in una fitta ramificazione, tutti i comportamenti umani, anche quelli che sembrano più spiccioli e banali. Ma Dio ci ha dato anche la libertà di scegliere tra il Bene e il Male e se facciamo la libera scelta di rifiutare quella legge naturale, che Egli ha reso comprensibile e accettabile da tutti i popoli in ogni tempo e in ogni latitudine, falliamo il bersaglio(“hattà”), sbagliamo la meta del nostro cammino (“awon”), ci ribelliamo a Lui (“peshà”), commettiamo un enorme errore di giudizio (“amartìa”) perché l’uomo, quando pecca, crede sempre che il suo atto sia un Bene. Invece è solo un atto“disordinato” che finisce per distoglierlo dal fine per cui l’uomo è stato creato[4]. In questo modo l’uomo finisce per accomunarsi a Lucifero, la prima creatura di Dio che, rifiutando il progetto di Lui, commise il peccato di superbia, perché ritenne di poter essere autonomo dal suo Creatore e costituire legge per se stesso.
Le parole usate da Paolo per descrivere la condizione umana di fronte al Male sono diventate un “topos” letterario e hanno attraversato la storia della letteratura da Francesco Petrarca, a William Shakespeare, a Ugo Foscolo (“Conosco il meglio et al peggior mi appiglio”) segno che sono riconosciute come profondamente vere dallo spirito umano. Paolo aggiunge: “Se faccio quello che io non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me” e vivendo sulla sua pelle la tragicità della condizione umana, grida: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”. Infatti il corpo umano è “votato alla morte” perché se ”con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Rm 7, 24). E’quello che fecero Adamo ed Eva i quali, pur sapendo quale fosse il Bene Supremo, dettero retta alla loro “carne” e il loro peccato generò la morte. Il pessimismo sembra totale, ma Paolo conclude il Cap. 7 della Lettera ai Romani rendendo “grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”, perché può dominare la “carne” tenendosi unito a Lui che ci ha riscattati dal peccato.
Citando queste ultime parole di S. Paolo mi torna in mente l’episodio di Manfredi nel III Canto del Purgatorio di Dante e mi accorgo che sto sfiorando il tema sublime e affascinante della Misericordia Divina, cui è stato dedicato l’anno in corso. In proposito ci sarebbero da dire un’infinità di cose che trascendono le capacità di una semplice cattolica “bambina” e i limiti di questa riflessione. Le rivelazioni che Gesù fece al riguardo a S. Faustina Kowalska sono di eccezionale edificazione spirituale ma, sempre riflettendo da cattolica “bambina”, a me sembra che ci sia un aspetto di questo meraviglioso dono fatto da Dio all’uomo che non è stato messo sufficientemente in luce in quest’anno giubilare e che rischia seriamente di essere frainteso perché il mondo moderno è diventato troppo sicuro di se stesso.
Dio conosce bene la nostra debolezza e i nostri innumerevoli limiti ed è vero che non c’è peccato, neppure il più orrendo, che non possa essere perdonato, se accettiamo di riconoscerlo sia pure, come avvenne per Manfredi, negli ultimi istanti di vita“mentre che la speranza ha fior del verde”. A tutti gli altri viene proposto di cambiare vita, di invertire il senso di marcia dirigendosi di nuovo verso di Lui. Le parole pronunciate da Gesù al riguardo sono piene di misericordia, ma anche chiarissime nei confronti di chi rifiuta l’inestimabile dono dello Spirito : ”Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro” (Mt 12, 31 – 32).
Il peccato di cui parla Gesù è chiamato “peccato contro lo Spirito Santo” perché è alla terza persona della SS. Trinità che sono specificamente attribuite le manifestazioni esteriori della bontà divina. Quel peccato è imperdonabile non tanto per la sua gravità e malizia, quanto per la disposizione soggettiva della volontà, tipica di questo peccato, che chiude le porte al pentimento: esso consiste nell’attribuire malignamente al demonio i miracoli e i segni operati da Cristo, l’unico “Agnus Dei qui tollit peccata mundi” (Gv 1, 29). In tal modo il peccatore si scrolla dalle spalle ogni responsabilità personale e, ritenendo di avere comunque diritto alla misericordia di Dio, in realtà si esclude volontariamente e liberamente dal perdono di Lui.
