PREGATE SEMPRE
Attraverso la preghiera costante il credente si pone in comunicazione con Dio: non esiste una maniera più pronta ed efficace per gli effetti che produce di vivere la fede di affrontare le difficoltà e cercare sostegno
di Francesco Lamendola
Il Vangelo di Luca introduce con la seguente frase la parabola del giudice che non temeva Dio e della vedova importuna: [Gesù] disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi (18, 1).
Questo è il segreto della forza di Gesù come uomo (come Dio, il discorso, evidentemente, è diverso): la preghiera, la preghiera continua, incessante, che è come la finestra aperta per la quale entrano l’aria e la luce in un ambiente chiuso; come la pioggia e come l’acqua del torrente, che vengono a bagnare la terra inaridita e a ridare vita alle piante assetate.
Attraverso la preghiera costante, il credente si pone in comunicazione con Dio: non esiste una maniera più pronta, più efficace, più straordinaria – per gli effetti che produce – di vivere la fede, di affrontare le difficoltà, di cercare sostegno nei passaggi difficili. Un credente che prega poco è un povero credente, che la prima raffica di vento ostile metterà in crisi e, forse, allontanerà da Dio. La preghiera costante è la linfa stessa del rapporto fra uomo e Dio.
Chi prega poco, crede poco, spera poco, ama poco. Il credente, e magari il religioso, che si adopera e s’immerge in mille cose, s’impegna, si sfinisce – magari – in innumerevoli opere di carità, ma non trova il tempo di pregare, non è un vero credente: perché trascura l’essenziale e si disperde in ciò che potrebbe essere fatto anche da altri. Tutti possono compiere le opere, ma nessuno può sostituirsi a noi nella fede e, quindi, nella preghiera. Un credente che non prega è come un figlio che non rivolge mai la parola a suo padre; come un figlio che, se vive in un paese lontano, non gli scrive mai, non gli fa neppure uno straccio di telefonata.
La preghiera, poi, non deve essere solo, o prevalentemente, di richiesta: sarebbe la stessa cosa di un figlio che scrive al padre lontano unicamente per fargli richieste di tipo materiale. La preghiera principale deve essere di lode e di ringraziamento: è lì che si esprime la gioia del rapporto filiale con Dio, l’amore disinteressato che l’uomo ha per Lui, pallido riflesso e debole imitazione dell’amore totalmente puro e gratuito, spinto fino all’Incarnazione del Verbo, che Egli ha avuto e ha costantemente per le sue creature.
Anche in ciò, il credente prende esempio dal suo divino Maestro, Gesù Cristo: l’esempio di un rapporto intenso, continuo, con Dio; di una preghiera che non veniva mai meno. Gesù pregava ogni volta che poteva: pur sopraffatto da mille responsabilità, alla fine trovava il modo di eclissarsi e di trovare uno spazio di silenzio e solitudine per pregare il Padre suo. Certe volte, quasi si nascondeva: quando la folla lo premeva tutto il giorno, quando gli portavano decine di sordi, di muti, di storpi, di paralitici, di epilettici, d’indemoniati, ed egli non si negava mai a nessuno, purché dimostrassero di aver fede: anche al termine di quelle giornate convulse, per quanto stanco, per quanto affamato, si ritirava in disparte a pregare. Così aveva insegnato ai suoi discepoli: dando loro l’esempio. Li conduceva in luoghi appartati e si raccoglieva in silenzioso, confidente colloquio con Dio. Fu così, sulla vetta del Monte Tabor, che assistettero alla gloria della Sua trasfigurazione.
La notte in cui vennero ad arrestarlo, armati di spade e bastoni, come per catturare un brigante, lo trovarono che stava pregando nell’Orto degli ulivi. Aveva voluto che i tre apostoli più cari, Pietro, Giacomo e Giovanni, rimanessero a vegliare e pregare a poca distanza da lui: ma essi si erano addormentati. Li aveva ammoniti: Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Ma essi erano pieni di sonno, e non furono capaci di mettere in pratica la sua esortazione. Difatti, pochi minuti dopo, la tentazione si presentò minacciosa, ed essi caddero. Allorché videro che Gesù veniva arrestato e portato via, dubitarono, ebbero paura e si dispersero. Lo lasciarono solo: e avevano promesso di morire con Lui. Solo Pietro si avventurò nel cortile del sommo sacerdote, per avere notizie del prigioniero: ma poi, riconosciuto da una serva, rinnegò il suo Maestro per tre volte.
