I defunti? Sono soltanto "scomparsi". Se anche la Chiesa sceglie l'eufemismo
Crocefissi nascosti e paramenti inadatti: così le esequie vengono "svuotate"
Capita di sentire omelie in cui il defunto viene definito «scomparso». Ma allora anziché il prete andava chiamata Federica Sciarelli di Chi l'ha visto, il programma dedicato alle ragazze scappate di casa e ai vecchi malati di Alzheimer che si sono dimenticati l'indirizzo.
Crocefissi nascosti e paramenti inadatti: così le esequie vengono "svuotate"
Capita di sentire omelie in cui il defunto viene definito «scomparso». Ma allora anziché il prete andava chiamata Federica Sciarelli di Chi l'ha visto, il programma dedicato alle ragazze scappate di casa e ai vecchi malati di Alzheimer che si sono dimenticati l'indirizzo.
È come se temessero di impressionare i fedeli. Il due novembre, giorno dei morti, è difficilissimo trovare un sacerdote che dica messa coi paramenti neri, e solo una striminzita minoranza di parroci celebra in nero i funerali. Qualcuno in Sardegna, qualcuno in località lombarde non di prima grandezza quali Albizzate, Sumirago, Gorla Maggiore... Se il «de cuius» non abitava ad Albizzate, Sumirago o Gorla Maggiore molto probabilmente avrà un funerale coi paramenti normali, cosa che vorrebbe essere sdrammatizzante e che invece è solo banalizzante. Come se non bastasse, negli ultimi tempi i preti si sono messi a benedire le ceneri. Una volta era impensabile, siccome la cremazione è tipica delle religioni orientali e poco o punto compatibile con la resurrezione, ma poi cominciarono le eccezioni e, siccome un'eccezione tira l'altra, adesso ci sono vescovi che si offrono di benedire le ceneri di Bernardo Provenzano, non so se mi spiego. Michel Houellebecq, che pure non mi risulta cattolicissimo, in uno dei suoi romanzi ha definito seri soltanto i funerali con la bara: «Un funerale che non cercava di eludere la realtà del decesso». Troppi preti cercano di eludere o accettano che si eluda dando forma a una sorta di catto-buddismo, culto sul nichilista andante che invoglia tanti italiani a rivolgersi al culto nichilista originale e quindi a Budda. Scomparsa la morte, dunque, scompaiono anche i fedeli.
Mar, 26/07/2016 -
http://www.ilgiornale.it/news/politica/i-defunti-sono-soltanto-scomparsi-se-anche-chiesa-sceglie-1289230.html
Una riflessione sul primo dei “Novissimi”: la morte – di Carla D’Agostino Ungaretti
“Laudato si mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente po’ skappare”. (S. Francesco d’Assisi, Cantico delle creature)
“A subitanea morte libera nos, Domine”. (Litania di Ognissanti)
di Carla D’Agostino Ungaretti
.
In alcune delle mie ultime riflessioni ho meditato su due argomenti che, secondo la fede cristiana, sono realtà che maturano nella storia e si completano con la fine della vita umana: l’inferno e il Paradiso che, di riflesso, riguardano anche la palingenesi, ossia la rigenerazione del cosmo, l’uomo compreso, alla vita eterna. Ma questi eventi sono preceduti, per l’intero cosmo, dalla morte e sono connessi con la seconda venuta del Cristo che darà luogo al “Giudizio”. Mi sono accorta allora che stavo parlando dei “Novissimi”, cioè di argomenti (secondo l’etimologia latina) totalmente nuovi e mai sperimentati prima, perché sono gli effetti di un’opera di Dio che supera qualsiasi aspettativa e immaginazione umana. Non avevo cominciato però dal primo, ma dal terzo proseguendo poi con il quarto; vorrei perciò ora tornare indietro e meditare sul primo, la Morte, riservando il Giudizio a una prossima occasione, sempre “Deo favente”.
Nel nostro mondo relativista e ipocrita non si parla della morte tra persone educate. Se ci azzardassimo ad affrontare questo argomento in un salotto tra amici, invitandoli a prepararsi per tempo alla morte, probabilmente saremmo subito zittiti e accusati, più o meno benevolmente, di essere degli iettatori[1]. Quando io ero una ragazza era considerato disdicevole parlare di sesso nei salotti; figurarsi poi se una fanciulla di buona famiglia avrebbe potuto raccontare una barzelletta spinta! Invece ora, che il sesso ci viene somministrato continuamente e ovunque in tutte le dosi, è diventato di cattivo gusto parlare della morte. In realtà, non si tratta di una nuova moda: già Epicuro, più di duemila anni fa, si rifiutava di parlarne perché (diceva) “quando ci siamo noi, non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi”.
