1914 EPISTOLARIO OMOSESSUALE
«Caro Gide non disperate. Non c’è malattia mortale per le anime. Potete guarire.» 1914 Epistolario in cui il cattolico Claudel scopre l’omosessualità di Gide. Se non c’è il peccato non c’è Dio; e allora chi potrà redimerci?
di Francesco Lamendola
C’è, nell’epistolario intercorso fra due grandi scrittori francesi, Paul Claudel (1868-1955) e André Gide (1869-1951), un passaggio cruciale, delicatissimo, estremamente intimo, che ancora oggi, letto a tanta distanza di tempo, riesce di straordinaria, conturbante attualità: quello in cui il cattolico Claudel “scopre” l’omosessualità di Gide e lo esorta a espungere dalla Nouvelle Revue Française un passaggio che suona come una apologia della pederastia, nonché a rivedere tutto il proprio orientamento esistenziale, basato su fallaci valori estetici, in nome della salvezza dell’anima.
Siamo nel marzo del 1914, quasi alla vigilia della Prima guerra mondiale.
Da parte sua Gide, non credente, mostra, nei confronti di Claudel, un rispetto, una riverenza, una fiducia quasi illimitati; si confessa come davanti a un prete, e, dopo un momento di esitazione, quasi di panico, getta alle ortiche il ritegno e gli confida il suo indicibile segreto: benché abbia contratto un matrimonio, felice in apparenza, con una ragazza che si è votata a lui e che egli ama “più della sua stessa vita”, la cugina Madeleine Rondeaux, in realtà non è mai stato attratto dalle donne. Nello stesso tempo, contraddittoriamente, chiede a Claudel, anzi, lo supplica e lo scongiura, di non dir nulla alla dolce e devota moglie, anche se riesce ben difficile, per ovvie ragioni (il matrimonio non fu mai consumato), credere che ella già non sapesse, tanto più che lui stesso aveva in pratica pubblicamente confessato la sua omosessualità nel racconto Corydon: che verrà pubblicato sulla prestigiosa rivista summenzionata nel 1924, ma circolante in forma privata fin dal 1911 e, dunque, già noto nella cerchia dei suoi amici e conoscenti.
Claudel, dopo aver respinto con sdegno l’insinuazione di essere intenzionato a divulgare la confidenza fattagli (ed è il momento più commovente e drammatico del carteggio, incupito da una gelida ombra di diffidenza, subito però superato da entrambi), con la franchezza risoluta di un vero amico e di un vero credente, che si preoccupa non già del bene soggettivo di Gide, ma del suo bene oggettivo, sgombra il terreno da umani ritegni e reticenze, e sprona l’altro a non nascondersi dietro vani ragionamenti, in pratica a non prendere in giro se stesso e le persone a lui care - non solo la mogie, ma anche il giovane critico e scrittore Jacques Rivière, suo ammiratore e futuro direttore della Nuovelle Revue Française - e a non turbare i suoi lettori con uno scritto immorale; bensì ad affrontare la realtà e la verità e ad operare una conversione dell’anima verso il bene autentico, reagendo alle sue tendenze disordinate.
Si tratta di uno scambio epistolare di scottante intensità morale e di straordinaria attualità: anche se, nella cultura oggi dominante, senza dubbio sarà facile vedere nella sollecitudine di Gide una forma di bigottismo cattolico e, in ogni caso, d’incomprensione circa la vera natura del “problema” di Gide; e, da parte di questi, un eccessivo timore di rivelarsi apertamente e di vivere senza remore il proprio modo di essere, quasi prigioniero di un ricatto culturale della società borghese, benpensante e perbenista. Oggi, infatti, è di gran lunga prevalente – almeno in apparenza - l’atteggiamento di chi considera l’omosessualità come un normalissimo orientamento sessuale dell’individuo, fra gli svariati che gli si offrono (la cosiddetta filosofia gender); e, a dire il vero, anche gran parte degli psicologi si è pronunciata in questo senso, anche se basta pochissimo per rendersi conto, sfogliando i manuali di psicologia di pochi anni fa, che, sino a ieri, la pensavano in maniera completamente diversa, e, insieme ai sociologi, ai giornalisti, ai confessori spirituali, quand’erano posti di fronte a tale problematica, raccomandavano cure, preghiere e astinenza.
