Le pestilenze, le eruzioni, i terremoti e i campanili
Beata la nazione il cui Dio è il Signore, il popolo che si è scelto come erede (Sal 33,12)
Lo storico Pietro Colletta (1775 – 1831) nella sua Storia del reame di Napoli descrive la terribile eruzione del Vesuvio del 1794, quella, per intenderci, che modificò per sempre l’aspetto del vulcano, la cui cima sprofondò in se stesso così che da allora la sua altezza è divenuta inferiore a quella del vicino monte Somma, che prima sovrastava.
Il Colletta, contemporaneo di quegli accadimenti, riferisce dei tre giorni in cui la cenere trasportata dal vento oscurò il sole, mentre il vulcano eruttava alte colonne di lava incandescente che si abbatteva in rivoli sulle città sottostanti, devastando terre fertilissime, case, conventi e chiese, senza risparmiare nemmeno il mare, nel quale trovava finalmente quiete.
Ecco quel che racconta: “Lo spettacolo di notte continua oppresse l’animo degli abitanti, che volgendosi, come è costume delle moltitudini, agli argomenti di religione, uomini e donne di ogni età o condizione, con piedi scalzi, chiome sciolte e funi appese al collo per segno di penitenza, andavano processionando dalla città al ponte della Maddalena, dove si adora una statua di san Gennaro, per memoria di creduto miracolo in altra eruzione (anno 1767, ndr); così che sta scolpita in attitudine di comandare al vulcano di arrestarsi.
Colà giunte le processioni, quelle de’ gentiluomini pregavano le consuete orazioni a voce bassa, quelle del popolo gridavano canzone allora composta nello stile plebeo. Ed in quel mezzo si vedeva cerimonia più veneranda: il cardinale arcivescovo di Napoli, e tutto il clero in abito sacerdotale, portando del medesimo santo la statua d’oro e le ampolle del sangue, fermarsi al ponte, volgere incontro al monte la sacra immagine, ed invocar per salmi la clemenza di Dio.”
E nel giro di ventiquattro ore, dopo un terribile terremoto durante il quale la cima del Vesuvio sprofondò, l’eruzione ebbe fine.
All’epoca, nei casi di calamità naturali, di epidemie oppure d’invasioni di nemici, era ben noto e praticato il ricorso alle processioni guidate dal Vescovo, per affidarsi, secondo la devozione del luogo, al Santo protettore o direttamente a Maria Santissima.
A tal proposito ricordiamo come la SS. Vergine più volte preservò dalla peste la città di Rapallo, che a Lei si era consacrata. Ugualmente fece con tutte le altre città che richiesero la Sua protezione.
E, dal 1657 ai nostri giorni, ogni anno in Rapallo si celebra una solenne funzione di ringraziamento per tali grazie ricevute.
Lo stesso accadeva se l’affidamento veniva rivolto a S. Michele Arcangelo. Negli annali delle Celeste Basilica del Monte Gargano, eretta sopra la grotta che l’Arcangelo Michele dette prova di avere consacrato personalmente, si trova il resoconto di quanto accadde durante l’epidemia di peste che, nel 1657, infuriò nell’Italia meridionale.
Vi si riferisce che il vescovo di Manfredonia indisse un triduo di suppliche a S. Michele, il quale, come aveva fatto con i suoi predecessori quando l’avevano pregato per le necessità del momento, gli apparve dicendogli: «Ho impetrato dalla SS. Trinità che chiunque adopererà i sassi della mia grotta, benedetti e con sopra scolpiti una croce e il mio nome, sarà liberato dalla peste».
E così avvenne.
Ma la storia della nostra fede dimostra che non occorreva essere abitanti di Monte S. Angelo per ottenere l’intervento di S. Michele, infatti sull’omonimo Castello in Roma troneggia una sua statua posta a ringraziamento per il miracoloso intervento durante la peste del 590 d.C. Secondo la tradizione papa Gregorio Magno, mentre guidava una processione per impetrare la fine del morbo, avrebbe avuto la visione di un angelo che rinfoderava la spada e avrebbe interpretato quel gesto come l’annuncio della fine della pestilenza.
In ricordo di tale grazia da allora la Mole Adriana venne chiamata Castel S. Angelo e sulla sua sommità fu posta una statua in legno che poi, nel seguire degli anni, fu via via sostituita da altre di sempre maggior pregio sino all’attuale, collocata nel 1753.
Si potrebbero portare molte altre prove dell’intervento divino nei casi di calamità di qualunque genere, comprese le invasioni di nemici e le battaglie, prima fra tutte quella di Lepanto, combattuta contro i Turchi il 7 ottobre 1571, per ottenere la cui vittoria Papa S. Pio V non solo istituì la Lega Santa di tutti gli Stati cattolici ma, attraverso le Confraternite del Rosario, organizzò un potente esercito di preghiere.