La morte va annullata, emarginata, esorcizzata, rimossa dall’esperienza quotidiana e, a questo scopo, gli Stati moderni hanno istituito ottime organizzazioni sociali per mettere in disparte i morti, cancellarne lo spettacolo e non pensarci più. Perfino la saggezza popolare ha coniato un proverbio, ”Chi muore giace e chi vive si dà pace”, per allontanare il più presto possibile dal nostro spirito questo angoscioso pensiero. Infatti, collegato alla rimozione della morte dalla vita sociale è l’imbarazzo di fronte al moribondo: in presenza di un malato terminale non si sa che cosa dire (devo confessare, vergognandomi, che questo una volta è capitato anche a me), manca la spontaneità nell’esprimere la compassione ed è difficile accordare la partecipazione emotiva con l’autocontrollo. Il motivo di tutto ciò secondo me è chiarissimo: anche se siamo profondamente credenti, una sorta di malinteso rispetto umano ci impedisce di inginocchiarci al capezzale del moribondo, pregando per lui, affidandolo all’intercessione della Madonna e invitandolo ad accettare la volontà di Dio. Si tace, invece, per non “spaventare” il morente, se è cosciente, o i suoi familiari e soprattutto per non cadere noi stessi nel terrore della morte, pensando che prima o poi toccherà anche a noi e ai nostri cari. Io stessa – che invece penso spesso alla mia morte e senza troppa angoscia, perché cerco di tenermi sempre pronta affidandomi costantemente all’intercessione della Madre di Dio – non riesco a pensare alla scomparsa delle persone che amo: il pensiero mi è intollerabile e devo scacciarlo, non prima però di aver invocato la Madonna per affidare a lei quelle persone e per chiederle di farci sentire la sua presenza accanto a noi in quei momenti supremi.
Ma chi non è credente e non mette quotidianamente la sua vita nelle mani di Dio riesce veramente a vivere quel momento così importante in modo autenticamente umano e sereno? Mi pongo questa domanda perché ricordo che qualche anno fa il Prof. Umberto Veronesi disse di aver notato una maggiore serenità di fronte alla morte nei malati terminali atei che in quelli cattolici osservanti. Non ho difficoltà a pensare che, almeno in teoria, l’illustre scienziato, notoriamente ateo, abbia ragione ed ora cercherò di spiegare il perché. Gli atei coerenti con la loro fede di segno negativo, ammesso che esistano, pensano che con il loro ultimo respiro essi faranno un salto nel Nulla, in un sonno pesante e privo di sogni che durerà in eterno e del quale essi non avranno alcuna coscienza perché sarà la Fine, il Nulla filosofico ed esistenziale. Tutto ciò che essi avranno detto e fatto di buono o di cattivo nel corso della loro vita, breve o lunga che sia stata, perderà qualunque importanza e tutto sarà rimescolato, sommerso e cancellato nel Nulla cosmico. Perciò, se costoro riescono davvero a respingere l’idea di Dio oltre la soglia del loro pensiero, perché dovrebbero temere la morte? E’ quanto dimostra (o crede di dimostrare) un film franco – canadese del 2003, “Le invasioni barbariche”, vincitore di due premi al Festival di Cannes e dell’Oscar quale migliore film straniero di quell’anno.
In questo film assistiamo alle ultime ore di un professore cinquantenne, divorziato e socialista “edonista”. Suo figlio, che invece è un bigotto “capitalista”, usa il molto denaro di cui la famiglia dispone per rendergli la morte meno dolorosa, illudendosi di tenere a bada i sentimenti e le domande di fondo. Ma tra questi sentimenti e questi interrogativi Dio è completamente assente, perché essere bigotti non significa affatto avere una visione cristiana, o almeno trascendente, del grande momento. Infatti tutti gli altri personaggi, figli e parenti, di fronte alla morte del loro congiunto fanno un bilancio di tutte le mode intellettuali, le correnti di pensiero, le filosofie, i valori più o meno dubbi del loro tempo, ma Dio non è preso in considerazione neppure lontanamente e il protagonista, descritto come invidiabile, muore serenamente pago dell’affetto e della vicinanza della sua famiglia più o meno allargata, considerata l’unico rifugio valido.