In breve, l’omosessualità era considerata, e lo scrivevano apertamente sui libri e sui giornali, una malattia, e più precisamente una inversione del normale istinto sessuale; ora hanno cambiato idea, ma senza avere l’onestà di ammetterlo: sorvolano sull’imbarazzante dietrofront, come gli ex comunisti, divenuti filo-atlantisti di ferro, fanno finta di niente, quasi che Marx non fosse mai stato il loro maestro, né la lotta di classe la loro massima preoccupazione. Oggi, grazie anche al complessivo clima di relativismo, non solo culturale, ma etico, si pretende che qualunque comportamento sessuale, purché non contrasti con il codice penale (ma il codice penale viene continuamente modificato, per adattarlo a tali mutamenti di opinione: vedi il caso dell’aborto e dell’eutanasia), deve essere considerato naturale, e quindi lecito: lecito perché naturale, pedofilia compresa, purché, beninteso, i bambini siano consenzienti. Ci mancherebbe, non si possono mica violare i sacri diritti della persona!
Su tutto, come una scura nube di temporale, incombe l’idea, tipicamente moderna, che la normalità sia solo un vieto pregiudizio con il quale si cerca di reprimere le libere manifestazioni individuali, a esclusivo vantaggio dell’ordine sociale; che la normalità non esista, che sia una perfida invenzione delle classi dominanti; e che qualsiasi comportamento, qualsiasi scelta, qualsiasi stile di vita debbano soltanto essere accettati, perché il principio della libertà è sacro e nessuno deve essere represso o inibito nell’esplicare i suoi istinti, i suoi bisogni, le sue tendenze. Si è passati, così, da un conformismo intellettuale che privilegiava l’interesse del gruppo, fondato sulla coesione e quindi sulla stabilità, ad un nuovo conformismo, spacciato però per anticonformismo, facente perno sui “diritti” della singola persona e, in particolare, sulla libertà individuale negativamente intesa, cioè sempre e solo come libertà contro qualcosa o contro qualcuno; mentre i concetti della responsabilità, del dovere, del sacrificio, sembrano essere divenuti, improvvisamente, obsoleti e impresentabili, tanto è vero che gli adulti, educatori compresi, hanno quasi smesso di parlarne ai bambini ed agli adolescenti.
Il sentimento religioso, d’altro canto, era, anch’esso, più robustamente sentito e praticato (stiamo parlando di un secolo esatto fa; ma potremmo anche parlare di cinquanta, trenta o venti anni fa); le certezze erano più nette; san Pio X aveva da pochi anni condannato, solennemente, il modernismo – con l’enciclica Pascendi Dominici gregis, del 1907; e la condanna dell’omosessualità contenuta nella Bibbia, e ribadita da San Paolo (nella Epistola ai Romani) e dai Padri della Chiesa, oltre che da duemila anni di Magistero ecclesiastico, non era cosa che i credenti prendessero alla leggera. Eravamo distanti anni luce dal: Chi sono io per giudicare un gay? di papa Bergoglio; anche se la Chiesa, in effetti – è una verità talmente lapalissiana, che quasi ci si vergogna a ricordarla – ha sempre fatto una chiara distinzione fra peccato e peccatore, e non ha mai condannato nessuno per le sue tendenze, ma solo per le sue azioni, quando siano oggettivamente disordinate. In altre parole, nessun cattolico si è mai sentito autorizzato a condannare un omosessuale perché tale, ma solo in quanto praticante, se lo è, di atti espliciti contro natura.
Anche qui, non si può non rilevare la disinvoltura, a nostro parere sconcertante, con cui la Chiesa, o una parte di essa, ha compiuto una vera e propria inversione a “u”, che non riguarda, del resto, solo il tema dell’omosessualità, ma anche altre manifestazioni di disordine morale, e non solo nella sfera sessuale. Si direbbe che anch’essa sia giunta, gradualmente e insensibilmente, a quella separazione tra morale e vita pratica cui già la cultura profana e la società secolarizzata sono prevenute da tempo, dietro il paravento d’una serie di formule più o meno vaghe, più o meno ambigue, come quelle della tolleranza, del pluralismo, della inclusione dell’altro. Quasi che un cristiano potesse essere “tollerante”, “pluralista” e “inclusivo” quando si tratta, non della carità e del rispetto dovuto a ciascun essere umano, indipendentemente da ogni fattore soggettivo e oggettivo, che non sono mai in discussione; ma del rispetto verso i principi essenziali del Vangelo e che, evidentemente, non sono negoziabili, né suscettibili di modifiche, aggiornamenti, ritocchi.