Come riferisce anche l’Evangelista Marco parlando dello stesso episodio evangelico, Gesù aveva già compiuto molti miracoli quando pronunciò quelle parole, ma gli scribi non volevano riconoscere in essi l’opera di Dio che, invece, attribuivano a satana, e accusavano Gesù di “essere posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3, 22 ss). Quindi la “bestemmia contro lo Spirito Santo” è il rifiuto cosciente e libero dell’uomo di riconoscere l’opera di Dio, di ascoltare la voce della sua coscienza, quella “sinderesi” di cui parla S. Tommaso d’Aquino che deve sempre essere orientata su Dio così come l’ago della bussola è perennemente orientata sul Nord; è la voce dello Spirito Santo (altro meraviglioso dono di Dio) che ci fa vedere con estrema chiarezza il male che abbiamo commesso e ci invita a imprimere alla nostra vita la “conversione a U” di cui parlavo poc’anzi. Infatti è il demonio che ci induce a non riconoscere l’opera della Grazia divina facendoci credere di avere comunque diritto alla Sua misericordia.
Ma il mondo moderno, come ha escluso Dio dal proprio orizzonte, così ne ha escluso anche il demonio il quale, invece, in questo momento storico esulta e brinda con la sua corte al suo più importante successo che è proprio quello di aver convinto l’umanità della sua inesistenza. Poiché la Verità non esiste, l’uomo può fare quello che vuole attribuendo la natura di Bene a tutto ciò che gli fa comodo e quella di Male a tutto ciò che non gli piace o è contrario ai suoi progetti. Tanto “i tempi sonocambiati” e Dio, se esiste davvero, ci perdona sempre e quasi ci autorizza a perseverare nel nostro peccaminoso stile di vita, che per noi è un Bene, e di accostarci impunemente ai Sacramenti come è nostro diritto.
Questo è l’equivoco che io vedo circolare oggi tra il popolo di Dio alimentato, con l’Esortazione post – sinodale “Amoris laetitia”, anche dalla Chiesa istituzionale la quale, per una malintesa ansia di misericordia e di “includere e integrare tutti”, dimentica che non può “includere e integrare “ chi dimostra con i comportamenti concreti di non potere né volere essere “incluso e integrato” o, peggio, ritiene presuntuosamente di averne il diritto, dimenticando il meraviglioso dono gratuito della Grazia, che dà sempre la forza di cambiare vita, quando il peccatore lo desideri veramente.. Invece, in questo modo si separa la Carità dalla Verità, la Dottrina dalla prassi, il rigore evangelico dalla vita concreta che ottiene sempre maggiori scusanti e attenuanti anche se peccaminosa. Io ovviamente ignoro cosa avverrà nei prossimi decenni ma, anche confidando pienamente nell’assistenza dello Spirito, non credo che ci siano molti motivi per essere ottimisti. Perciò il dramma spirituale che sto vivendo è grande e lo condivido con gli amici di Riscossa Cristiana, stringendomi con loro alla Croce di Cristo.
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[1] Cfr. CONFEDERAZIONE CIVILTA’ CRISTIANA n. 44 del 13.3.2016.
[2] Sotto questo aspetto mi sembrano molto più sensati e appropriati i termini usati in inglese (“What a pity … !”) e in francese (“Quel dommage … !”) per esprimere delusione o rimpianto, anziché i termini “sin” e “péché” che riguardano più propriamente il peccato in senso morale e teologico, come invece avviene nella lingua italiana.
[3] La frase del Profeta Isaia che ho citato in epigrafe mi sembra particolarmente adatta a descrivere lo stato di peccato in cui versa il mondo moderno, teso soltanto alla realizzazione del proprio piacere, del proprio tornaconto e del proprio desiderio che, solo per essere tali, diventano un “bene”.
[4] Cfr. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 169.
Il mondo moderno, come ha escluso Dio dal proprio orizzonte, così ne ha escluso anche il demonio il quale, invece, in questo momento storico esulta e brinda con la sua corte al suo più importante successo che è proprio quello di aver convinto l’umanità della sua inesistenza.
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Un articolo del Prof. Corrado Gnerre[1] mi offre lo spunto per riflettere (e, lo confesso umilmente, anche il motivo di piangere, dato che lo scristianizzato mondo moderno mi ha fatto diventare una piagnucolona) su un tremendo fenomeno del nostro tempo che sembra dimenticato da tutti, a cominciare (altro motivo di dolore) anche dal clero cattolico: il senso del peccato. E tutto ciò è avvenuto nonostante il XX secolo abbia visto l’avvento di due Papi dichiarati santi (Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II) e di altri due (Pio XII e Paolo VI) che probabilmente saranno prima o poi canonizzati. Come ha potuto verificarsi questo fenomeno, che a me sembra una profonda contraddizione negli eventi, alimentata proprio da colui che vuole apportare divisione e discordia?