Questo film sembra dare ragione al Prof. Veronesi sia dal versante laico che da quello della fede ed io – pur apprezzandone, da cinefila quale sono, l’ottima sceneggiatura, la regia e il frizzante dialogo che ha l’unico difetto di essere fatto apposta per allontanare dalla morte l’idea di Dio – mi trovo invece sul versante opposto di questa “weltanschauung”. Sono convinta che il cristiano, il vero cristiano, tema la morte perché sa che con essa egli non finirà nel Nulla cosmico ma dovrà affrontare il“Giudizio”; sa che la morte sarà l’incontro con Dio, con quel Giudice, misericordioso sì, ma giusto che, in un colpo d’occhio, gli farà prendere coscienza di tutti i suoi peccati, delle sue innumerevoli imperfezioni, delle manchevolezze, delle meschinità.“Quid sum miser tunc dicturus ? / Quem patronum rogaturus / Cum vix justus sit securus?” (“Che dirò allora, povero me? Quale difensore chiamerò, Quando a mala pena il giusto potrà dirsi al sicuro?”) piange il “Dies Irae”, la terribile e splendida sequenza della “Missa pro defunctis” prevista dal Messale Tridentino ed ora accantonata dalla Chiesa moderna, forse perché neppure essa ora vuole pensare troppo alla Morte e al “dopo”.
Infatti l’idea della morte è terrificante e ci è voluta tutta la santità di Francesco d’Assisi per arrivare a chiamarla “sorella”. Di questo terrore non fu esente neppure Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, che sudò sangue nell’orto del Getsemani alla vigilia della Sua Passione. Invece (guardate un po’ la stranezza …!) in questo nostro tempo, così contraddittorio, i telefilm americani più in voga , e soprattutto quelli della TV digitale terrestre (ottimamente sceneggiati e recitati, questo bisogna riconoscerlo) ci propinano quotidianamente scene ambientate negli obitori, con cadaveri sezionati sui tavoli anatomici e messi in bella mostra dal “coroner” di turno con dovizia di macabre esibizioni e dettagliate descrizioni dei reperti autoptici[2]. Anche i bambini li guardano e così, tra i telefilm e i video giochi, le povere creature innocenti si abituano a pensare che la morte sia solo una “fiction”, anche se poi tocca al loro nonno morire e allora si stupiranno se, dopo un po’, il poveretto non si rialzerà in piedi. Nei secoli passati, invece, la morte era considerata una maestra di vita e un deterrente dai vizi: ora questa concezione è stata bandita per lasciare spazio non ad una visione più serena di essa, ma alla sua rimozione.
Il supplemento settimanale IO DONNA del CORRIERE DELLA SERA pubblica sempre il cosiddetto “Questionario di Proust”, consistente in domande di vario genere rivolte a personaggi famosi dello spettacolo e della cultura. Io lo leggo sempre perché sono curiosa di sapere come questi saccenti “maitres à penser” rispondono alla domanda “Come vorresti morire?” che compare quasi sempre. Ebbene: non ce ne è mai uno che risponda: “In pace con Dio e con gli uomini, invocandol’intercessione della Madonna e affidandomi alla misericordia di Dio”. Tutti vorrebbero morire nel sonno, senza accorgersene, o “guardando un bel tramonto”, o facendo l’amore, o godendo di altre gratificazioni più o meno poetiche. E allora io mi domando: “E’ mai possibile che nessuno si lasci sfiorare dal sospetto che forse Dio esiste davvero e la morte segna il nostro incontro con Lui?” E’ il segno dei tempi: di Dio non si preoccupa più nessuno.
Moriamo da soli: nessuno di noi ha l’esperienza della morte e non possiamo chiedere a nessuno “come sia andata” perché nessuno è mai tornato a dircelo. Credo che questo sia il maggior problema psicologico ed esistenziale che l’uomo non è mai riuscito a risolvere perché è collegato alla rimozione che ne fanno gli altri. E’ quanto descrive Leone Tolstoj nel lungo racconto“La morte di Ivan Il’ic”. Il protagonista è un malato terminale di cancro, i suoi familiari lo sanno benissimo ma fanno a gara nel mentirgli dicendogli che non deve far altro che stare tranquillo e curarsi, che allora sarebbe guarito. Il poveretto soffre più per questa menzogna – che assimila la sua morte a uno spiacevole incidente familiare del quale, dopo un po’, tutti si dimenticheranno – che per la sua malattia e mentre gli altri recitano la commedia, lui “arriva a un capello dal gridar loro: “Smettetela di dir bugie! Sapete anche voi che sto per morire!” [3]. Solo il suo servitore Gherasim, uomo umile ma infinitamente più dotato di “sapientia cordis” di quanto non siano i suoi raffinati padroni, passa le notti accanto a lui e quando il suo padrone morente lo invita ad andare a riposarsi, gli risponde: “Tutti quanti morremo. Perché non ti dovrei assistere?”.