Sarebbe poi necessario fare una distinzione fra l’omosessualità come dato psicologico e fisiologico originario e quella che è riconducibile a scelte di tipo culturale, nel senso più ampio; ossia, per usare un linguaggio più semplice, fra istinto (deviato) e scelta libera e volontaria, diretta a ciò che sta al di fuori della norma morale, magari per un atteggiamento di sfida o per la curiosità di stuzzicare ed esplorare il godimento di sensazioni nuove: ciò che la società di ieri l’altro – cattiva e repressiva - definiva, molto semplicemente, “vizio”. Personalmente, siamo convinti che l’omosessualità sia assai meno diffusa di quanto le aggressive lobby omosessualiste vorrebbero far credere, con tutte le loro rumorose manifestazioni; e che, all’interno di quella percentuale, la frazione di essa che si può considerare come portatrice di tendenze omosessuali congenite sia particolarmente esigua; infine che, all’interno di questa frazione, solo pochi individui siano desiderosi di esibire e magnificare il loro modo di essere, in nome di supposti principi e diritti, mentre la maggioranza non chiede altro che di restare avvolta in un velo di riserbo e discrezione (e ci viene in mente, tanto per fare un nome, il caso dello scrittore Giovanni Testori, omosessuale dichiarato, ma del pari dichiarato penitente, il quale aveva orrore degli omosessuali che ostentano il loro modo di essere o che chiedevano quella cosa obbrobriosa, sono parole sue, che è il matrimonio fra ragazzi).
Ed ecco, perché ciascuno possa fare le proprie riflessioni, la lettera centrale del carteggio di cui parlavamo, la numero 160, datata da Amburgo il 9 marzo 1914, nella quale Claudel si rivolge all’amico dopo che entrambi hanno messo le carte in tavola, ma solo per effetto della franca, e forse un po’ rude, domanda di verità da parte dello stesso Claudel (da: Claudel/Gide, Carteggio 1899-1926 (titolo originale: Correspondance, 1899-1926; traduzione dal francese di Renato Arienta, Milano, Garzanti, 1974, pp. 247-251):
Mio povero Gide, non vi avrei scritto se non avessi conservato la mia amicizia per voi. Lo confesso, quel passo della “N. R. F”. è stato per me un colpo! Ma sono una troppo vecchia volpe per scandalizzarmi di checchessia, e non so veramente che cosa mi darebbe il diritto di giudicare qualcuno. Ciò detto, mi sforzerò di rispondervi punto per punto nella maniera più obiettiva.
No, lo sapete bene, i costumi di cui parlate non sono né permessi, né scusabili, né confessabili. Avete contro di voi a un tempo e la ragione naturale e la Rivelazione.
La ragione e l’onestà naturale ci dicono che l’uomo non è un fine in s, e a più forte ragione il suo piacere e il suo diletto personale. Se l’attrazione sessuale non attinge al suo termine naturale, che è la riproduzione, essa è deviata e non buona. È il solo principio solido Se no, voi cadete nelle fantasie individuali. Dove porrete un limite? Se uno pretende giustificare la sodomia, un altro giustificherà l’onanismo, il vampirismo, lo stupro dei bambini, l‘antropofagia, ecc. Non c’è ragione di fermarsi.
La Rivelazione c’insegna poi che questo vizio è particolarmente detestato da Dio. È superfluo richiamarci Sodoma, il “morte moriatur” (?) del Levitico, l’inizio dell’Epistola ai Romani, il “Neque fornicatores, neque adulteri, neque masculorum concubitores”.
