CI SIAMO DIMENTICATI DI PREGARE
L’uomo contemporaneo, se vuol sottrarsi al suo destino di auto-distruzione, deve ritrovare il coraggio di pregare, cioè di confessarsi peccatore e, nello stesso tempo, di rivendicare arditamente la sua filiazione divina
di Francesco Lamendola
La civiltà moderna ha seguito le orme di Francis Bacon, di Galilei, dei philosphes illuministi e dei profeti del marxismo: bisogna smetterla con il sapere astratto, il sapere deve servire a dominare la natura, a rifare i cervelli, a portare la felicità agli uomini, e a rifare il mondo. Oh, niente di che: rifare i cervelli, rifare il mondo. Magari con la lama della ghigliottina o a forza di cacciare la gente dentro igulag; magari con qualche genocidio “educativo”, come quello perpetrato in Vandea, tanto per insegnare ai nemici del progresso che non conviene mettersi di traverso alle magnifiche sorti e progressive. Oggi non occorre commettere dei genocidi - quantunque vi si faccia ancora ricorso, di tanto in tanto -, basta servirsi della psichiatria e dichiarare pazzo chi non è persuaso. Il resto, poi, verrà da sé.
Purtroppo, il frenetico attivismo della società profana è penetrato anche nella Chiesa e ha contagiato, gradualmente, un numero crescente di sacerdoti, di religiosi e di suore, nonché di vescovi e abati: sembra che la vera, se non l’unica maniera, di corrisponde all’amore di Dio e di accoglier e la sua chiamata, sia quello di lanciarsi per le strade del mondo a fare un sacco di cose, le quali, pur essendo, in se stesse, legittime e utili, potrebbero nondimeno essere fatte dai laici, poiché distolgono i membri del clero dall’attitudine indispensabile per amare e servire degnamente Dio e il prossimo: l’attitudine contemplativa, fatta di spiritualità, ossia di devozione, ascolto, preghiera, meditazione, digiuno, penitenza, raccoglimento. In poche parole: la società moderna, sempre più secolarizzata, e la stessa Chiesa cattolica, sempre più modernista, hanno disimparato a pregare, o trascurato la preghiera; e questo ha aperto le porte a una serie di realtà negative, perché, dove la preghiera langue, il “vuoto” che si crea nella vita dell’anima viene subito riempito da influenze di altra natura, o, almeno, si verificano una serie di sforzi del Nemico per entrare e occupare silenziosamente gli spazi rimasti incustoditi e indifesi, magari travisando quel poco di religiosità che ancor sopravvive, e illudendo l’anima che non di una perversione si tratta, ma della vera realizzazione dello spirito evangelico, sfrondato di orpelli esteriori e devozioni ormai “superate”.
Per fare un esempio di quel che stiamo dicendo: una volta, nella cella di san Pio da Pietrelcina, quando era un ancor giovane frate cappuccino dalla salute assai cagionevole, si presentò il suo direttore spirituale e gli tenne degli strani discorsi, quantunque perfettamente ragionevoli, il cui succo era che avrebbe fatto meglio a svestire l’abito, dato che non aveva abbastanza salute e abbastanza perseveranza per la vita del convento. Poco alla volta, superato lo sbalordimento iniziale, il santo si rese conto che quello, pur avendone l’aspetto e la voce, non poteva essere il suo direttore spirituale, che mai gli avrebbe parlato a quel modo, e, dunque, doveva essere un altro, l’ospite tenebroso dei cuori tormentati e delle anime angosciate, che dubitano di poter corrispondere, come avrebbero voluto, alla vocazione divina. A quel punto, san Pio chiese al frate di unirsi a lui in una preghiera, per chiedere a Dio d’illuminarlo sulla decisione da prendere: ma costui, di punto in bianco, letteralmente scomparve. Ecco, questo intendevamo dire: che, se manca l’assiduità della preghiera, e, con essa, la abituale confidenza in Dio, l’anima può divenire preda di tutti gli inganni, e può perfino scambiare per volontà di Dio, o per richiesta di Dio, della Madonna e dei Santi, ciò che, invece, proviene da tutt’altra parte, e che ha sempre lo scopo di allontanare gli uomini dall’amore del loro Creatore.