Il tema della morte è stato affrontato anche dal regista Ingmar Bergman in molti film, tra i quali ricorderò solo “Sussurri e grida”del 1972, in cui descrive una situazione umana analoga a quella di Ivan Il’ic. Una donna morente trova conforto e pace, non nelle sue sorelle – spiritualmente sole e incapaci di superare egoismo e aridità spirituale, nonostante siano mogli e madri – ma in un’umile domestica, l’unica capace di amare e di incarnare, negli ultimi istanti della povera morente, quasi quella figura materna fatta di vicinanza, fisicità e calore che ella disperatamente cerca.
Sia Tolstoj che Bergman dimostrano che se ciascuno di noi trovasse la forza psicologica di ricacciare indietro la paura della morte che ci attanaglia nell’assistere a quella altrui (quella vera, non quella delle fiction che non spaventa più neppure i bambini) aiutando il morente con la vicinanza, l’amore e la preghiera, ma soprattutto con la Verità – che, come ci ha detto Gesù, ci rende liberi – egli non avrebbe la sensazione atroce della solitudine, come purtroppo spesso avviene, non sarebbe tentato dalla disperazione, chiedendo l’eutanasia e facendo così esultare il demonio, ma pregherebbe insieme ai suoi familiari, accetterebbe la volontà di Dio e il suo “passaggio” avverrebbe nella pace; la morte non sarebbe più considerata un fatto privato, quasi “un panno sporco da lavare in famiglia.”
Quindi, questo mondo che giudica “buona” solo la morte che giunge improvvisa e repentina non disturbando la coscienza dell’interessato, ma che, per altro verso, invoca l’eutanasia – cioè la morte tecnica che non lo impegna, perché sedato e incosciente, quando la “qualità” della vita non è soddisfacente – non è certamente cristiano perché, come ha scritto Benedetto XVI, “si vuole chiudere la porta in faccia alla metafisica prima che questa possa presentarsi”[4]. La preghiera della festa di Ognissanti che ho citato in epigrafe e che io recito spesso tra me e me esprime compiutamente l’atteggiamento del cristiano di fronte alla morte: essere portato via all’improvviso senza essersi potuto preparare, senza sentirsi pronto, è considerato dal seguace di Cristo come il peggior pericolo da cui vorrebbe essere preservato. Invece per gli increduli, come rivela ilQuestionario di Proust, la morte dovrebbe avvenire improvvisamente e inavvertitamente per non lasciare tempo alla riflessione e alla sofferenza, proprio perché non si è riusciti a estirpare del tutto quella paura metafisica che evidentemente è parte integrante della psiche umana.
Si crede di in questo modo di padroneggiare la morte e di reprimerne la paura. Invece collocando la malattia e la morte nel piano del tecnicamente fattibile, si degrada e si disumanizza l’uomo, come si è verificato puntualmente con le leggi che consentono l’aborto, l’eutanasia e l’eliminazione degli embrioni in soprannumero. Nel tendere a ridurre l’ “humanum” emergono due opposte tendenze: da un lato, l’uomo è di intralcio a una visione positivistica e tecnocratica del mondo; dall’altro, egli contraddice il naturalismo integrale che, vedendo nello spirito il vero ostacolo, tenta sempre più di considerare l’uomo come “un animale mal riuscito”. La brutalizzazione della vita umana cui oggi assistiamo è intimamente connessa al rifiuto del problema “morte” , che si cerca di risolvere negando l’uomo stesso.
Ho detto che penso spesso alla mia Morte perché credo che questa riflessione sia un buon segno del mio amore per la vita e mi aiuti a cercare di spenderla meglio che sia possibile. Ma spero scherzosamente che gli amici che mi faranno l’onore di leggermi non mi considerino una iettatrice, come potrebbe avvenire in un salotto, ma si servano del mio umile scritto per apprezzare sempre più la vita che Dio ha dato loro, anche se spesso è accompagnata da dolori e delusioni, ma soprattutto per metterla ogni giorno nelle Sue mani, nella certezza che questo sarà un ottimo investimento e non rimarremo delusi dalla nostra decisione.
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[1] Raccontò una volta Vittorio Messori (IL MESSAGGERO, 19.5.2002) di aver incontrato qualche difficoltà nel pubblicare il suo libro “Scommessa sulla morte” (S.E.I. Torino, 1982) perché gli editori temevano di non riuscire a venderlo a causa del titolo ritenuto iettatorio.. Invece il libro uscì e se ne vendettero subito 350 mila copie.