Questo è abbastanza. Io nego all’individuo il diritto d’essere giudice e parte nel proprio caso. Il diavolo, l’orgoglio, la passione, preso possesso di noi, sono pronti a suggerirci scuse e pretesti.
Voi vi pretendete vittima di un’idiosincrasia fisiologica [cioè, il disinteresse per ledonne]. Sarebbe questa una circostanza attenuante, ma non un permesso e una patente. Voi siete soprattutto vittima di due cose: la vostra eredità protestante che vi ha abituato a non cercare che in voi stesso la regola delle vostre azioni e il prestigio estetico che conferisce un lustri e un interesse alle azioni meno degne di scusa. A dispetto di tutti i medici mi rifiuto assolutamente di credere al determinismo fisiologico. Se avete degli istinti anormali, la vostra anima naturalmente proba, la vostra ragione, la vostra educazione, il timore di Dio, dovevano fornirvi dei mezzi per resistere. La medicina è fatta per guarire e non per scusare. Ahimè! Nel vostro casi ci voleva inoltre un confessore.
Voi mi chiedete dei consigli. Il primo consiglio è di fare subito quello che dipende da voi. Quello che dipende da voi è di sopprimere immediatamente quell’orribile passo della “N. R. F.” Ve ne scongiuro per moralità e per ragioni d’interesse personale.
Per ragioni di moralità: Voi mi parlate d’ipocrisia, ma c’è una cosa infinitamente più odiosa dell’ipocrisia, ed è il cinismo. In queste gravi materie carnali, noi pecchiamo tutti più o meno, e vi confesso molto sinceramente che da voi a me, se facessi un confronto, sarebbe a mio svantaggio. Ma altro è peccare rammaricandosi, sapendo che si fa male, desiderando far meglio, e altro è credere che si fa bene facendo male, e dirlo e vantarsene. Qui non c’è più soltanto perversione dei sensi, ma perversione della coscienza e del giudizio.
Voi vi addossate così la responsabilità delle anime che perdete. La letteratura fa spesso un po’ di bene, ma può fare soprattutto molto male. Il vizio di cui parlate tende a diffondersi sempre più. Non è cosa per nulla indifferente il vedere un uomo come voi, col prestigio della vostra intelligenza, della vostra cultura e del vostro ingegno, farsene l’apologista, o semplicemente rendere familiari all’immaginazione del lettore idee da cui quella deve di stornarsi con orrore. Anche da questo lato, vi sarà reso conto in questo mondo e nell’altro. Per il vostro interesse personale: Vi ripeto: VOI VI PERDETE: vi abbassate, vi mettete in margine, fra quelli che vivono in margine, fuori dall’umanità. L’opinione di Parigi si nasconde meglio, ma essa è ancora più spietata di quella di Londra. Voi dite di conservare la mia lettera per voi, mi pregate di non lasciar sospettar nulla a vostra moglie. Disgraziato! E intanto vi lasciate andare alla pubblicità, affiggete su tutti i muri di Parigi un testo che per tutti avrà il valore di una confessione definitiva e ufficiale. Non fatevi illusioni a questo riguardo. Promettetemi almeno che questo passo non figurerà più nel volume. Ve ne prego, se annettete un qualche valore alla mia amicizia. A poco a poco si dimenticherà. Sì, io manterrò un profondo silenzio, ma siete voi che parlate e che vi mettete in piazza! Una cosa simile non s’è mai vista dai giorni del paganesimo. Nessuno scrittore, nemmeno Wilde, ha mai fatto questo.
Non vi nasconderò che nello stesso tempo che a voi ho scritto a due persone: a Jammes (una parola sola), e a quel povero Rivière a cui potete fare tanto male. Povero ragazzo che aveva fiducia in voi! Come me. Ma che cosa ho detto loro di più grave che quella pagina 478 non dica loro di già?
Rileggo la mia lettera, e mi sembra alquanto dura. Leggetela freddamente come il consulto di un medico. E soprattutto non disperate. Nn c’è malattia mortale perle anime. Potete guarire. No, Dio non vuole la morte di nessuno dei suoi figli, egli non vi odia né vi disprezza. Ciascuno dei vostri errori è un titolo di più alla sua compassione. Da sette anni, per quel che posso giudicare, si svolge qualcosa nella parte migliore dell’anima vostra, non siete lasciato tranquillo, c’è un travaglio, ignoro quale. Ma non dite che siete tranquillo e soddisfatto.