Ci siamo chiesti più volte quale sia la ragione principale che ha così visibilmente indebolito la volontà degli uomini moderni, paralizzato il loro senso morale e inebetito le loro facoltà critiche, fino al punto di far loro accettare come cose perfettamente naturali tutta una serie di comportamenti, di azioni e di principî che non hanno nulla a che fare con l’educazione ricevuta e con il puro e semplice buon senso, oltre che con il senso del pudore, della convenienza, del rispetto umano, per non parlare del timor di Dio; e siamo giunti alla conclusione che il fattore decisivo deve essere stato proprio questo: il progressivo ridursi e indebolirsi della pratica della preghiera. Quando l’uomo smette di rivolgersi a Dio in maniera regolare, quotidiana; quando cessa dal domandare il suo aiuto, il suo consiglio, la sua protezione, e si abitua a fare conto unicamente sulle proprie forze, o sugli amici e su altri fattori puramente umani: quello è il momento in cui si preparano le condizioni per la caduta dell’anima in uno stato di confusione e di grave scoraggiamento.
Quando l’uomo, dopo aver fatto assegnamento sulle sole sue forze, va incontro alla sconfitta e si vede costretto a toccare con mano la sua debolezza e la sua fragilità, la sua incapacità di assumersi fino in fino le proprie responsabilità e di perseverare nei buoni propositi, è allora che egli cade in un profondo auto-disprezzo, oppure ha un soprassalto di lucidità e di dignità e torna a cercare aiuto, conforto e protezione là dove sempre le aveva trovate, e dove le avevano trovate i suoi genitori, i suoi nonni, i suoi avi: presso Dio, la Madonna, gli Angeli e i Santi. È allora che egli riscopre il valore prezioso e insostituibile della preghiera, e si meraviglia di aver potuto farne a meno così a lungo; è allora che avverte la sensazione di essersi disumanizzato, di essersi - in un certo senso – imbarbarito e imbestialito, tralasciando di praticare la preghiera quotidiana; perché un uomo che non prega mai decade al livello di un selvaggio o di un bruto.
La preghiera, infatti, non deve assolutamente essere considerata da un punto di vista meramente umano, come una attività umana, spirituale fin che si vuole, ma pur sempre umana; niente affatto: la preghiera è una finestra spalancata sul divino, attraverso la quale salgono a Dio i pensieri degli uomini, e scendono sugli uomini le grazie di Dio: i doni dello Spirito Santo, che operano in lui una radicale trasformazione, e lo mutano da uomo di polvere e fango in una creatura luminosa, bellissima, capace delle opere più splendide, dei sacrifici più immensi, dei gesti di bontà più sublimi e commoventi, quali mai avrebbe saputo attuare, o anche solo concepire, finché fosse rimasto chiuso in se stesso e nella propria illusoria autosufficienza.
I tempi che stiamo vivendo sono tempi particolarmente difficili. Non è una banalità, è una constatazione seria e drammatica: mai, come oggi, l‘umanità si è trovata sospesa sull’abisso; e forse mai, come oggi, alle minacce fisiche – finanziarie, tecnologiche, militari – si sommano le insidie intellettuali, spirituali, morali, di un attacco senza precedenti sferrato alla nostra intelligenza, alla nostra interiorità e al nostro sentimento del bene e del male. Perfino dentro la Chiesa, la minaccia che si profila è gravissima: mai, fino ad ora, si aveva avuto la sensazione che la Chiesa nel suo insieme, a cominciare dalla gerarchia, potesse scivolare verso l’eresia e l’apostasia: non un singolo sacerdote, non un singolo vescovo, né un singolo papa (cosa, quest’ultima, peraltro mai accaduta sino ad oggi): ma proprio la Chiesa in quanto tale, si capisce perla sua componente umana, la Chiesa pellegrinante. E il senso di solitudine e di sconforto del credente è terribile, senza precedenti.
Il credente entra in chiesa e si accosta alla santa Messa in cerca di sollievo, come un assetato che si trascina nel deserto infuocato, con le labbra spaccate dall’arsura, alla ricerca affannosa di un’oasi verdeggiante, di una fonte d’acqua fresca. Il prete incomincia l’omelia: parla e parla, dice anche parole dotte, concetti elevati; ma il fedele non si sente edificato, non si sente rasserenato; da lui non si allontana l’angoscia opprimente che lo aveva spinto si lì, ma, al contrario, quel senso di angoscia e di smarrimento paiono crescere, proprio mentre il sacerdote va avanti con la sua predica. Il credente si sforza di ascoltare con attenzione, si beve ogni parola, la depone nel cuore attentamente, con rispetto, con speranza: ma trova che abbiano, tutte, un suono terribilmente falso. Manca l’essenziale: manca la spiritualità; manca il calore di una vita vissuta in conformità a quelle parole; mancano lo slancio, l’ardore, l’entusiasmo di chi, cercando Dio, ha trovato una inesauribile riserva di energie spirituali, e, grazie ad esse, una capacità di riprendersi da ogni caduta, di rialzarsi da ogni scivolone, di reagire ad ogni turbamento.