[2] Nel telefilm “Bones” (Ossa) che è anche il soprannome della protagonista, antropologa forense,la morte violenta è trattata come una banalità quotidiana, forse allo scopo più o meno cosciente degli autori di negare l’importanza antropologica e spirituale della morte presentandola come un evento che può capitare a tutti e allora conviene non prendersela tanto e cercare di vivere il meglio possibile..
[3] L. Tolstoj, “Quattro romanzi”, Rizzoli, Milano 1976, pag. 89.
[4] J. Ratzinger – Benedetto XVI. “ESCATOLOGIA. Morte e vita eterna”. Cittadella Editrice 2008.
“A subitanea morte libera nos, Domine”. (Litania di Ognissanti)
di Carla D’Agostino Ungaretti
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In alcune delle mie ultime riflessioni ho meditato su due argomenti che, secondo la fede cristiana, sono realtà che maturano nella storia e si completano con la fine della vita umana: l’inferno e il Paradiso che, di riflesso, riguardano anche la palingenesi, ossia la rigenerazione del cosmo, l’uomo compreso, alla vita eterna. Ma questi eventi sono preceduti, per l’intero cosmo, dalla morte e sono connessi con la seconda venuta del Cristo che darà luogo al “Giudizio”. Mi sono accorta allora che stavo parlando dei “Novissimi”, cioè di argomenti (secondo l’etimologia latina) totalmente nuovi e mai sperimentati prima, perché sono gli effetti di un’opera di Dio che supera qualsiasi aspettativa e immaginazione umana. Non avevo cominciato però dal primo, ma dal terzo proseguendo poi con il quarto; vorrei perciò ora tornare indietro e meditare sul primo, la Morte, riservando il Giudizio a una prossima occasione, sempre “Deo favente”.
Nel nostro mondo relativista e ipocrita non si parla della morte tra persone educate. Se ci azzardassimo ad affrontare questo argomento in un salotto tra amici, invitandoli a prepararsi per tempo alla morte, probabilmente saremmo subito zittiti e accusati, più o meno benevolmente, di essere degli iettatori[1]. Quando io ero una ragazza era considerato disdicevole parlare di sesso nei salotti; figurarsi poi se una fanciulla di buona famiglia avrebbe potuto raccontare una barzelletta spinta! Invece ora, che il sesso ci viene somministrato continuamente e ovunque in tutte le dosi, è diventato di cattivo gusto parlare della morte. In realtà, non si tratta di una nuova moda: già Epicuro, più di duemila anni fa, si rifiutava di parlarne perché (diceva) “quando ci siamo noi, non c’è la morte e quando c’è la morte non ci siamo noi”.
La morte va annullata, emarginata, esorcizzata, rimossa dall’esperienza quotidiana e, a questo scopo, gli Stati moderni hanno istituito ottime organizzazioni sociali per mettere in disparte i morti, cancellarne lo spettacolo e non pensarci più. Perfino la saggezza popolare ha coniato un proverbio, ”Chi muore giace e chi vive si dà pace”, per allontanare il più presto possibile dal nostro spirito questo angoscioso pensiero. Infatti, collegato alla rimozione della morte dalla vita sociale è l’imbarazzo di fronte al moribondo: in presenza di un malato terminale non si sa che cosa dire (devo confessare, vergognandomi, che questo una volta è capitato anche a me), manca la spontaneità nell’esprimere la compassione ed è difficile accordare la partecipazione emotiva con l’autocontrollo. Il motivo di tutto ciò secondo me è chiarissimo: anche se siamo profondamente credenti, una sorta di malinteso rispetto umano ci impedisce di inginocchiarci al capezzale del moribondo, pregando per lui, affidandolo all’intercessione della Madonna e invitandolo ad accettare la volontà di Dio. Si tace, invece, per non “spaventare” il morente, se è cosciente, o i suoi familiari e soprattutto per non cadere noi stessi nel terrore della morte, pensando che prima o poi toccherà anche a noi e ai nostri cari. Io stessa – che invece penso spesso alla mia morte e senza troppa angoscia, perché cerco di tenermi sempre pronta affidandomi costantemente all’intercessione della Madre di Dio – non riesco a pensare alla scomparsa delle persone che amo: il pensiero mi è intollerabile e devo scacciarlo, non prima però di aver invocato la Madonna per affidare a lei quelle persone e per chiederle di farci sentire la sua presenza accanto a noi in quei momenti supremi.