E nemmeno dubitate di una cosa, che il giorno in cui tutti vi abbandoneranno, mi troverete ancora. Io conosco l’incomparabile valore di un’anima.
C’è una terza persona a cui ho ascritto, ma questa è un prete. È l’abbé Fontaine. Ora potete andare a trovarlo. Non lo stupirete, siate sicuro. E oserò dire che provo quasi sollievo di veder cadere quella pesante incertezza che fino ad oggi m’impacciava nelle vostre relazioni? Povero Gide, come siete da commiserare e com’è tragica la vostra vita! Vi stringo la mano P. Claudel
Queste parole possono, alla luce della mentalità odierna, sembrare dure, e lo stesso Claudel le trovava tali; senza dubbio, anche molti cattolici “adulti” e “progressisti” le disapproverebbero. Ma Gide non se ne sentì ferito; le apprezzò: la loro amicizia ne fu rafforzata. La vera amicizia non tace per amor del quieto vivere; e, soprattutto, si preoccupa del vero bene dell’altro. Se vede che questi si è messo su una strada pericolosa, lo mette in guardia; se si accorge che sta sbagliando, lo ammonisce. Lo fa per affetto e con retta intenzione; mentre il falso amico, o il nemico mascherato, fingono di approvare, e intanto preparano la rovina dell’altro, o la favoriscono.
Sappiamo bene quale sia l’obiezione di fondo politicallly correct: «E sia pure, Claudel ha parlato con sincera amicizia; ma le sue idee sull’omosessualità sono sbagliate. L’omosessuale non è un disgraziato; o, se lo è, lo è per colpa dei pregiudizi altrui». Questo è il modo di ragionare di una società edonista, permissiva e relativista, che ha eretto a norma suprema il laissez faire, il diabolico: fa’ ciò che vuoi, sii il Dio di te stesso. Dichiarando che tutto è lecito quel che viene dall’istinto, rimuove il vizio, ma senza misurarsi con esso: come quando, non potendo o non volendo abbassare il tasso d’inquinamento dell’acqua potabile, si innalza per decreto la percentuale di veleni consentita, e si finge che il danno alla salute non ci sia. Noi possiamo anche dichiarare che il vizio è abolito per legge, ma la sua realtà permane. L’ostentazione lo rende più esecrabile, dietro il pretesto della sincerità e della lotta contro l’ipocrisia. La parola “peccato”, poi, non ha quasi più risonanza nelle profondità dell’anima. Eppure, se non c’è il peccato, non c’è Dio; e allora chi potrà redimerci?
«Caro Gide, non disperate. Non c’è malattia mortale per le anime. Potete guarire.»
di Francesco Lamendola
ECCO L'INTELLETTUALE MODERNO
Falsità, vanità spudoratezza vendicatività: ecco il ritratto del preteso intellettuale moderno. Quello che dice Nietzsche degli artistoidi vale anche per i nostri intellettualoidi odierni: mercenari della parola leccapiedi del potere di F.Lamendola
Falsità, vanità, spudoratezza, vendicatività: ecco il ritratto del preteso intellettuale moderno
di Francesco Lamendola
Terribilmente deprimente è lo spettacolo offerto dallo pseudo-intellettuale moderno, specialmente quando si esibisce senza alcun pudore nei salotti televisivi: sia egli un direttore di giornale che si è venduto smaccatamente ai suoi padroni del momento, un sedicente psicologo o sociologo da rivista di moda che snocciola banalità sentenziose ammiccando e strizzando gli occhi con ruffianesca complicità, o un borioso barone universitario imprestato agli studi Rai o Mediaset grazie ai maneggi di qualche influente protettore politico.
