CYBER "RELATIVISMO CAMUFFATO"
Padre Spadaro e la teologia del discernimento, ultima versione camuffata del relativismo. I preferiti di papa Francesco. La verità è che questa teologia pretende di giustificare il peccato, pur di rendersi popolare
di Francesco Lamendola
Il capitolo ottavo della esortazione apostolica Amoris Laetita,
quello che ha suscitato maggiori perplessità e preoccupazioni, perché
sembra introdurre nella teologia morale, e quindi nella prassi pastorale
e nel sacramento della Penitenza, germi di relativismo e di vero e
proprio soggettivismo, è stato ispirato a papa Francesco, a quel che
risulta, da uno dei suoi teologi “preferiti”, monsignor Antonio Spadaro.
Chi è costui? Spesso, per comprendere le mosse dei grandi personaggi,
bisogna spostare il fascio di luce sui loro consiglieri, quelli più
visibili e quelli più defilati. Spadaro, come del resto lo storico
Alberto Melloni e il sociologo Massino Introvigne, appartiene senz’altro
alla prima categoria: frequenti le sue apparizioni mediatiche, e, del
resto, come giornalista di primo piano, possiede automaticamente una
notevole visibilità pubblica. Messinese, classe 1966; ordinato sacerdote
a trent’anni, nel 1996, entra nella Compagnia di Gesù nel 2007, a
quarantuno. È quel che si dice un prete giovanile: molto interessato
alle nuove tecnologie informatiche, all’arte e alla letteratura moderne,
ha portato ne La Civiltà cattolica,
di cui è diventato direttore nel 2012, ma alla quale collaborava da
molti anni, una ventata di modernità (inutile dire che tale espressione,
per noi, non implica affatto una valutazione di segno positivo; semmai
il contrario).
È stato a capo di un settore della Pontifica Università
Gregoriana che si occupa dei temi dell’innovazione e della spiritualità,
rivolgendosi a un pubblico di docenti e di manager. Cura un sito
internet personale e un paio di blog e dedica molto spazio alla
cosiddetta cyber teologia. Tale è il termine da lui coniato per definire “l’intelligenza della fede ai tempi di Internet”:
a questo argomento ha dedicato un libro, e, crediamo, già da questo si
può capire l’uomo. Evidentemente, per lui “i tempi della rete” rendono
necessario un diverso approccio alla teologia; la “vecchia” teologia,
quella di San Tommaso d’Aquino, poteva andar bene per i rozzi e
arretrati uomini delle epoche pre-modene; ma adesso che abbiamo le
meraviglie dell’informatica e del digitale, come si fa a parlare ancora
di Dio e della fede con il vecchio linguaggio, i vecchi concetti, i
vecchi e obsoleti modi di pensare?
Ne
conosciamo parecchi, ormai, di codesti laudatori della modernità
informatica, e abbiamo osservato che sono particolarmente numerosi
proprio nell’ambito umanistico, quasi più – in proporzione - che in
quello scientifico-matematico. Per esempio, nel mondo della scuola, sono
numerosissimi i professori di materie umanistiche, di italiano, di
latino, di storia, di filosofia, che non possono più nemmeno concepire
le loro lezioni di liceo senza il supporto del’informatica: si recano,
con le loro classi, nei laboratori d’informatica, a far lezione
attraverso lo schermo dei computer, con una frequenza persino maggiore
dei loro colleghi di matematica. Devono far vedere che loro, pur essendo
esperti di materie umanistiche, non hanno una mentalità passatista, e
che “letteratura”, non fa rima con “arretratezza”: perciò, avanti, miei
prodi, alla riscossa, si tratta di espugnare la cittadella del sapere e,
per farlo, non c’è nulla di meglio della rete. Sì, è vero che per
generazioni e generazioni degli ottimi professori di italiano, di
latino, di greco, di filosofia e di storia non hanno avuto alcun bisogno
del computer, e che le loro lezioni, appassionanti e ricche di sapere,
sono rimaste impresse nella mente e nel cuore dei loro alunni, senza
bisogno di alcun genere di supporto elettronico; ma erano altri tempi,
che volete farci, se avessero vissuto anche loro ai tempi della rete, di
certo avrebbero approfittato della meravigliosa opportunità di
introdurre tutta una serie di metodi nuovi, di procedure nuove, con
immenso vantaggio della didattica e della qualità dell’apprendimento.