Ma chi non è credente e non mette quotidianamente la sua vita nelle mani di Dio riesce veramente a vivere quel momento così importante in modo autenticamente umano e sereno? Mi pongo questa domanda perché ricordo che qualche anno fa il Prof. Umberto Veronesi disse di aver notato una maggiore serenità di fronte alla morte nei malati terminali atei che in quelli cattolici osservanti. Non ho difficoltà a pensare che, almeno in teoria, l’illustre scienziato, notoriamente ateo, abbia ragione ed ora cercherò di spiegare il perché. Gli atei coerenti con la loro fede di segno negativo, ammesso che esistano, pensano che con il loro ultimo respiro essi faranno un salto nel Nulla, in un sonno pesante e privo di sogni che durerà in eterno e del quale essi non avranno alcuna coscienza perché sarà la Fine, il Nulla filosofico ed esistenziale. Tutto ciò che essi avranno detto e fatto di buono o di cattivo nel corso della loro vita, breve o lunga che sia stata, perderà qualunque importanza e tutto sarà rimescolato, sommerso e cancellato nel Nulla cosmico. Perciò, se costoro riescono davvero a respingere l’idea di Dio oltre la soglia del loro pensiero, perché dovrebbero temere la morte? E’ quanto dimostra (o crede di dimostrare) un film franco – canadese del 2003, “Le invasioni barbariche”, vincitore di due premi al Festival di Cannes e dell’Oscar quale migliore film straniero di quell’anno.
In questo film assistiamo alle ultime ore di un professore cinquantenne, divorziato e socialista “edonista”. Suo figlio, che invece è un bigotto “capitalista”, usa il molto denaro di cui la famiglia dispone per rendergli la morte meno dolorosa, illudendosi di tenere a bada i sentimenti e le domande di fondo. Ma tra questi sentimenti e questi interrogativi Dio è completamente assente, perché essere bigotti non significa affatto avere una visione cristiana, o almeno trascendente, del grande momento. Infatti tutti gli altri personaggi, figli e parenti, di fronte alla morte del loro congiunto fanno un bilancio di tutte le mode intellettuali, le correnti di pensiero, le filosofie, i valori più o meno dubbi del loro tempo, ma Dio non è preso in considerazione neppure lontanamente e il protagonista, descritto come invidiabile, muore serenamente pago dell’affetto e della vicinanza della sua famiglia più o meno allargata, considerata l’unico rifugio valido.
Questo film sembra dare ragione al Prof. Veronesi sia dal versante laico che da quello della fede ed io – pur apprezzandone, da cinefila quale sono, l’ottima sceneggiatura, la regia e il frizzante dialogo che ha l’unico difetto di essere fatto apposta per allontanare dalla morte l’idea di Dio – mi trovo invece sul versante opposto di questa “weltanschauung”. Sono convinta che il cristiano, il vero cristiano, tema la morte perché sa che con essa egli non finirà nel Nulla cosmico ma dovrà affrontare il“Giudizio”; sa che la morte sarà l’incontro con Dio, con quel Giudice, misericordioso sì, ma giusto che, in un colpo d’occhio, gli farà prendere coscienza di tutti i suoi peccati, delle sue innumerevoli imperfezioni, delle manchevolezze, delle meschinità.“Quid sum miser tunc dicturus ? / Quem patronum rogaturus / Cum vix justus sit securus?” (“Che dirò allora, povero me? Quale difensore chiamerò, Quando a mala pena il giusto potrà dirsi al sicuro?”) piange il “Dies Irae”, la terribile e splendida sequenza della “Missa pro defunctis” prevista dal Messale Tridentino ed ora accantonata dalla Chiesa moderna, forse perché neppure essa ora vuole pensare troppo alla Morte e al “dopo”.
Infatti l’idea della morte è terrificante e ci è voluta tutta la santità di Francesco d’Assisi per arrivare a chiamarla “sorella”. Di questo terrore non fu esente neppure Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, che sudò sangue nell’orto del Getsemani alla vigilia della Sua Passione. Invece (guardate un po’ la stranezza …!) in questo nostro tempo, così contraddittorio, i telefilm americani più in voga , e soprattutto quelli della TV digitale terrestre (ottimamente sceneggiati e recitati, questo bisogna riconoscerlo) ci propinano quotidianamente scene ambientate negli obitori, con cadaveri sezionati sui tavoli anatomici e messi in bella mostra dal “coroner” di turno con dovizia di macabre esibizioni e dettagliate descrizioni dei reperti autoptici[2]. Anche i bambini li guardano e così, tra i telefilm e i video giochi, le povere creature innocenti si abituano a pensare che la morte sia solo una “fiction”, anche se poi tocca al loro nonno morire e allora si stupiranno se, dopo un po’, il poveretto non si rialzerà in piedi. Nei secoli passati, invece, la morte era considerata una maestra di vita e un deterrente dai vizi: ora questa concezione è stata bandita per lasciare spazio non ad una visione più serena di essa, ma alla sua rimozione.