Il Prof. Gnerre ha preso lo spunto dal terribile episodio di violenza e di sangue verificatosi recentemente a Roma, in cui dei “giovani – bene” hanno assassinato un loro coetaneo “solo per vedere l’effetto che fa”. A questo io aggiungo la“coppia dell’acido” che a Milano ha devastato per vendetta (sbagliando anche persona) il volto di un disgraziato ragazzo, come aveva fatto precedentemente anche un avvocato (quindi non certo un ignorante o un essere primitivo) per vendicarsi della fidanzata che lo aveva lasciato. Poi mi torna in mente che alcuni anni fa, due ragazze affiliate a una setta satanica assassinarono brutalmente una povera suora che si prendeva cura di loro e che morì perdonandole. Se a questi episodi aggiungiamo le infermiere che praticano iniezioni letali agli anziani pazienti affidati alle loro cure e gli orrori di cui veniamo quotidianamente a conoscenza dalle cronache, c’è veramente da domandarsi se l’umanità stia perdendo il più elementare barlume della ragione retrocedendo inconsapevolmente sul sentiero della civiltà. Ma non solo questo: quello che si è perso (ed è la perdita più tragica) è il senso del peccato contro Dio e contro il prossimo. La domanda che mi angoscia è: come è stato possibile che avvenisse tutto questo?
Il Prof. Gnerre dà a questi fatti atroci una spiegazione teologica che io condivido in pieno: in questo inizio del XXI secolo il demonio ha preso il sopravvento sulle azioni umane provocando una “rivoluzione culturale” a 360 gradi che, a sua volta, ha messo in discussione le categorie del Bene e del Male assimilandole e rendendole pertanto indistinguibili le une dalle altre. Non parliamo poi del “peccato mortale” pastoralmente ben delineato dal Catechismo di S. Pio X! Questo è stato completamente derubricato e neppure i Papi che ho citato sono riusciti ad arginare questo nefasto fenomeno, già espresso dal Profeta Isaia nella frase che ho citato in epigrafe e che vediamo verificarsi ogni giorno a livello sociale, politico, antropologico, culturale e, purtroppo, anche religioso. E’ quello che pratica oggi l’umanità contrabbandando certe aberrazioni come intangibili diritti umani, “chiamando bene il male e male il bene” e alimentando così il senso di confusione che alligna nelle menti e nei cuori del popolo di Dio e, aggiungo con dolore, anche della Chiesa istituzionale.
Aggiungerò, perciò, qualche glossa allo scritto del Prof. Gnerre, al quale anzitutto va la mia gratitudine per avermi insegnato col suo articolo un detto (che non conoscevo) di un altro grande Santo, Padre Pio da Pietrelcina, che trovo estremamente veritiero nella sua icasticità, perché mi sembra che accomuni quell’umile e santo frate ai Profeti dell’Antico Testamento: “Verranno presto giorni in cui ai figli non basteranno lacrime per piangere gli errori dei propri genitori …”.
Mai parole, oltre a quelle pronunciate da Cristo mentre, carico della croce, saliva al Calvario, (“Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli … perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?”, Lc 23, 28 ss) mi sono sembrate più vere. Il momento storico che stiamo vivendo ne è la dimostrazione concreta perché quando l’uomo rifiuta Dio, come è avvenuto nel XX secolo in campo filosofico, politico, sociale e perfino nella vita spicciola quotidiana, allora perde il senso del peccato e inizia la sua irrefrenabile discesa verso la decadenza storica, umana, civile, sociale che già vediamo attuarsi intorno a noi, coinvolgendo tutte le generazioni successive, spiazzate perché non trovano sicuri punti di riferimento in coloro che sono venuti prima di loro, dato che questi ultimi non hanno avuto nulla da insegnare loro e, come avviene per il “legno secco”, corrono il tremendo rischio di essere bruciati anche più del “legno verde”,sicuramente meno responsabile. E’ la perfetta realizzazione delle profezie di Gesù e di Padre Pio.