Quello che appare intollerabilmente deprimente, al di là del suo servilismo inverosimile e quasi autocaricaturale verso i signori che lo tengono sul proprio libro paga, e al di là della sua buffa e quasi altrettanto inverosimile, grottesca presunzione, tale da spingerlo a parlare come se davvero prendesse sul serio le penose insulsaggini che ammannisce al pubblico, è la sua ormai totale assuefazione alle proprie stesse menzogne, a quel mondo fittizio nel quale e del quale egli vive; quel viscido autocompiacimento che può nascere soltanto - un indagatore d'anime acuto come Nietzsche lo aveva compreso al volo, così come, prima di lui, Dostojevskij - da un intimo, radicato disprezzo di sé, che rende costui una autentica maschera tragica.
Così, sarebbe un errore girare semplicemente canale o scrollare le spalle, liquidando tale tipo psicologico come una specie di aborto antropologico, quasi uno scherzo della natura; perché la verità è che la totale mancanza di autostima rende il sedicente intellettuale un soggetto pericoloso e quasi demoniaco, una mina vagante che può arrecare danni gravissimi alla società: non tanto per le menzogne sistematiche in cui consiste la sua professione, ma per la rabbia disperata e feroce che egli alimenta in cuore contro se stesso, magari sotto le apparenze di una alterigia a tutta prova, e che cerca di scagliare addosso agli altri, ad ogni occasione e in ogni circostanza.
La sua psicologia è essenzialmente femminile, ma nei suoi aspetti peggiori: vanitosa, insincera, sfrontata e bramosa di vendetta: in breve, è un tipo essenzialmente isterico, come appare dalla frequenza con cui perde le staffe nel corso di un dibattito o di un contraddittorio - pur tenendo conto, e con piena ragione, che almeno una volta su due si tratta di sfuriate calcolate e decise a freddo, tanto per rafforzare il personaggio.
In effetti, egli è vanitoso perché ha bisogno di sentirsi sempre al centro dello spettacolo, come una primadonna; insincero, perché la sincerità richiede un minimo di onestà intellettuale, che egli costituzionalmente non possiede; sfrontato, perché, odiando se stesso, reagisce ostentando la propria maschera, nella folle speranza di fare colpo almeno sugli altri; e infine vendicativo, perché odia a morte tutti coloro che sa essergli superiori moralmente, culturalmente o spiritualmente: vale a dire, quasi tutti gli altri esseri umani.
Se avesse un minimo di dirittura e di dignità, cercherebbe di migliorarsi, di combattere i suoi lati detestabili; ma la sua posizione di nullafacente privilegiato, di nullità promossa al rango di personaggio pubblico; il fatto stesso di essere sul libro paga di qualche pezzo da novanta o di qualche istituzione prestigiosa: tutto ciò gli ha dato completamente alla testa, lo ha ubriacato in maniera permanente, e, come un drogato o come un ossesso, lo spinge a raddoppiare senza posa i suoi atteggiamenti sfrontati e cialtroni, le sue provocazioni, la sua arroganza impudente.
In fondo, anche in questo la sua psicologia è femminile; in qualche angolino del suo animo, egli spera di incontrare qualcuno che gli impartisca una sonora lezione: un vero uomo, fiero e indipendente, capace di andare in giro a testa alta perché sa di valere e non perché ha leccato gli stivali ai pezzi grossi, fino a raggiungere una posizione eminente. E questa parte segreta di lui lo spinge a raddoppiare continuamente la posta delle sue sfide, per vedere fino a che punto egli abbia a che fare con dei viscidi lacché del proprio stampo, o se per caso non esistano al mondo anche degli individui realmente virili.
In fondo, è un omosessuale passivo che non ha il coraggio di riconoscersi tale, e si sfoga in bizze isteriche e in narcisistici a solo, che in altre società non sarebbero tollerati, ma che l'estrema decadenza politica, cultuale e morale del nostro Paese - che non si è mai ripreso dalla disfatta morale dell'8 settembre 1943, non avendo mai avuto il coraggio di fare i conti con la propria storia - gli consente di esistere e perfino di prosperare.
Del resto, la figura stessa dell'intellettuale è un prodotto degenere della modernità: uno scribacchino o un artistoide senza genio e senza talento, senza coraggio e senza onore, che si ubriaca di parole per mascherare la sua profonda ignoranza di tutto: del mondo, degli altri e di se stesso. Un prodotto di scarto della società capitalista, dalle immense ambizioni e dagli appetiti smisurati, che però non vale nulla e che sembra un Solone unicamente perché il potere ha bisogno di un ventriloquo che ne intoni le lodi e ne canti le magnificenze.
