Principiis obsta
Martedí scorso è stata resa nota, con una conferenza stampa del Card. Gerhard Müller, l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Ad resurgendum cum Christo circa la sepoltura dei defunti e la conservazione delle ceneri in caso di cremazione, che reca la data del 15 agosto 2016. Il documento è stato presentato dai media e — va detto — è stato accolto anche da molti cattolici come se introducesse delle novità nella prassi della Chiesa in materia. In realtà l’istruzione non modifica in alcun modo l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cremazione. Se una novità c’è stata in questo campo, essa fu introdotta dall’istruzione del Sant’UffizioPiam et constantem del 5 luglio 1963, con la quale si disponeva che non fossero piú negati i sacramenti e le esequie a coloro che avessero chiesto la cremazione, a condizione che tale scelta non fosse voluta «come negazione dei dogmi cristiani, o con animo settario, o per odio contro la religione cattolica e la Chiesa» (posizione successivamente recepita dal nuovo Codice di diritto canonico del 1983).
Un intervento, quello del 1963, che non cambiava nulla sul piano dottrinale, ma si limitava a modificare la prassi pastorale. Si tratta, se vogliamo, del primo segnale di una tendenza che avrebbe poi dilagato nella Chiesa. Può essere quindi utile riflettere, a posteriori, sulle conseguenze, talvolta devastanti, che possono avere certe scelte a torto considerate puramente pastorali e quindi dogmaticamente innocue.
La nuova istruzione, riaffermata la fede cristiana nella risurrezione e confermata la preferenza per la tradizionale prassi della sepoltura, cerca di mettere alcuni paletti a una pratica, quella della cremazione, che si va sempre di piú diffondendo anche fra i cattolici e sta assumendo, come era prevedibile, contorni ogni giorno piú preoccupanti. I paletti sono:Un intervento, quello del 1963, che non cambiava nulla sul piano dottrinale, ma si limitava a modificare la prassi pastorale. Si tratta, se vogliamo, del primo segnale di una tendenza che avrebbe poi dilagato nella Chiesa. Può essere quindi utile riflettere, a posteriori, sulle conseguenze, talvolta devastanti, che possono avere certe scelte a torto considerate puramente pastorali e quindi dogmaticamente innocue.
1. «le ceneri del defunto devono essere conservate di regola in un luogo sacro, cioè nel cimitero o, se è il caso, in una chiesa o in un’area appositamente dedicata a tale scopo dalla competente autorità ecclesiastica» (n. 5);
2. «la conservazione delle ceneri nell’abitazione domestica non è consentita»; in casi eccezionali, l’Ordinario «può concedere il permesso per la conservazione delle ceneri nell’abitazione domestica. Le ceneri, tuttavia, non possono essere divise tra i vari nuclei familiari e vanno sempre assicurati il rispetto e le adeguate condizioni di conservazione» (n. 6);
3. «per evitare ogni tipo di equivoco panteista, naturalista o nichilista, non sia permessa la dispersione delle ceneri nell’aria, in terra o in acqua o in altro modo oppure la conversione delle ceneri cremate in ricordi commemorativi, in pezzi di gioielleria o in altri oggetti» (n. 7);
4. «nel caso che il defunto avesse notoriamente disposto la cremazione e la dispersione in natura delle proprie ceneri per ragioni contrarie alla fede cristiana, si devono negare le esequie, a norma del diritto» (n. 8).
Penso che tutti possiamo trovarci d’accordo su queste norme: è il minimo che si possa esigere. Già alcune conferenze episcopali, fra cui quella italiana, erano intervenute nel medesimo senso sulla questione. Ora la Congregazione per la dottrina della fede estende a livello universale le misure che erano state adottate a livello locale. Non si può perciò che elogiare questo quanto mai opportuno intervento della “Suprema”.
È evidente che scopo dell’istruzione è quello di limitare i danni di un’incauta e poco lungimirante decisione presa oltre cinquant’anni fa. È proprio il caso di ripetere qui l’adagio ovidiano Principiis obsta: sero medicina paratur quum mala per longas convaluere moras (“bisogna contrastare la malattia ai primi sintomi; è troppo tardi correre ai ripari quando, dopo aver a lungo tergiversato, la malattia si è ormai irrimediabilmente aggravata”). Inutile chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
Mi ero già occupato di cremazione nel novembre del 2009 (qui e qui), in occasione dell’approvazione del nuovo rito delle esequie da parte dei vescovi italiani. Sono passati sette anni, ma ritengo che le considerazioni che facevo in quella sede siano tuttora sostanzialmente valide. Non merita quindi ripetersi. In quei post però toccavo un altro aspetto che viene completamente ignorato dalla nuova istruzione, ma che a me non sembra per nulla irrilevante: l’aspetto commerciale. Di fatto la cremazione è diventato un business, non solo per le agenzie che la praticano, ma talvolta anche (come si accennava in quei post) per la stessa Chiesa. Beh, dire una parola anche su questo aspetto non sarebbe stato, secondo me, fuori luogo. Come giustamente si fa notare l’incongruenza tra la scelta della cremazione per motivi economici e la trasformazione delle ceneri in gioielli (n. 7: «per tali modi di procedere non possono essere addotte le ragioni igieniche, sociali o economiche che possono motivare la scelta della cremazione»), forse non sarebbe stato male evidenziare pure la contraddizione insita nel giustificare la cremazione con motivi economici e poi trasformarla in una fonte di lucro. Per non parlare dello scandalo che certi comportamenti provocano da parte di una Chiesa che ambisce a essere, e apparire, “povera”.
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