Ma che significa la parola “peccato”che ormai sembra passata di moda nella lingua italiana se non per esprimere delusione o rimpianto quando il caso o eventi a noi estranei ostacolano i nostri banali e stupidi progetti? (“Che peccato! Piove e la gita è saltata …!”)? [2]
Infatti, con grande soddisfazione del demonio, oggi il mondo ha perso ogni dimestichezza con quella parola perché non se ne parla più: nessuno crede più di peccare e tanto meno considera il “peccato” come una offesa a Dio e l’allontanamento dalle Sue vie; tutto al più , se il peccato coincide con un reato punito dal Codice Penale, il “mondo” inorridisce, deplora l’evento ed auspica una severa condanna per il reo; ma se questa coincidenza non esiste, si parla al massimo di “senso di colpa” ( e solo nel caso in cui il “peccatore” abbia in qualche modo nuociuto al suo prossimo) da cancellarsi con molte e costose sedute psicoanalitiche. Infatti il senso del peccato comporta elementi che non si trovano nel senso di colpa e che rimandano ad ambiti diversi da quelli delle scienze umane. Sicuramente la psicologia può aiutare ad affrontare il senso di colpa, ma non può nulla contro il senso del peccato: il terapeuta può fare molto per il suo paziente, ma non può purificarlo dal peccato, perché il Sacramento della Penitenza , o della Riconciliazione, mette il penitente in rapporto con una realtà spirituale e trascendente molto diversa dall’esplorazione del profondo di sé e di cui nessuno sospetta più l’esistenza.
Come sempre, procedo nella mia riflessione con la Bibbia sott’occhio. In tutta la tradizione ebraico – cristiana il peccato è il rifiuto dell’uomo di corrispondere all’amore di Dio obbedendo alla Sua legge, così come, secondo la tradizione, fece Lucifero, il più bello degli angeli , il “Portatore di Luce”, quando si ribellò al suo Creatore lanciandoGli il grido “Non serviam!”.
La tradizione vetero – testamentaria esprime il concetto di peccato con diversi vocaboli dal diverso significato: “hattà” (fallire il bersaglio) indica il fallimento dell’uomo che si allontana da Dio e quindi anche dal prossimo; “awon” (torcere, curvare) indica la deviazione dalla retta via[3]; “peshà” (ribellione al sovrano) indica la rivolta contro il progetto di Dio. Perciò la conversione, sempre auspicata e invocata, è vista come un cambiamento di rotta, un tornare indietro di 180 gradi (mi verrebbe da dire, usando termini automobilistici, una “conversione a U”), un ritorno a Dio (“teshuvà”, ossia la “metànoia” di cui avrebbe poi parlato Gesù). Anche la lingua greca del Nuovo Testamento usa, per designare il peccato, un termine (“amartìa”), che il Dizionario Greco – Italiano di Lorenzo Rocci, fedele compagno quotidiano di tanti studenti della mia generazione, assimila nel dialetto attico (il più puro tra i dialetti dell’antica Ellade), al concetto di “errore”, di “fallo” e addirittura di “errore di giudizio”.
E infatti se noi, che apparteniamo alla grande tradizione ebraico – cristiana, ci soffermiamo un momento a riflettere sul significato di quelle espressioni, sia ebraiche che greche, ci rendiamo conto che i nostri “fratelli maggiori”, sia di lingua ebraica che greca, avevano perfettamente compreso la natura del peccato. Tutti noi abbiamo chiara in mente l’idea del Bene Assoluto, tutti noi vorremmo vivere in un mondo dominato dall’Amore, dalla Pace, dalla Solidarietà e dalla Fraternità tra i popoli ma sappiamo anche, conoscendo bene la storia umana , che questa aspirazione è una mera utopia perché, pur sapendo cos’è il Bene, non riusciamo ad attuarlo. L’esempio storico più eclatante è quello della Rivoluzione Francese – di cui i nostri cosiddetti “cugini d’Oltralpe”, fieri della loro laicità, menano gran vanto – la quale, al grido delle bellissime paroleLiberté, Egalité, Fraternité, immerse la Francia in un bagno di sangue. S. Paolo ha espresso meravigliosamente questo mistero descrivendo la “lotta interiore” che egli stesso combatteva: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma ciò che detesto … c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7, 14 ss).