Ecco il segreto della preghiera: prevenire la tentazione. La preghiera è come una corazza contro la tentazione, contro il peccato. Dante, nel primo canto della Divina Commedia, descrive il suo smarrimento nella selva del peccato a causa del “sonno” in cui era caduto: un sonno significativo, morale più che materiale, che ricorda l’invincibile sonnolenza degli apostoli nel Getsemani. Si dice che le forze del male sono attive specialmente di notte: e la ragione, probabilmente, è questa. Se è vero che il Diavolo, come dice san Pietro nella sua prima epistola, si aggira simile a un leone ruggente, in cerca di anime da divorare, la notte è il tempo a lui più propizio, perché molte anime si abbandonano a disordini di ogni genere, sono stanche e non pregano: e quelle sono le condizioni ideali perché egli sferri il suo attacco. Il Diavolo aggrediva il santo curato d’Ars specialmente di notte; e lo stesso faceva con san Pio da Pietrelcina. Contava di fiaccarli togliendo loro il riposo; all’esterno delle loro camere, i testimoni atterriti udivano un grande fracasso.
La notte, i monaci e le monache vegliano e pregano: si svegliano apposta per pregare, poi tornano a riposare un poco. Attendono l’alba, per poter cantare le lodi mattutine. Perché il Sole, come dice san Francesco nel Cantico delle creature, “porta significazione” di Dio: la sua luce disperde i fantasmi delle tenebre, le sinistre entità notturne, mette in fuga (momentanea) le presenze diaboliche. L’anima riprende coraggio; si riaccende la speranza nei cuori. L’autore del quarto Vangelo sottolinea il fatto che, quando Giuda intinse il pane nel piatto del Maestro e poi uscì fuori, per andare a denunciare Gesù presso il Sinedrio, Satana entrò nel suo cuore: Ed era notte, dice testualmente. Anche i due discepoli di Emmaus temevano il potere delle tenebre: per questo supplicarono il loro misterioso accompagnatore di rimanere con loro: Resta con noi, Signore, perché già si fa sera.
Privilegiare la preghiera significa ricordarsi delle parole di Gesù, rivolte a Marta, la sorella di Lazzaro: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose; ma una sola cosa è necessaria. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta (Luca, 10, 41-42). È semplicemente assurdo, pertanto, voler distinguere i cristiani in “attivi” e “contemplativi”: il vero cristiano è il contemplativo per eccellenza, perché è sempre affascinato dalla contemplazione di Dio; dalla contemplazione, dalla preghiera, discende anche l’attività. La regola di san Benedetto è, infatti: ora et labora, prega e lavora, e non già: labora et ora: perché l’azione discende dalla preghiera e non viceversa. Diversamente, cadremmo nell’errore di Marta: quello di preoccuparci ed agitarci per infinite cose, trascurando, però, la sola cosa veramente essenziale: rimanere sempre uniti a Dio e alla Sua volontà, per mezzo della preghiera.
La preghiera non consiste solo nel lodare e ringraziare Dio; e non è solo domandare il Suo aiuto e il Suo sostegno. La preghiera è anche, e soprattutto, ascoltare Dio: ascoltare Lui che ci parla, e fare silenzio per poter udire le Sue parole. Ecco un ulteriore motivo per evitare il chiasso del mondo, oppure per sfuggirlo, non appena sia possibile, se il lavoro e altre circostanze esterne ce lo rendono un bene non a portata di mano: solo nel silenzio e nel raccoglimento la Sua parola si fa udire distintamente. Non che essa risuoni solo nel silenzio: Dio ci parla sempre; ma siamo noi che, per la nostra fragilità, abbiamo bisogno di silenzio per udirlo. Quei cristiani che si agitano e corrono sempre qua e là, per servire il prossimo – essi dicono –, dimostrano poca fede in Dio: diversamente, saprebbero che, con la preghiera, si riceve l’aiuto di Dio e si può servire il prossimo nel modo più efficace; senza la preghiera e senza la presenza di Dio, si può fare per il prossimo quel che può fare il mondo: porgere, nel migliore dei casi, un aiuto esclusivamente materiale. E invece non di solo pane vive l’uomo, ha ammonito Gesù; ma anche della parola di Dio.
All’uomo che lo cerca, Dio parla: lo sostiene, lo incoraggia, lo conforta, lo consiglia; lo interroga, anche; lo sprona, lo ammonisce, e, qualche volta, lo rimprovera severamente. Come un Padre sollecito, non lascia nulla d’intentato per attirarlo a sé, perché solo in Lui l’uomo trova la pienezza: Dio, infatti, è il Bene, è l’Amore, e solo nel Bene e nell’Amore l’uomo si realizza, si appaga, si rasserena, si ritrova e si riconosce. Può darsi che un essere umano viva tutta la propria vita senza essersi mai riconosciuto: son cose che accadono. E accadono quando non si è mai cercato Dio, non si sa far mai silenzio in se stessi, non si è capaci d’ascoltarlo. E che cosa domanda, Dio, all’uomo? Semplicemente, di lasciarsi amare e di rimanere nel Suo amore: come i tralci che, se restano uniti alla vite, daranno molto frutto; mentre, se si staccano, non servono più a nulla, e vengono gettati nel fuoco, a bruciare.