In Italia, nell'Italia repubblicana e democratica uscita dalla sconfitta del 1943 - l'Italia dei massoni e dei monsignori, dei mafiosi e dei faccendieri, dei generali e dei finanzieri dall'oscuro passato - questo tipo umano inferiore e degenere, che altrove vivacchia quasi ai margini della società perbene e che è tutt'al più tollerato nei sottoscala della vera cultura, da noi impazza e sembra dettare legge: proprio con la stessa sfrontatezza con la quale i «padrini» di Cosa Nostra, costretti a nascondersi per un ventennio, tornarono alla grande sulla scia dei «liberatori» americani e, con la scusa dell'antifascismo, divennero sindaci, assessori, consiglieri comunali, occupando tutte le posizioni di potere e tutte le nicchie di rendita pubblica.
Né l'antichità classica, né il Medioevo cristiano conobbero la figura dell'intellettuale, nel significato moderno del termine: conobbero il filosofo, l'artista, il matematico, lo scienziato, lo scrittore, lo storico; e, naturalmente, l'insegnante.
L'intellettuale italiano odierno è una degenerazione della degenerazione; ma l'intellettuale moderno costituisce, in se stesso, una presenza discutibile in qualsiasi società.
In pratica, la figura dell'intellettuale nasce con l'Illuminismo e con la diffusione della stampa periodica; conosce il suo apogeo con l'ambigua figura del «philosophe», un saccente e petulante personaggio che inonda la Francia di opuscoli e «pamphlets», convinto di aver trovato il rimedio universale per tutti i mali, per tutte le storture e per tutti gli accidenti: una specie di sofista in versione riveduta e aggiornata, che non si fa pagare dai propri uditori privati, ma dai proprietari delle gazzette e dei giornali, per convincere di tutto e del contrario di tutto il pubblico dei lettori, ma alimentando demagogicamente la loro illusione di capire e poter giudicare ogni cosa, di qualunque argomento si tratti.
L'idea gramsciana dell'intellettuale organico è, in fondo, velleitaria: l'intellettuale è, per definizione, uno spostato, che ha appreso qualche mezza verità e che la rivende, sotto forma di merce più o meno ben pagata, condita con le proprie elucubrazioni e insaporita con la propria mania di grandezza (infatti non ci sono rancori più tenaci di quelli fra intellettuali: che ricordano, anche in questo, la psicologia di due femmine, le quali si odiano di tutto cuore e cercano di graffiarsi a sangue ogni volta che s'incontrano, perché sono gelose l'una dell'altra).
La società non ha bisogno di intellettuali, botoli frustrati e ringhiosi che incitano alla scontentezza perenne per avere il pretesto d'imperversare a tempo indeterminato; ma, di uomini di cultura, di studiosi e di educatori. Il resto, è solo robaccia.
Nietzsche, in particolare, aveva colto l'analogia esistente fra l'artista «moderno» - non l'artista in quanto tale - e la donna isterica; e quel che egli dice dell'artista moderno, ovvero dell'artistoide, si può estendere a ogni tipo di intellettuale moderno, ovvero di intellettualoide.
Particolarmente gustosa è l'osservazione de filosofo tedesco circa la mancanza di pudore di questo tipo umano, non solo verso gli altri, ma anche e soprattutto verso se stesso: quel suo continuo, indecente osservarsi nell'atto medesimo del proprio vivere, che non ha niente a che fare con la sincerità e ricorda, semmai, il voyeur che spia dal buco della serratura.
E subito il pensiero corre al primo di tale trista genia: messer Francesco Petrarca, che, specialmente nel «Secretum» e nelle «Epistulae», ci ha lasciato la più eloquente testimonianza di questo vergognoso onanismo intellettuale, aprendo tutta una scuola, si fa per dire, di pensiero: che darà ampi frutti nel corso della modernità, fino alle «Confessioni» di Rousseau ed oltre.