Come si spiega tutto ciò? Se è vero che Dio ha creato il mondo per amore e provvede paternamente alle Sue creature, è ovvio che Egli conosce perfettamente (e meglio di noi) cosa è buono e giusto per loro – dato che Lui stesso aveva constatato che la Sua creazione era “cosa buona” (Gen 1, 25) – anche se a volte il Suo progetto non collima con il nostro. Per questo Dio ci ha dato il Decalogo, l’eterna legge di natura inscritta indelebilmente nel cuore e nella mente dell’umanità, da cui discendono in negativo, come in una fitta ramificazione, tutti i comportamenti umani, anche quelli che sembrano più spiccioli e banali. Ma Dio ci ha dato anche la libertà di scegliere tra il Bene e il Male e se facciamo la libera scelta di rifiutare quella legge naturale, che Egli ha reso comprensibile e accettabile da tutti i popoli in ogni tempo e in ogni latitudine, falliamo il bersaglio(“hattà”), sbagliamo la meta del nostro cammino (“awon”), ci ribelliamo a Lui (“peshà”), commettiamo un enorme errore di giudizio (“amartìa”) perché l’uomo, quando pecca, crede sempre che il suo atto sia un Bene. Invece è solo un atto“disordinato” che finisce per distoglierlo dal fine per cui l’uomo è stato creato[4]. In questo modo l’uomo finisce per accomunarsi a Lucifero, la prima creatura di Dio che, rifiutando il progetto di Lui, commise il peccato di superbia, perché ritenne di poter essere autonomo dal suo Creatore e costituire legge per se stesso.
Le parole usate da Paolo per descrivere la condizione umana di fronte al Male sono diventate un “topos” letterario e hanno attraversato la storia della letteratura da Francesco Petrarca, a William Shakespeare, a Ugo Foscolo (“Conosco il meglio et al peggior mi appiglio”) segno che sono riconosciute come profondamente vere dallo spirito umano. Paolo aggiunge: “Se faccio quello che io non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me” e vivendo sulla sua pelle la tragicità della condizione umana, grida: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”. Infatti il corpo umano è “votato alla morte” perché se ”con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Rm 7, 24). E’quello che fecero Adamo ed Eva i quali, pur sapendo quale fosse il Bene Supremo, dettero retta alla loro “carne” e il loro peccato generò la morte. Il pessimismo sembra totale, ma Paolo conclude il Cap. 7 della Lettera ai Romani rendendo “grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”, perché può dominare la “carne” tenendosi unito a Lui che ci ha riscattati dal peccato.
Citando queste ultime parole di S. Paolo mi torna in mente l’episodio di Manfredi nel III Canto del Purgatorio di Dante e mi accorgo che sto sfiorando il tema sublime e affascinante della Misericordia Divina, cui è stato dedicato l’anno in corso. In proposito ci sarebbero da dire un’infinità di cose che trascendono le capacità di una semplice cattolica “bambina” e i limiti di questa riflessione. Le rivelazioni che Gesù fece al riguardo a S. Faustina Kowalska sono di eccezionale edificazione spirituale ma, sempre riflettendo da cattolica “bambina”, a me sembra che ci sia un aspetto di questo meraviglioso dono fatto da Dio all’uomo che non è stato messo sufficientemente in luce in quest’anno giubilare e che rischia seriamente di essere frainteso perché il mondo moderno è diventato troppo sicuro di se stesso.
Dio conosce bene la nostra debolezza e i nostri innumerevoli limiti ed è vero che non c’è peccato, neppure il più orrendo, che non possa essere perdonato, se accettiamo di riconoscerlo sia pure, come avvenne per Manfredi, negli ultimi istanti di vita“mentre che la speranza ha fior del verde”. A tutti gli altri viene proposto di cambiare vita, di invertire il senso di marcia dirigendosi di nuovo verso di Lui. Le parole pronunciate da Gesù al riguardo sono piene di misericordia, ma anche chiarissime nei confronti di chi rifiuta l’inestimabile dono dello Spirito : ”Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato, ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro” (Mt 12, 31 – 32).
Il peccato di cui parla Gesù è chiamato “peccato contro lo Spirito Santo” perché è alla terza persona della SS. Trinità che sono specificamente attribuite le manifestazioni esteriori della bontà divina. Quel peccato è imperdonabile non tanto per la sua gravità e malizia, quanto per la disposizione soggettiva della volontà, tipica di questo peccato, che chiude le porte al pentimento: esso consiste nell’attribuire malignamente al demonio i miracoli e i segni operati da Cristo, l’unico “Agnus Dei qui tollit peccata mundi” (Gv 1, 29). In tal modo il peccatore si scrolla dalle spalle ogni responsabilità personale e, ritenendo di avere comunque diritto alla misericordia di Dio, in realtà si esclude volontariamente e liberamente dal perdono di Lui.