Se, poi, ci domandiamo perché all’uomo contemporaneo riesca così difficile pregare, e come mai gli stessi cristiani e i loro pastori, gli uomini di Chiesa, tendano a trascurare – nei fatti, anche se non a parole – l’attitudine a pregare nel corso della loro giornata e della loro vita, crediamo che la risposta stia nel fatto che pregare significa mettere in evidenza due fatti che, all’uomo moderno, non piace ammettere: primo, il riconoscimento della fragilità umana e, quindi, del limite invalicabile cui è egli è soggetto, in quanto creatura; secondo, la confidenza in Dio, che, se è motivo di gioia e di rinnovato ardore spirituale per colui che la vive in profondità, appare, invece, come una sorta di minaccia o di ostacolo al pieno esplicarsi delle potenzialità umane, se guardata da un punto di vista materialista e immanentista. Pregare è una attitudine che presuppone sia l’umiltà di chi sa di essere piccolo e debole, sia l’audacia dell’innamorato che sa di poter chiedere molto all’amante, non per i propri meriti, ma perché l’amante è infinitamente sollecito e generoso nei suoi confronti. E pertanto se, nei confronti di Dio, l’uomo non è capace di porsi in un atteggiamento simile, allora la preghiera si presenta sotto una luce assurda e sgradevole, e, di fatto, diviene impossibile, come se un pesante macigno fosse caduto sul sentiero del dialogo fra l’uomo e Dio.
Per l’orgoglioso, infatti, è impossibile pregare; e lo è anche per il superbo, che confida soltanto in se stesso, oppure, all’opposto, che non riesce a pensare Dio se non come una copia di se stesso, e, quindi, lo ritiene incapace di perdonarlo e di amarlo, nonostante le sue cadute e la sua indegnità, proprio come egli sarebbe incapace di perdonare e di amare una persona cara, dalla quale fosse stato ripetutamente deluso e tradito. Bisogna essere molto umili, ma anche un po’ audaci, per ammettere che Dio non pensa e non sente come noi; che sa perdonare ogni cosa, purché ci sia, nell’anima nostra, un sincero e profondo pentimento; e che ci sa amare anche quando noi arriviamo a provare schifo di noi stessi. Il dramma dell’uomo contemporaneo, infatti, anche se non esplicitato – e, proprio per questo, reso più cupo e immedicabile – è il disamore di sé, il ribrezzo di sé, e l’incapacità di perdonarsi da se stesso. Gli atteggiamento edonistici e spavaldi non devono ingannare: si tratta, nella maggior parte dei casi, di mera apparenza. Anche se indulge nel più puerile narcisismo, o, forse, appunto per questo, l’uomo contemporaneo non si ama, non si vuole bene, non si accetta, non si perdona: è roso, letteralmente roso, dal demone dell’auto-distruzione, e cerca astutamente mille vie, anche le più tortuose, per farsi del male, per umiliarsi e per rendersi sempre più spregevole a se stesso.
Dalla superbia, però, non sorge alcuna possibilità di redenzione: è una pianta sterile, che consuma le sue foglie, i suoi rami e, alla fine, le sue stesse radici; per cadere infine e per morire, dopo che non le è rimasta alcuna parte di se stessa da poter divorare. Giuda, dopo aver tradito Cristo e averlo consegnato ai suoi nemici, affinché lo mettessero a morte, disperò di essere perdonato, perché era folle di superbia; e non gli restò altra via, per sottrarsi alla vista di se stesso, che lo disgustava, se non quella di uccidersi. Anche san Pietro si vergognò e si disprezzò sino in fondo all’anima, allorché – quando udì il gallo cantare, come Gesù gli aveva puntualmente predetto - si rese conto di aver rinnegato Cristo, ma resistette alla tentazione della disperazione, piegò il proprio orgoglio e corse a piangere amaramente, dando fondo alla sua ormai inutile vergogna; da lì poté incominciare la sua ripresa spirituale, che, nel giro di pochi giorni, lo riconsegnò, pentito e purificato, al pieno dominio di se stesso, cosa allora tanto necessaria per la riorganizzazione della prima comunità cristiana, senza più la presenza fisica del Maestro.