Il supplemento settimanale IO DONNA del CORRIERE DELLA SERA pubblica sempre il cosiddetto “Questionario di Proust”, consistente in domande di vario genere rivolte a personaggi famosi dello spettacolo e della cultura. Io lo leggo sempre perché sono curiosa di sapere come questi saccenti “maitres à penser” rispondono alla domanda “Come vorresti morire?” che compare quasi sempre. Ebbene: non ce ne è mai uno che risponda: “In pace con Dio e con gli uomini, invocandol’intercessione della Madonna e affidandomi alla misericordia di Dio”. Tutti vorrebbero morire nel sonno, senza accorgersene, o “guardando un bel tramonto”, o facendo l’amore, o godendo di altre gratificazioni più o meno poetiche. E allora io mi domando: “E’ mai possibile che nessuno si lasci sfiorare dal sospetto che forse Dio esiste davvero e la morte segna il nostro incontro con Lui?” E’ il segno dei tempi: di Dio non si preoccupa più nessuno.
Moriamo da soli: nessuno di noi ha l’esperienza della morte e non possiamo chiedere a nessuno “come sia andata” perché nessuno è mai tornato a dircelo. Credo che questo sia il maggior problema psicologico ed esistenziale che l’uomo non è mai riuscito a risolvere perché è collegato alla rimozione che ne fanno gli altri. E’ quanto descrive Leone Tolstoj nel lungo racconto“La morte di Ivan Il’ic”. Il protagonista è un malato terminale di cancro, i suoi familiari lo sanno benissimo ma fanno a gara nel mentirgli dicendogli che non deve far altro che stare tranquillo e curarsi, che allora sarebbe guarito. Il poveretto soffre più per questa menzogna – che assimila la sua morte a uno spiacevole incidente familiare del quale, dopo un po’, tutti si dimenticheranno – che per la sua malattia e mentre gli altri recitano la commedia, lui “arriva a un capello dal gridar loro: “Smettetela di dir bugie! Sapete anche voi che sto per morire!” [3]. Solo il suo servitore Gherasim, uomo umile ma infinitamente più dotato di “sapientia cordis” di quanto non siano i suoi raffinati padroni, passa le notti accanto a lui e quando il suo padrone morente lo invita ad andare a riposarsi, gli risponde: “Tutti quanti morremo. Perché non ti dovrei assistere?”.
Il tema della morte è stato affrontato anche dal regista Ingmar Bergman in molti film, tra i quali ricorderò solo “Sussurri e grida”del 1972, in cui descrive una situazione umana analoga a quella di Ivan Il’ic. Una donna morente trova conforto e pace, non nelle sue sorelle – spiritualmente sole e incapaci di superare egoismo e aridità spirituale, nonostante siano mogli e madri – ma in un’umile domestica, l’unica capace di amare e di incarnare, negli ultimi istanti della povera morente, quasi quella figura materna fatta di vicinanza, fisicità e calore che ella disperatamente cerca.
Sia Tolstoj che Bergman dimostrano che se ciascuno di noi trovasse la forza psicologica di ricacciare indietro la paura della morte che ci attanaglia nell’assistere a quella altrui (quella vera, non quella delle fiction che non spaventa più neppure i bambini) aiutando il morente con la vicinanza, l’amore e la preghiera, ma soprattutto con la Verità – che, come ci ha detto Gesù, ci rende liberi – egli non avrebbe la sensazione atroce della solitudine, come purtroppo spesso avviene, non sarebbe tentato dalla disperazione, chiedendo l’eutanasia e facendo così esultare il demonio, ma pregherebbe insieme ai suoi familiari, accetterebbe la volontà di Dio e il suo “passaggio” avverrebbe nella pace; la morte non sarebbe più considerata un fatto privato, quasi “un panno sporco da lavare in famiglia.”
Quindi, questo mondo che giudica “buona” solo la morte che giunge improvvisa e repentina non disturbando la coscienza dell’interessato, ma che, per altro verso, invoca l’eutanasia – cioè la morte tecnica che non lo impegna, perché sedato e incosciente, quando la “qualità” della vita non è soddisfacente – non è certamente cristiano perché, come ha scritto Benedetto XVI, “si vuole chiudere la porta in faccia alla metafisica prima che questa possa presentarsi”[4]. La preghiera della festa di Ognissanti che ho citato in epigrafe e che io recito spesso tra me e me esprime compiutamente l’atteggiamento del cristiano di fronte alla morte: essere portato via all’improvviso senza essersi potuto preparare, senza sentirsi pronto, è considerato dal seguace di Cristo come il peggior pericolo da cui vorrebbe essere preservato. Invece per gli increduli, come rivela ilQuestionario di Proust, la morte dovrebbe avvenire improvvisamente e inavvertitamente per non lasciare tempo alla riflessione e alla sofferenza, proprio perché non si è riusciti a estirpare del tutto quella paura metafisica che evidentemente è parte integrante della psiche umana.