Come riferisce anche l’Evangelista Marco parlando dello stesso episodio evangelico, Gesù aveva già compiuto molti miracoli quando pronunciò quelle parole, ma gli scribi non volevano riconoscere in essi l’opera di Dio che, invece, attribuivano a satana, e accusavano Gesù di “essere posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3, 22 ss). Quindi la “bestemmia contro lo Spirito Santo” è il rifiuto cosciente e libero dell’uomo di riconoscere l’opera di Dio, di ascoltare la voce della sua coscienza, quella “sinderesi” di cui parla S. Tommaso d’Aquino che deve sempre essere orientata su Dio così come l’ago della bussola è perennemente orientata sul Nord; è la voce dello Spirito Santo (altro meraviglioso dono di Dio) che ci fa vedere con estrema chiarezza il male che abbiamo commesso e ci invita a imprimere alla nostra vita la “conversione a U” di cui parlavo poc’anzi. Infatti è il demonio che ci induce a non riconoscere l’opera della Grazia divina facendoci credere di avere comunque diritto alla Sua misericordia.
Ma il mondo moderno, come ha escluso Dio dal proprio orizzonte, così ne ha escluso anche il demonio il quale, invece, in questo momento storico esulta e brinda con la sua corte al suo più importante successo che è proprio quello di aver convinto l’umanità della sua inesistenza. Poiché la Verità non esiste, l’uomo può fare quello che vuole attribuendo la natura di Bene a tutto ciò che gli fa comodo e quella di Male a tutto ciò che non gli piace o è contrario ai suoi progetti. Tanto “i tempi sonocambiati” e Dio, se esiste davvero, ci perdona sempre e quasi ci autorizza a perseverare nel nostro peccaminoso stile di vita, che per noi è un Bene, e di accostarci impunemente ai Sacramenti come è nostro diritto.
Questo è l’equivoco che io vedo circolare oggi tra il popolo di Dio alimentato, con l’Esortazione post – sinodale “Amoris laetitia”, anche dalla Chiesa istituzionale la quale, per una malintesa ansia di misericordia e di “includere e integrare tutti”, dimentica che non può “includere e integrare “ chi dimostra con i comportamenti concreti di non potere né volere essere “incluso e integrato” o, peggio, ritiene presuntuosamente di averne il diritto, dimenticando il meraviglioso dono gratuito della Grazia, che dà sempre la forza di cambiare vita, quando il peccatore lo desideri veramente.. Invece, in questo modo si separa la Carità dalla Verità, la Dottrina dalla prassi, il rigore evangelico dalla vita concreta che ottiene sempre maggiori scusanti e attenuanti anche se peccaminosa. Io ovviamente ignoro cosa avverrà nei prossimi decenni ma, anche confidando pienamente nell’assistenza dello Spirito, non credo che ci siano molti motivi per essere ottimisti. Perciò il dramma spirituale che sto vivendo è grande e lo condivido con gli amici di Riscossa Cristiana, stringendomi con loro alla Croce di Cristo.
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[1] Cfr. CONFEDERAZIONE CIVILTA’ CRISTIANA n. 44 del 13.3.2016.
[2] Sotto questo aspetto mi sembrano molto più sensati e appropriati i termini usati in inglese (“What a pity … !”) e in francese (“Quel dommage … !”) per esprimere delusione o rimpianto, anziché i termini “sin” e “péché” che riguardano più propriamente il peccato in senso morale e teologico, come invece avviene nella lingua italiana.
[3] La frase del Profeta Isaia che ho citato in epigrafe mi sembra particolarmente adatta a descrivere lo stato di peccato in cui versa il mondo moderno, teso soltanto alla realizzazione del proprio piacere, del proprio tornaconto e del proprio desiderio che, solo per essere tali, diventano un “bene”.
[4] Cfr. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 169.
Davvero uno "spettacolo" disgustoso, che manifesta la loro vera essenza. Parlo al plurale riferendomi anche a chi si è prestato e prostrato a questo indegno gesto che offende un Sacramento cattolico. Certamente, con Maometto....tutti proni....
RispondiEliminaI maomettani non hanno il senso dell'umorismo molto sviluppato....
- Cristina