ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 24 novembre 2016

Bei tempi. Andati.


Voce del verbo scomunicare. Che fa rima con amare

    Dopo la decisione di concedere a tutti i sacerdoti la possibilità di perdonare il peccato di aborto, contenuta nella lettera apostolica «Misericordia et misera» di Francesco, è tornata d’attualità una parola che sa d’antico: scomunica. Nel diritto canonico, infatti, la Chiesa prevede proprio la scomunica per chi si rende responsabile di un peccato così grave.  Viene dunque da chiedersi: perché in certi casi la Chiesa prevede la scomunica? E che cos’è precisamente la scomunica?
La pena della scomunica, come dice la parola stessa, equivale a una sorta di esilio: la persona è messa fuori dalla comunità, è esclusa dalla comunione con tutti gli altri fedeli e non può né ricevere né impartire i sacramenti.  È come se la madre Chiesa dicesse al figlio che ha sbagliato: a causa di ciò che hai fatto, sei fuori. Anzi, meglio ancora: ti sei messo fuori da solo, resta lì per un po’ e medita su ciò che hai fatto.
Ma come fa la Chiesa da un lato a predicare la misericordia e dall’altro a «mettere fuori»? Non c’è una contraddizione?
Qui c’è un equivoco di fondo che va chiarito bene. La scomunica (si pensi proprio all’immagine dell’alunno che viene messo fuori dall’aula dopo che ne ha combinata una grossa) non è una rinuncia alla misericordia, ma una sua forma di esercizio. A volte, come sanno i genitori, il massimo della misericordia consiste proprio nel far capire al figlio la gravità di ciò che ha commesso. Altrimenti si cade nel relativismo e nell’indifferentismo morale, che è il male più grande, perché elimina dall’orizzonte umano la possibilità di valutare la qualità morale di un atto, e così facendo mortifica la libertà e conduce l’uomo a essere schiavo di se stesso.

Circa l’aborto, il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2272) lo spiega chiaramente: dopo aver ribadito che «la cooperazione formale a un aborto costituisce una colpa grave», dice infatti che attraverso la scomunicalatae sententiae (cioè che scatta «per il fatto stesso di aver commesso il delitto») la Chiesa non vuole «restringere il campo della misericordia». L’obiettivo è invece quello di mettere «in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno irreparabile causato all’innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la società».
La Chiesa, che è madre, quando prevede una pena non lo fa per il gusto di punire, ma perché il figlio ritrovi la strada della conversione e della comunione. La scomunica ha un fine pedagogico: si tratta di rendere le persone pienamente consapevoli della gravità del peccato, così che, attraverso un percorso di penitenza, la ferita sia rimarginata.
Per la mentalità attuale, imbevuta di relativismo e al tempo stesso di sentimentalismo superficiale, è quasi impossibile capire che l’amore materno può, e a volte deve, esprimersi così. Noi oggi preferiamo parlare di dialogo, comprensione, accompagnamento, inclusione, e la sola idea di «mettere fuori» ci fa orrore. Fatichiamo ad accettare l’idea che, rinunciando alla sanzione, rendiamo non più facile ma più difficile percepire la distinzione fra bene e male, fra buono e cattivo, fra bello e brutto e che, così facendo, rendiamo un pessimo servizio a tutti: alla persona che ha sbagliato, a noi stessi, alla comunità intera.
Non che la madre Chiesa non si preoccupi di accogliere, tutt’altro, però ci ricorda la distinzione dei ruoli: chi ha autorità morale la deve esercitare, sulla base della propria sapienza, per il bene di tutti.
E se il colpevole prova vergogna? Tanto meglio, risponde san Paolo (e qualche volta l’ha detto anche papa Francesco), perché provare vergogna fa bene sulla strada del pentimento.
Quanto all’aborto, perché la madre Chiesa, come tiene a precisare lo stesso Francesco, lo considera un peccato così grave?
L’aborto sopprime una vita innocente e, attraverso il bambino, colpisce Dio stesso, che di quella vita è il creatore. Nella sua sapienza di madre, la Chiesa ha ben presenti tutte le implicazioni di una tale scelta contro la vita. Il rapporto d’amore fra creatore e creatura subisce una ferita profonda: c’è il rifiuto della speranza e dell’aiuto che Dio sempre garantisce, c’è il prevalere di una visione individualistica dell’esistenza umana, c’è la vittoria della morte sulla vita. Ma pesanti sono anche le conseguenze sociali, perché se il forte sopprime il debole, il più bisognoso è abbandonato e chi ha voce prevale su chi non ha voce, è l’intera comunità a soffrirne.
Ecco perché fin dai primi secoli la Chiesa, attraverso la disciplina canonica, ha sanzionato in modo deciso il peccato d’aborto, riconfermando questa prassi nei diversi periodi storici.
In questo quadro, si capisce anche perché la potestà di assolvere dal peccato di aborto era riservata in linea di principio all’autorità più alta (sede apostolica, vescovo, canonico penitenziere). Non si trattava, come si è portati a pensare,  di autoritarismo, ma di una salvaguardia per tutti: per il peccatore, per la comunità dei credenti, per la società intera.
E per la donna, per le sue sofferenze, nessuna comprensione?
Non è così. Per continuare con la metafora iniziale dell’alunno «messo fuori», possiamo dire che la madre Chiesa non lo lascia da solo nel corridoio. Lo segue, gli parla, fa di tutto per ricondurlo dentro. La porta non è mai chiusa, perché la madre è contenta solo quando il figlio è rientrato. Anche quando applica la sanzione, la madre non si comporta mai come una carceriera senza cuore. Applica la scomunica, ma si mette subito al lavoro perché il peccatore, dopo aver sperimentato il gelo dell’isolamento, rientri a pieno titolo nella comunità.
Ecco così che la parola «scomunica» ci appare meno aspra e dura. Perché non equivale a una sentenza senza appello. Sempre che, ovviamente, da parte del peccatore ci sia un sincero pentimento.

Post scriptum

Dopo la pubblicazione di «Misericordia et misera», Emma Bonino ha commentato: «Questa inclusione di Papa Bergoglio, che non è nuova, mi è sembrata molto coraggiosa». E Monica Cirinnà: «Ormai non ci sono più scuse, basta medici obiettori».  Commenti che si qualificano da soli.
Com’è lontano il tempo in cui un laico a tutto tondo come Norberto Bobbio (correva l’anno 1981) si lasciava interpellare sinceramente dalla questione dell’aborto. Ricordo un’intervista che Bobbio concesse quell’anno. Spiegò che tra i due diritti in conflitto (quello della donna di non volere un figlio indesiderato e quello del concepito di non essere soppresso), il diritto del concepito è comunque più cogente rispetto a quello della madre, perché il diritto di non volere un figlio indesiderato può essere soddisfatto in diversi modi, per esempio non riconoscendo il figlio e affidandolo a una famiglia adottiva, mentre il diritto alla vita del bambino può essere tutelato in un modo solo: lasciandolo venire al mondo! E quando poi a Bobbio fu chiesto se non si aspettasse di suscitare stupore e critiche nel fronte pro-aborto per queste sue valutazioni, rispose:  «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere».
Bei tempi. Andati.

Aldo Maria Valli

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