E
così, che per fare teologia ai nostri giorni sia necessario ripensare
le categorie stesse della teologia, alla luce dell’informatica,
questa è una cosa che ci giunge nuova e che ci lascia perplessi, anzi,
diciamo pure che non ci convince affatto; diciamo pure che ci sembra una
grande sciocchezza. Per ragionare delle cose divine, non c’è bisogno di
aggiornarle a seconda delle ultime scoperte tecnologiche; anzi, è
proprio sbagliata l’idea. Dio è l’Assoluto, l’Eterno; chi studia
teologia, tenta di avvicinarsi un poco al mistero dell’Assoluto e
dell’Eterno; e pertanto, ben lungi dall’avere bisogno di aggiornarsi e
di informarsi a proposito delle ultime novità scientifiche e
tecnologiche, egli ha bisogno di tutto ciò che favorisce l’accostarsi al
mistero di Dio: preghiera, umiltà, adorazione, contemplazione,
meditazione, silenzio, solitudine, riflessione, spiritualità (anche
senza manager), ascolto di ciò che Dio ha da dire a chi lo cerca con
cuore sincero e con animo puro. Altro che macchine, ancora macchine,
sempre più macchine! Al contrario; le macchine hanno creato il
tecnicismo, il tecnicismo ha alimentato il materialismo e il
meccanicismo, il materialismo e il meccanicismo hanno alimentato lo
scetticismo e il relativismo: questa è la strada che allontana da Dio,
non che avvicina l’uomo a Lui. Inoltre, è la strada reale del
conformismo: è il correre dietro alle mode, alle ultime novità, a ciò
che ”fa tendenza” nel presente; ma chi studia teologia sa che le mode
durano un battito di ciglia al cospetto dell’eternità, e che le verità
perenni cui l’uomo tenta di avvicinarsi, indagando il mistero del
divino, non appartengono a nessun’epoca, perché oltrepassano tutte le
epoche, per cui voler fare teologia “alla maniera di internet”, fra
venti o trent’anni apparirà patetico, come lo sarebbe stato, trent’anni
fa, voler fare teologia “alla maniera del Capitale” (e infatti
c’è stato qualche teologo “operaista” e sessantottino che ha preso
questo penoso abbaglio e si è visto totalmente smentito dallo sviluppo
storico, con il crollo del comunismo e la dissoluzione del proletariato
industriale quale protagonista delle “rivoluzioni”).
Dopo la pubblicazione di Amoris laetitia, di cui è considerato, quanto meno, l’ispiratore, Spadaro ha pubblicato, sul sito de La civiltà cattolica,
una specie di manuale d’istruzioni per interpretarla correttamente, una
“guida alla lettura” in cui la parola chiave è “ricontestualizzare”.
Come per la cosiddetta cyber teologia, si tratta di rimettere la
dottrina cattolica nel nuovo contesto che si è venuto a creare nella
società, per effetto della secolarizzazione. Anche in questo
caso, non è l’uomo che deve sforzarsi di andare incontro a Dio, ma gli
esegeti di Dio, o sedicenti tali, che vanno verso l’uomo (moderno) con
tutto l’armamentario della modernità, per rendergli più facile e
gradita la pillola che, altrimenti, potrebbe risultargli un po’ troppo
pesante da digerire. Padre Spadaro dice che “l’annuncio evangelico non
deve apparire svincolato dalle concrete condizioni storiche della
società”: in ossequio a quella tendenza o corrente della teologia
post-conciliare che va sotto l’etichetta di “svolta antropologica”, ma
che sarebbe più esatto definire “svolta storicistica”. Sostituiamo alla
parola “contesto” la parola “storia”, e la cosa diverrà più chiara.
Tradotto in parole povere: la dottrina deve essere adattata e
ricalibrata a seconda della realtà storica in cui viene predicata. Noi
riteniamo che questo sia un errore colossale; i teologi progressisti
pensano che sia un concetto essenziale e irrinunciabile. Vorremmo
sottolineare che qui non si sta parlando della liturgia, né delle forme
esteriori (la liturgia, peraltro, è ben più che “forma esteriore” dei
riti sacri), bensì proprio della dottrina. Per cui la domanda che ci
deve porre è questa: la dottrina cattolica è perenne, sì o no? E, se lo
è, lo è in quanto parola di Dio, si o no? E allora, come è possibile che
la si debba sottoporre a continue “revisioni”, come se fosse una
vecchia automobile, bisognosa di controlli da parte dell’ufficio
motorizzazione civile, per avere il permesso di circolare?
Gli
ambienti ecclesiastici più conservatori, afferma qualcuno, non
accettano che venga anche solo minimamente scalfita la dottrina; padre
Spadaro si considera un crociato nella battaglia contro costoro. Ma la
verità è che hanno ragione da vendere quelli che i cattolici
progressisti fanno passare per “conservatori”, mentre sono,
semplicemente, dei cattolici fedeli alla parola di Dio: non è stato Gesù
in persona a dire che, dalla Legge, non sarebbe cadrà mai neppure uno
iota? Iota unum: nemmeno uno iota deve essere cambiato o
abolito. Sono parole di Gesù, non di qualche bieco conservatore. I
progressisti, per caso, vogliono aggiornare e correggere la parola di
Gesù Cristo? Che mettano le carte in tavola, una buona volta, e che lo
dicano: Noi non vogliamo avere nulla a che fare con il cattolicesimo
delle passate generazioni, con il cattolicesimo di prima del Concilio
Vaticano II; e anche di quello successivo, di questi ultimi
cinquant’anni, noi accettiamo solo ciò che è, a nostro insindacabile
giudizio, nello “spirito” del Concilio. Per il resto, vogliamo edificare
un cattolicesimo nuovo, moderno, tonico e palestrato, agile,
maneggevole, al passo coi tempi: tempi nuovi, tempi magnifici e
progressivi, nei quali si dispiegano i prodigi della modernità e le
stupefacenti opportunità offerte dall’informatica. Siamo cattolici
fortunati, noi, che viviamo nell’era della rete! Perché non lo
dicono? Eppure, è evidente il loro fastidio per il cattolicesimo delle
nonne, del Rosario, del culto di Maria; è evidente che loro si sentono
un bel po’ di gradini più in alto, un bel po’ più innanzi sulla via del
progresso, e, quindi, anche sulla via della giusta interpretazione del
Vangelo. Strano: non ricordano quel che disse Gesù a proposito del
diventare simili ai bambini, per entrare nel regno dei Cieli? Ti
rendo lode, o Padre, Signore del Cielo e della terra, perché hai
nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate
ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te! (Matteo, 11, 25-26).