L’uomo contemporaneo, se vuol sottrarsi al suo destino di auto-distruzione, deve ritrovare il coraggio di pregare, cioè di confessarsi peccatore e, nello stesso tempo, di rivendicare arditamente la sua filiazione divina. Deve imparare a superare il disgusto di se stesso e convincersi che Dio non ha disgusto di lui, anzi, che lo ama infinitamente, e che lo vuole presso di sé, ma pentito, convertito e rinato nello Spirito Santo. Deve ritrovare l’umiltà e, nello steso tempo, l’audacia della fede. Nella preghiera, l’uomo non solo trova Dio, ma ritrova anche se stesso: si ritrova dopo essersi smarrito, dopo essersi allontanato anche da sé e da tutto ciò che gli è essenziale, per inseguire cose del tutto vacue e caduche. L’uomo che non prega è consegnato, come un prigioniero, alla sola condizione finita, e, quindi, è un uomo a metà: è un uomo che ha deciso d’interrompere la propria evoluzione spirituale, per regredire al di sotto della sua natura. L’uomo che prega, al contrario, è un uomo che esplica pienamente tutto il suo potenziale spirituale di figlio di Dio, e che riceve già, fin da ora, un pegno e una caparra del futuro regno di Dio. Il regno di Dio non è di questo mondo – sono parole di Gesù medesimo, da Lui rivolte a Ponzio Pilato – , e tuttavia esso può incominciare fin da ora., qui, subito. La preghiera è l’anticamera del regno di Dio, che si annuncia già sulla terra, mentre abbiano ancora un corpo che respira, mangia e beve. Sarà per questo che delle anime mistiche come Teresa Neumann, o come Marthe Robin, vissero di sola preghiera e dell’Ostia consacrata, per molti anni?...
Ci siamo dimenticati di pregare
di Francesco Lamendola
Ti piace vivere facile? Rinuncia alla battagliaL'uomo postmoderno è affetto da un atteggiamento mentale arrendevole, di chi se prende la via più comoda. Ricorre all'aborto se il bimbo è malato, alla provetta se non riesce ad averne, all'eutanasia se ha paura di soffrire. L'uomo di buona volontà invece accetta il verdetto della vita con mitezza, mentre il credente vi aggiunge il volto di Cristo.
Il senso di liberazione che ha accompagnato molti commentatori nell’apprendere che ora la cattedra di Pietro ha indicato una strada facilitata, se non una scorciatoia, nell’assolvere il peccato di aborto e nel togliere la relativa scomunica è indice di un atteggiamento mentale abbastanza diffuso in una certa cultura contemporanea. L’atteggiamento mentale proprio dell’arrendevole, di chi appunto se può prende la via più comoda, più confortevole, più esistenzialmente ergonomica.
L’uomo postmoderno infatti da tempo ha rinunciato alla battaglia. Aspetta un bambino malato? Ricorre all’aborto. Non vuole concepire un bambino malato? Opta per la diagnosi genetica pre-impianto. Non riesce ad avere un bambino? Prende la via facile della provetta. Teme di sopportare le conseguenze negative di una sessualità nomade? Fa uso della contraccezione. Prova disagio nella sua condizione sessuale? Cambia sesso come quando si cambia scuola perchè non ci si trova bene. Ha paura di soffrire nell’ultimo tratto di vita? Sceglie l’eutanasia. Teme di sposarsi la donna o l’uomo sbagliato? Va a convivere. Litiga in famiglia o non si sente realizzato (pur avendo prima convissuto)? Divorzia.
Invece quello che veniva definito un tempo “uomo di buona volontà” – cioè il portatore sano di buon senso, il credente ombra, colui che in pectore Dei è chiamato alla santità ma si attarda su questa strada pur avendo tutte le carte in regola per diventare santo (quindi tutti gli uomini) – quest’uomo di buona volontà pensa e agisce in modo diverso.