Questo è il resoconto, tratto dalle testimonianze dei partecipanti, che ne fa Paolo Granzotto nel suo libro La battaglia di Lepanto : “Quando le flotte giunsero a tiro di cannone i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Giovanni (d’Austria, comandante della flotta, ndr) innalzò lo stendardo con l’immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l’assoluzione secondo l’indulgenza concessa da Pio V per la crociata. Il vento improvvisamente cambiò direzione. Le vele dei Turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.”
Nonostante fossero superiori per numero di Galee, i Turchi furono completamente sconfitti e i pochi superstiti si ritirarono verso l’interno del golfo. Così fu assicurata la pace nel Mediterraneo. Val la pena di leggere l’intero racconto della battaglia sul sito dei Giustiniani.
E ancora oggi sul calendario il 7 ottobre è dedicato alla Madonna del S. Rosario.
Non si è a conoscenza invece di interventi divini ottenuti per fermare i terremoti, forse perché sono sempre stati improvvisi. Ai nostri giorni abbiamo imparato che non avvengono solo nel Sud d’Italia, che possono far ballare la terra per settimane intere senza che alcun scienziato sia in grado di prevederne la fine, che fanno crollare non solo le case e gli affreschi dei palazzi considerati patrimonio dell’Umanità, ma che feriscono anche le chiese sbriciolando i loro campanili.
Ma non vi è motivo di dubitare che Gesù, se coralmente supplicato, intereverrebbe anche a placare gli sconvolgimenti della terra allo stesso modo con cui placò la tempesta sul lago.
E due righe meritano proprio i nostri campanili, appoggiati alle chiese o incorporati in esse, le cui campane avevano svariate funzioni tutte utilissime: dal segnare le ore del giorno che scandivano i momenti lavorativi e quelli di riposo, allo scampanellare a festa per richiamare i fedeli alle funzioni religiose, fino ad avvertire di incendi, invasioni di nemici e di qualsiasi altra necessità che richiedesse il radunarsi.
Ma soprattutto il campanile connotava la storia e la tradizione di ogni comunità e la sua altezza, superiore a quella di tutte le altre costruzioni, lo rendeva visibile anche da lontano, ad indicare che si era finalmente giunti nel paese verso cui si stava viaggiando o tornando.
E l’attaccamento orgoglioso alla propria appartenenza fece coniare un aggettivo, campanilismo, che indica ancora oggi una rivalità litigiosa fra paesi confinanti.
Non vi è però chi non veda che stiamo vivendo tempi contrassegnati da continui terremoti non solo geofisici e osservabili con occhio umano, ma anche da sconvolgimenti politici, economici, spirituali ed etici, non direttamente visibili e quantificabili, ma avvertibili per le loro conseguenze sociali e per il disorientamento che inducono nel popolo.
E non sappiamo quali altre calamità potrebbero ancora attenderci: se l’eruzione del maggior vulcano sommerso d’Europa, che potrebbe spazzar via le coste dalla Sicilia alla Campania, oppure se nuove indigenze, carestie e guerre.
Inutile affannarsi per escogitare ricette e formule, la storia della nostra fede cattolica ci ha già indicato la strada, l’unica percorribile, perché non sappiamo quanto tutto ciò che stiamo vivendo sia direttamente voluto, o semplicemente permesso, da Dio.
E non potendo conoscere quali siano i pensieri del nostro Creatore, che sappiamo essere ben diversi dai nostri, l’unica ricetta sensata è il ricorso alla preghiera e alla penitenza, come fecero a Ninive e come fecero i nostri antenati, i cui Vescovi si misero a capo dei loro greggi per guidarli verso la salvezza fisica e spirituale.
Orwell conclude il suo profetico libro “1984” con quello che è diventato un comune aforisma, chi non conosce il proprio passato non controlla il proprio futuro, però non si vuole qui ricordare solamente come si comportarono i contemporanei di Noè, né quelli di Geremia e di Ezechiele e che fine fecero, si vorrebbe invece risvegliare la memoria degli interventi salvifici che, per intercessione dei Santi e di Maria Santissima, quando invocati nelle forme giuste, ottenne qualsiasi popolo in disgrazia.
Ogni credente dovrebbe quindi chiedere al Signore non solo la protezione di se stesso e della propria famiglia, ma che ispiri a tutta la Chiesa atti di sottomissione ed umiltà che aiutino tutti, credenti e non, a riscoprire la propria figliolanza divina.
Paola de Lillo
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