Si crede di in questo modo di padroneggiare la morte e di reprimerne la paura. Invece collocando la malattia e la morte nel piano del tecnicamente fattibile, si degrada e si disumanizza l’uomo, come si è verificato puntualmente con le leggi che consentono l’aborto, l’eutanasia e l’eliminazione degli embrioni in soprannumero. Nel tendere a ridurre l’ “humanum” emergono due opposte tendenze: da un lato, l’uomo è di intralcio a una visione positivistica e tecnocratica del mondo; dall’altro, egli contraddice il naturalismo integrale che, vedendo nello spirito il vero ostacolo, tenta sempre più di considerare l’uomo come “un animale mal riuscito”. La brutalizzazione della vita umana cui oggi assistiamo è intimamente connessa al rifiuto del problema “morte” , che si cerca di risolvere negando l’uomo stesso.
Ho detto che penso spesso alla mia Morte perché credo che questa riflessione sia un buon segno del mio amore per la vita e mi aiuti a cercare di spenderla meglio che sia possibile. Ma spero scherzosamente che gli amici che mi faranno l’onore di leggermi non mi considerino una iettatrice, come potrebbe avvenire in un salotto, ma si servano del mio umile scritto per apprezzare sempre più la vita che Dio ha dato loro, anche se spesso è accompagnata da dolori e delusioni, ma soprattutto per metterla ogni giorno nelle Sue mani, nella certezza che questo sarà un ottimo investimento e non rimarremo delusi dalla nostra decisione.
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[1] Raccontò una volta Vittorio Messori (IL MESSAGGERO, 19.5.2002) di aver incontrato qualche difficoltà nel pubblicare il suo libro “Scommessa sulla morte” (S.E.I. Torino, 1982) perché gli editori temevano di non riuscire a venderlo a causa del titolo ritenuto iettatorio.. Invece il libro uscì e se ne vendettero subito 350 mila copie.
[2] Nel telefilm “Bones” (Ossa) che è anche il soprannome della protagonista, antropologa forense,la morte violenta è trattata come una banalità quotidiana, forse allo scopo più o meno cosciente degli autori di negare l’importanza antropologica e spirituale della morte presentandola come un evento che può capitare a tutti e allora conviene non prendersela tanto e cercare di vivere il meglio possibile..
[3] L. Tolstoj, “Quattro romanzi”, Rizzoli, Milano 1976, pag. 89.
[4] J. Ratzinger – Benedetto XVI. “ESCATOLOGIA. Morte e vita eterna”. Cittadella Editrice 2008.
é uno stillicidio continuo di miserie pretesche.Ormai mi sono quasi convinta che le consacrazioni sacerdotali da parecchi anni a questa parte siano invalide. Altrimenti qualcuno mi spieghi cosa sta succedendo.L'ultima sceneggiata nella città dove abito è questa: Muore un signore, è un divorziato e riaccompagnato e con un nuovo bambino ( oltre a quei figli che aveva prima ) era un bestemmiatore, un ubriacone, e anche un ateo che aveva più volte manifestato anche davanti al sacerdote che lui non credeva.Muore, viene fatto il funerale cattolico, durante la cerimonia il sacerdote dice: dal momento che lui portava il suo bambino al GREST ( gruppo della parrocchia estivo per i bimbi ) questo era un segno della sua conversione !!!! Poi durante la " mesta funzione " i bambini amici del figlio del defunto, attorno alla bara cantando accompagnati dell' immancabile chitarra e si danno la mano, e poi alla fine della " mesta funzione " vengono lanciati in aria palloncini . Dite voi qualcosa . Io sono senza più parole. jane
RispondiEliminaNon credo siano invalide le ordinazioni, ma lo siano loro nella loro mente, cuore e anima.
EliminaNe dovranno rendere conto, e salato il doppio, in quanto ministri validi.
Se fossero invalide le ordinazioni, i loro peccati sarebbero al massimo veniali..
Dopo aver visto un prete benedire ad un funerale una moka per il caffe contenente le ceneri del defunto (ops.. dello scomparso) si può solo dire
RispondiEliminaVIENI PRESTO NOSTRO SIGNORE GESÙ.