Anche qui, il genio di Dostojevskij ha riconosciuto con occhio sicuro questo nuovo mostro antropologico, e lo ha mirabilmente descritto in tanti personaggi indimenticabili, primo fra tutti il vecchio Fiodor Pavolovic de «I fratelli Karamazov» (che però, almeno, non pretendeva di essere un intellettuale, pur se amava stuzzicarsi i denti, durante la digestione, con qualche filosofema da strapazzo; ma soprattutto amava esibirsi nel proprio spudorato esibizionismo); e Nietzsche, quasi negli stessi anni, non è stato osservatore di lui meno lucido ed acuto.
Scrive, dunque, Friedrich Nietzsche ne «La volontà di potenza» (III, 812-814; traduzione italiana di Angelo Treves, a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Milano, Bompiani Editore, 1992, 1994, pp. 442-443):
«[…] Oggi si potrebbe giudicare il "genio" una forma di nevrosi, e analogamente la capacità di suggestionarsi propria dell'artista - e in effetti i nostri ARTISTOIDI hanno fin troppe affinità con le donnette isteriche! Ma questo parla a sfavore dell'"oggi", non degli "artisti".
Gli stati d'animo anti-artistici sono: l'OBIETTIVITÀ, il rispecchiamento, la sospensione della volontà… Lo scandaloso malinteso di SCHOPENHAUER, che scambia l'arte per un ponte verso la negazione della vita…
Altri stati antiartistici: quelli di chi immiserisce, scompare, impallidisce, sotto il cui sguardo la vita soffre… Il cristiano…
L'artista MODERNO, vicinissimo all'isterica per la sua fisiologia, è segnato da questo morbo anche nel carattere. L'isterico è falso: mente per il gusto di mentire, è ammirevole in ogni arte della simulazione - a meno che la sua morbosa vanità non gli giochi un brutto scherzo. Questa vanità è come una febbre continua che ha bisogno di narcotici e non indietreggia dinanzi ad alcun autoinganno, a nessuna farsa che prometta un momentaneo lenimento. INCAPACITÀ di fierezza e costante bisogno di vendetta, per un disprezzo di sé profondamente radicato - questa è all'incirca la definizione di tale specie di vanità. L'assurda irritabilità del suo sistema, che va in crisi per ogni avvenimento, e introduce il "drammatico" nei minimi casi della vita, gli toglie ogni prevedibilità: non è più una persona, tutt'al più è un assembramento di persone diverse, di cui ora questa ora quella salta fuori con impudente sicurezza. Appunto perciò è grande come attore: tutti questi poveri esseri privi di volontà, che i medici studiano da vicino, sorprendono per il loro virtuosismo nella mimica, nella trasfigurazione, nell'introdursi in quasi ogni personaggio RICHIESTO.
Gli artisti NONsono uomini di GRANDI passioni, qualunque cosa vogliano dare a intendere a se stessi e a noi. E ciò per due motivi: mancano di pudore di fronte a se stesi (si osservano MENTRE VIVONO: si spiano, sono troppo curiosi); e mancano anche di pudore di fronte alla grande passione (la sfruttano, come artistoidi).
E, in secondo luogo, il loro vampiro, cioè il talento, gli invidia quello sperpero di energia che si chiama passione. Chi ha talento è anche vittima del proprio talento: vive soggetto al vampirismo del proprio talento.
Non ci si sbriga della passione con il fatto di rappresentarla: anzi, ce ne siamo già sbrigati QUANDO la rappresentiamo. (Goethe insegna che le cose stanno diversamente: qui HA VOLUTO fraintendere se stesso: per DELICATEZZA).»
Non si poteva dire di più, e meglio, con così poche parole.
Quello che dice Nietzsche degli artistoidi, vale anche per i nostri intellettualoidi odierni: mercenari della parola, leccapiedi del potere, grotteschi signorotti della stampa e della televisione; parassiti che occupano spazi di visibilità solamente per fare la ruota come pavoni, ma senza avere proprio nulla di intelligente da dire.
Dovremmo abituarci a fare a meno di questa razza di cortigiani velenosi e voltagabbana, sempre pronti a vendersi al migliore offerente.
Ci guadagnerebbero la cultura, la capacità critica e la dirittura morale delle persone comuni e specialmente dei giovani, che avrebbero sempre bisogno di buoni esempi.
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