Del
resto, basta vedere come padre Spadaro ha reagito alle critiche e alle
perplessità avanzate dai quattro cardinali che hanno indirizzato a una
lettera, rimasta senza risposta, alla Congregazione per la Dottrina
della Fede, in merito ai punti controversi di Amoris laetitia, e, guarda caso, proprio al capitolo ottavo. Per lui, i dubia
avanzati da Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke, Carlo Caffarra e
Joachim Meisner, semplicemente non hanno consistenza: secondo lui, basta
leggere serenamente quel documento, e chiunque vi troverà le risposte a
qualsiasi domanda, “se fatta con sincerità”. Come dire che lui è
“sincero”, loro sono in malafede. Solo che lui è parte in causa, non
dovrebbe nemmeno parlare, tanto meno accusare. Dopotutto, i quattro
cardinali si sono limitati ad esprimere le legittime perplessità di una
vasta parte del clero e degli stessi fedeli: non si capisce cosa ci sia,
nel loro agire, di “insincero”, o peggio. O peggio: secondo Pio Vito
Pinto, decano della Sacra Rota, essi hanno agito come i portavoce di
“un’altra Chiesa”, che non è quella cattolica; per quella cattolica ha
parlato il papa, e tanto basta. E si è spinto anche più in là, monsignor
Pinto: ha ipotizzato che il papa potrebbe anche decidere di revocare ai
quattro “ribelli” il cardinalato. Sempre più strano: i progressisti
invocano di continuo la democrazia, dicono che la Chiesa dovrebbe fare
proprio il metodo democratico; ma se, per caso, qualcuno non condivide
le loro idee, ecco che lasciano cadere la maschera e si mostrano per
quello che sono: delle persone arroganti e incapaci di dialogare, per le
quali la parola “tolleranza” vale solo a senso unico, il loro.
Comunque, per padre Spadaro, oltre a “contestualizzazione”, l’altra parola chiave è “inculturazione”.
La dottrina cattolica va predicata tenendo conto delle singole culture,
e calandola nelle singole situazioni. Sembrerebbe un principio giusto,
detto così; ma, in pratica, vediamo quali conseguenze ne tira, per
esempio a proposito dei divorziati risposati (citiamo un passaggio della
sua “guida alla lettura” di Amoris laetitia):
Sarebbe
una illusione credere che la gente sia rassicurata e consolidata nei
valori solamente perché si insiste ne predicare la dottrina senza dare
adeguato spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono
quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono
portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in
cui si rompono tutti gli schemi.
Che capolavoro di gesuitismo! Aprendosi
la strada in mezzo a questa lussureggiante vegetazione di eleganti giri
di frase, quel che emerge è che la dottrina cattolica viene stabilita,
di volta in volta, soggettivamente, dal personale discernimento dei
fedeli. I quali, poverini, rispondono al Vangelo “quanto meglio
possibile”, perché devono destreggiarsi in situazioni “in cui si rompono
tutti gli schemi”. Si vede che ai tempi di Gesù non c’erano situazioni
“in cui si rompono tutti gli schemi”; e si vede che Gesù, per loro, era
tacitamente d’accordo che le persone decidano da sé se il proprio
matrimonio è valido. A noi, veramente, risulta che disse: L’uomo non separi ciò che Dio ha unito,
ma si vede che Spadaro ne sa più di noi, semplici lettori del Vangelo.
Peraltro, non si può fare a meno di notare che, in definitiva, per lui e
la sua teologia, non sono tanto i singoli cristiani, meglio se
divorziati e risposati, a decider da sé se hanno commesso un peccato
grave, infrangendo un sacramento; a deciderlo sono lui e i suoi colleghi
progressisti e modernisti. E poi che vuol dire “fare del proprio
meglio”? Il Vangelo è un invito alla santità, o non è niente: altro che fare del proprio meglio. La verità è che questa teologia pretende di giustificare il peccato, pur di rendersi popolare…
Padre Spadaro e la teologia del discernimento, ultima versione camuffata del relativismo
di
Francesco Lamendola
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