L’uomo che prega, e prega spesso, è l’uomo spirituale; l’uomo che si agita molto, e sia pure a fin di bene, ma si scorda di pregare, è l’uomo carnale, che pensa secondo il mondo e agisce secondo il mondo. Vi sono dei cristiani, magari socialmente e politicamente impegnati, che dicono di voler cambiare il mondo; però non li si vede mai pregare: ebbene, chi non cerca di cambiare se stesso mediante la preghiera, non potrà mai cambiare il mondo. Il mondo si cambia partendo da se stessi, oppure non si cambia. Se ne potrà cambiare il colore, la vernice: si potrà costruire un mondo fascista, o comunista, o liberale, o capitalista, o quel che si vuole: ma quella è pur sempre la vernice. Sotto la vernice, gli antichi vizi restano intatti, perché solo la preghiera, solo la conversione del cuore, che scaturisce dalla relazione personale con Dio, può cambiare qualcosa. In verità, è già molto, moltissimo, se si riesce a cambiare se stessi. Cambiare il mondo in senso politico e sociale è una generosa utopia, ma una utopia: difatti, tutti coloro che hanno voluto tradurla in realtà immediata, hanno realizzato qualcosa di molto simile all’Inferno. Cambiarlo in senso morale e spirituale, ci si può provare, ma partendo da se stessi: senza, però, pensare mai che l’umanità possa redimersi da sola. Se lo potesse, non ci sarebbe stato bisogno che il Verbo s’incarnasse, che soffrisse, che morisse e che risuscitasse. Ma basta un’occhiata fuori dalla finestra di casa per constatare che nessuno può cambiare il mondo, se, con questa espressione, si intende che l’uomo possa trasformarlo in qualcosa di meglio da ciò che Dio ha voluto. Chi dice di voler cambiare il mondo dimostra, con ciò stesso, di non essere un vero cristiano. Il vero cristiano sa che l’uomo non può cambiare nemmeno un filo d’erba senza l’aiuto di Dio; e sa che Dio non ci domanda di cambiare o di salvare il mondo, ma di cambiare e salvare noi stessi. Ci offre un cuore nuovo, al posto del nostro vecchio cuore di pietra, come scrive il profeta Ezechiele; e chi riceve il cuore nuovo, smette di inseguire l’utopia di voler cambiare gli altri, e lavora per il bene senza fare progetti smisurati. Sa di essere solo un operaio: un umile operaio nella vigna del Signore. Sa che, da solo, non può fare assolutamente niente; ma confida in Dio, e sa che, col Suo aiuto, potrà fare realmente grandi cose. Queste grandi cose, poi, non consistono nel salvare il mondo: il mondo sarà quel che Dio ha deciso che sia, e l’uomo non può cambiare il disegno di Dio. Nessuno, perciò, e tanto meno Dio, ci chiede l’impossibile. Egli ci chiede, molto più semplicemente, molto più umilmente, molto più discretamente, di prendere la nostra croce sulle spalle, e di seguirlo. E ci promette che, con il Suo aiuto, quel peso terribile diventerà, per noi, leggero.
Molte persone, e anche molti credenti, vivono divorati dall’ansia: è il male tipico della modernità. Ebbene, il credente si difende dall’ansia prevenendola: e la prevenzione consiste nella preghiera. L’ansia, infatti, è il timore anticipato di chissà che cosa; di qualcosa che non si sa bene cosa sarà, oppure lo si sa, ma lo si ingigantisce oltremisura, lo si trasforma in una nube oscura e minacciosa, perennemente sospesa sul nostro capo e pronta a scagliarci contro fulmini e saette. L’abitudine alla preghiera crea uno stato d’animo confidente, pacificato, sereno; chi prega molto non è in ansia, e sa dominare le situazioni emotivamente “pericolose”, perché la preghiera costante gli consente di avere, nei loro confronti, uno sguardo limpido, e la giusta dose di distacco. L’uomo che prega frequentemente è sempre padrone di sé; l’uomo che prega poco e male, o che non prega affatto, è come un fuscello continuamente esposto ai venti e furiosamente sballottato dal loro imperversare. L’uomo che prega è ben saldo in se stesso, con i piedi piantati sulla terra e lo sguardo rivolto al Cielo; l’uomo che non prega è senza radici, precario, insicuro, nevrotico, perennemente affaticato dalla vita. L’uomo che prega ha fiducia, perché ha rinunciato al proprio io e si è fatto una cosa sola con Dio: che cosa potrà mai turbarlo, a quel punto? Che cosa lo potrà spaventare, che cosa lo potrà illudere? Eppure, a differenza dello stoico, egli sente e soffre e ama insieme al suo prossimo, uomo fra gli uomini; tuttavia, uomo spirituale, che sa cosa è essenziale e cosa è secondario, e che non si illude vanamente, non si dispera al primo rovescio di fortuna; ma, soprattutto, che confida in Dio, e in Lui trova la sua intima pace, che nulla e nessuno potranno sottrargli.
Pregare al mattino, per iniziare la giornata; alla sera, prima di abbandonarsi al riposo; pregare nelle gioie, pregare nei dolori; pregare ogni volta che è possibile: questa è la porta della vita divina…
Pregate sempre, senza stancarvi mai
di Francesco Lamendola
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