Aspetta un bambino malato? Lo amerà ancor di più dato che ne ha più bisogno. Non vuole concepire un bambino malato? Sceglierà, già senza saperlo, sin da ragazzo stili di vita sani che incideranno anche sulla salute del suo futuro figlio e che lo porteranno a diventare padre e madre in giovane età, abbattendo non di poco anche il rischio di malformazioni fetali. Non riesce ad avere un bambino? Accetterà il verdetto di questa vita con la mitezza di colui che sa che la vita è dono e non pretesa, temendo solo che gli venga tolto ciò che possiede, non ciò che semplicemente desidera. Teme di sopportare le conseguenze di una sessualità nomade? Non si pone nemmeno la domanda, perché nella donna e nell’uomo che ha sposato trova tutte e più le donne e gli uomini che poteva avere. Ergo non si è perso nulla. Prova disagio nella sua condizione sessuale? Chiede aiuto e non fantasiosi diritti. Ha paura di soffrire nell’ultimo tratto di vita? Sa che è umano e ben poco umano invece uccidersi. Teme di sposarsi la donna o l’uomo sbagliato? La sua polizza sulla felicità non è la convivenza, ma la decisione di donarsi a lei/lui totalmente e comunque vada. Litiga in famiglia o non si sente realizzato? Stringe i denti perché conscio che tutte le mete più alte sono le più impegnative.
E il credente come risponderebbe a queste domande? Il credente troverebbe al fondo delle risposte date dall’uomo di buona volontà il volto di Cristo. E così, se aspettasse un bambino malato? Lo accoglierebbe con quello stesso amore con cui Cristo accoglie noi, che siamo ben più che malati nel corpo: malformati nell’anima. Non vuole concepire un bambino malato? Prega e si affida a Maria. Non riesce ad avere un bambino? Si ricorda di Elisabetta e che Dio può far nascere figli di Abramo dalle pietre e se il bimbo non arrivasse si abbandonerebbe comunque alla volontà di Dio. Meglio la contraccezione se si è in troppi in famiglia? Meglio la Provvidenza. Prova disagio nella sua condizione sessuale? Si affida al giudizio della Chiesa e ha le certezza che potrà ritrovare la serenità con i giusti aiuti per lo spirito e la mente. Ha paura di soffrire nell’ultimo tratto di vita? Anche Cristo chiese che il calice della sofferenza non passasse da Lui - e noi valiamo meno di Lui - ma non si sottrasse alla croce. Teme di sposarsi la donna o l’uomo sbagliato? Si affida a Dio perché lo illumini nella sua vocazione matrimoniale. Litiga in famiglia o non si sente realizzato? Chiede perdono e sa che la persona che ha sposato è via per il Paradiso, la migliore realizzazione personale che uno possa mai desiderare.
Torniamo ora al nostro amico postmoderno. Nell’aspetto mostra baldanza: quante lotte sulle barricate per i diritti civili, quanti dibattiti al calor bianco in tv e sui giornali. Pare battagliero, sicuro di sé, indipendente (conta più divorzi che auto acquistate). Ma se lo passiamo ai raggi X si scopre che il suo scheletro è affetto da osteoporosi (spesso anche da astioporosi, cioè poroso al rancore). E’ un soggetto in fin dei conti imbelle, pavido, esangue, che di fronte alle sconfitte della vita e ai limiti che esse impone cerca sempre di aggirare l’ostacolo, come quegli studenti impreparati che accampano scuse oppure saltano la scuola nei giorni di interrogazione. Fa sempre un passo indietro, non affronta di petto la realtà (infatti se ne fabbrica una personale, a misura dei suoi gusti e più morbida) è un rinunciatario di professione (rinuncia al figlio malato, al coniuge infedele, all’assunzione di responsabilità per una gravidanza non prevista, al ruolo maschile o femminile se gli/le sta stretto, alla vita stessa se dolorosa). E’ un vile, un codardo che non tira fuori la grinta necessaria per tentare di vincere, ma si arrende di fronte al figlio, alla moglie, al corpo e all’identità sessuale imperfetti. Se le cose vanno male, le asseconda e attribuisce loro il nome di “diritti”. Ha scelto la porta larga, la via breve, la comodità del compromesso, la discesa delle passioni e quindi esulta di fronte all’assoluzione express convinto che anche al di là delle mura leonine ci si un benedetto Ministero per la semplificazione. Il detto “meglio un giorno da leone che cento da pecora” nelle sue mani si è capovolto e deflazionato: “meglio due giorni da pecora che un giorno solo da leone”. E’ un debole che come tutti i deboli è violento, ma mai forte. Si impone perché le sue idee per loro intrinseca fiacchezza non riescono ad imporsi. Prodigandosi in un inutile sforzo compensativo, alza la voce, perché ormai incapace di alzare lo sguardo verso Dio.
D’altronde ha preferito buttare nel sacchetto della spazzatura dell’indifferenziato Dio, Colui che ci ha ricordato che senza di Lui non possiamo fare nulla. Ed è solo il nulla che è in grado di produrre questo nostro amico postmoderno, un nulla dove si dissolvono vite, famiglie e identità personali.
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